Live Report: Colony Open Air Brescia, 22 e 23 luglio 2017
Colony Open Air
Pala Brescia
Sabato 22 e domenica 23 luglio 2017
Live report di entrambe le giornate
Sabato 22 luglio 2017: in perfetto orario prende in via il Colony Open Air “al chiuso”, kermesse che ha molto fatto parlare di sé per motivi non strettamente legati solo all’aspetto musicale. Gli Skanners prendono posto sulle assi del Pala Brescia spaccando come al solito, nonostante l’orario (12.30) non sia di certo il migliore per esibirsi in una rassegna del genere. Buona parte del pubblico deve ancora arrivare ma nulla ferma la carica metallica dei bolzanini che a partire da “Welcome to Hell” per finire con la straclassica “Starlight” passando per “Factory of Steel” suonano e si dimenano come se fossero a un qualsiasi festival oltre il Brennero, che ci siano cento persone davanti a loro o duemila non cambia nulla! La classe non è acqua e la professionalità si denotano anche da queste cose. Umiltà e “Credo”, come quelli dimostrati dagli In.si.dia subito dopo, a chiudere la doppietta tutta italiana della giornata di sabato. I bresciani giocano in casa e lo sottolineano a chiare lettere, affondando il colpo a suon di “Il Mondo Possibile”, “Parla Parla” e altri must made in BS. Per entrambe le band, molto applaudite da chi c’era, chapeau, per quanto scritto sopra. SR
GALLERY FOTOGRAFICA SKANNERS
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GALLERY FOTOGRAFICA INSIDIA
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Hell: metallarissimi, fottutamente british- ci mancherebbe pure! – ortodossi e nello stesso tempo tutt’altro che domodè. Due PERSONAGGI due che paiono fuoriusciti dai fumetti Horror del passato – intendo il singer David Bower e il bassista Tony Speakman – e una botta di METALLO sul pubblico dalla portata micidiale, assimilabile alle bordate di acciaio che sanno dispensare “defenderoni” quali Saxon e Judas Priest, per capirci. La VERA teatralità di band come gli Hell non si inventa su due piedi, qualche esempio della stessa posticcia e forzata si avrà lungo la giornata di domenica, anche se ci sta eccome, sia ben chiaro, ma su altri livelli… Le fustigate che si è procurato David Bower, corona di spine in testa, hanno creato sanguinamenti VERI, laceranti, testimone la nostra Elena Pisu che era lì a un metro. Nulla di inventato, sofferenza e masochismo da parte del singer degli Hell che spinge sin che può il teatro realista dei suoi freak, sulla base di bordate del calibro di “Something Wicked”, “Blasphemy” e “The Quest”. Heavy Fucking Metal evocativo e possente proveniente dalle nebbie della Nwobhm, interpretato con possanza e presenza scenica da autentici dannati del METALLO. HAIL. SR
GALLERY FOTOGRAFICA HELL
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GALLERY FOTOGRAFICA ASPHYX
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Prime mover della scena death metal europea, gli Asphyx hanno dimostrato questo pomeriggio di non essere semplicemente dei veterani, ma dei veri e propri maestri del genere. Death classico, marziale, quadrato e praticamente privo di assoli quello proposto dagli Olandesi, che gira completamente attorno alle urla sgraziate e sofferenti di Martin Van Drunen, che agita la chioma ormai completamente canuta e si aggrappa all’asta del microfono come se fosse una vera e propria falce da guerra. In contrasto, non ha bisogno di scimmiottare sguardi arcigni verso la folla, al contrario, sorride soddisfatto ed incita i fans. Il parterre è tutto per loro e risponde convinto alla setlist breve, ma solidissima. Colpisce il lavoro di Paul Baayens che sforna riff pesanti come macigni e affilatissimi. Impossibile non agitare le teste e tornare con il pensiero per qualche momento ad inizio anni ’90, dove un pugno di band contribuivano a forgiare un genere. A conferma di ciò, si chiude con i classici: The Rack e, soprattutto, Last One On Earth, sono il sigillo ad una prestazione di alto livello, che rimarrà certamente tra le migliori della giornata. VC
GALLERY FOTOGRAFICA LOUDNESS
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Con un netto cambio di sonorità, fanno il loro ingresso in scena i giapponesi Loudness. Assieme ai nostri Skanners, la band del Sol Levante rappresenta il lato più classic metal della giornata di sabato. Negli anni Ottanta, la compagine originaria di Osaka, grazie a dischi di valore come “Thunder in the East”, “Lightning Strikes” e “Hurricanes Eyes”, è riuscita a imporsi a livello mondiale, andando vicino a compiere quel salto di qualità che la avrebbe proiettata nell’olimpo del metal. La storia la conosciamo bene e, purtroppo, alcune “imposizioni” del music business hanno avuto un effetto completamente opposto. Poco importa, dopo un periodo buio i nostri hanno saputo risollevarsi, riunendosi con la formazione originale, superando la triste scomparsa dello storico drummer Munetaka Higuchi nel 2008, diventando una sorta di leggenda della scena più classica. Ruolo che viene ulteriormente sottolineato nella giornata odierna, vista la numerosa presenza di fan durante tutta la loro esibizione. I Loudness vanno sul sicuro e rispolverano una serie di classici immortali come “Crazy Night”, “Heavy Chains”, “Let it Go” e “Crazy Doctor”, facendo fare a tutti gli astanti un viaggio a ritroso nel tempo, portandoci direttamente negli Ottanta. I Nostri si divertono sul palco, sfoggiando gran classe e la solita spaventosa perizia tecnica, dove spicca, in particolare, il virtuoso chitarrismo di Akira Takasaki. Un solo rammarico: non aver potuto ascoltare le quintalate di metallo sparate da una canzone come “Like Hell”, non prevista nella scaletta odierna. L’esibizione dei Loudness è iniziata verso le 16:00, la giornata è ancora lunga e il tempo diventa tiranno… Capitolo nostalgico a parte, i nipponici hanno regalato una prestazione convincente, ma i Loudness sono ormai una sicurezza dal vivo. MD
GALLERY FOTOGRAFICA DEATH ANGEL
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I Death Angel erano una delle band più attese della prima giornata del Colony Open Air, una compagine che dal vivo difficilmente sbaglia il colpo. I Nostri salgono sul palco verso le 17:10 per uno show che si rivelerà dinamite pura. Bastano le note iniziali dell’attacco di “The Ultra Violence”, a cui viene fatta immediatamente seguire “Evil Priest”, per conquistare la folla. Il quintetto è ormai una macchina perfettamente oliata, suona con precisione chirurgica e aggredisce lo stage con la solita carica e aggressività, capitanati da un Mark Osegueda in forma smagliante. Lo show dei Death Angel sarà breve ma intensissimo, pregno di quella abrasività e adrenalina che da tempo caratterizza le esibizioni della formazione americana. Il pubblico risponde alla grande, invocando a più riprese il nome della band e dando vita a dei veri e propri mulinelli umani, completamente assoggettato al volere dei cinque thrasher sul palco. In poche parole: una mattanza. A detta di chi scrive, tra i migliori della prima giornata. Risultato facilmente prevedibile, al momento i Death Angel, assieme a Kreator, Megadeth e Overkill, sono tra la band più in palla dal vivo, nel thrash e affini. MD
GALLERY FOTOGRAFICA DEMOLITION HAMMER
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Dopo i Death Angel, è ancora tempo di thrash d’annata. Anzi, con i Demolition Hammer non si sbaglia se si definisce il loro sound ai limiti del death-thrash metal e, assistendo all’esibizione di questa sera, la conferma della violenza loro proposta è sotto gli occhi di tutti. Sul palco ci sono i tre membri storici Steve Reynolds al basso e voce, James Reilly e Derek Sykes alle chitarre, supportati dal più giovane e neo-entrato Angel Cotte alla batteria. Il Martello da Demolizione rispetta in toto il suo monicker e sfodera una prestazione da paura, che ha letteralmente asfaltato il parterre, composto da giovani e meno giovani thrasher letteralmente annichiliti da un tiro che dal vivo si è sperimentato poco spesso. La band newyorkese, saccheggiando i due classici Tortured Existence e Epidemic Of Violence, è compatta, essenziale e, consapevole del poco tempo a disposizione non si perde in chiacchiere va dritta al punto. Tanto arrosto e poco al fumo per i presenti (complice il look basico e l’immagine stagionata dei nostri). Fa specie come una band tutto sommato di nicchia ai tempi d’oro della propria carriera impatti sul pubblico così tanto nel momento del ritorno sulla scena. Un pubblico che ha mostrato il proprio gradimento durante veri e propri inni thrash come Infectious Hospital Waste e .44 Caliber Surgery; a bocce ferme e a detta di molti, una delle più lampanti sorprese del Festival. VC
GALLERY FOTOGRAFICA EXCITER
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Attesissimi da buona parte dei defender con qualche anno sul groppone, gli Exciter con la formazione originale – John Ricci, Dan Beehler, Allan Johnson – si impossessano del palco del Colony Open Air da vecchi marpioni. Poco importa che John Ricci si perda un po’ via con il primissimo assolo, che la scaletta non contempli “Pounding Metal” per motivi di tempo e che i suoni non siano al meglio: la carica animale dei Crazy Canucks è la solita. Devastante, letale, sostenuta dalle urla di Dan Beehler e si scatena l’inferno sul trittico micidiale – non suonato in sequenza – “Violence and Force”, “Heavy Metal Maniac” e “Long Live the Loud”. SR
GALLERY FOTOGRAFICA SACRED REICH
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In più trent’anni di attività, i Sacred Reich hanno suonato in Italia solo due volte e proprio nel giro dell’ultimo anno. Merito del forte aumento del numero di occasioni per suonare dal vivo, certo, ma anche tanto di cappello ad una band che nonostante le difficoltà e gli anni sulle spalle continua a regalare ai propri fans prestazioni di alto livello, compatte, energiche e coinvolgenti. Sicuramente l’essere tornati con la stessa formazione degli esordi aiuta, lo spirito magari non è lo stesso degli anni ’80, in compenso la certezza dei propri mezzi e la sicurezza sul palco sono anche aumentate: non è infatti la rottura di una corda del basso di Phil Rind proprio all’inizio del primo pezzo ad impensierire il rotondo frontman, che affronta la disavventura con piglio divertito e, grazie al basso prestato da Steve Reynolds dei Demolition Hammer, continua senza problemi lo show. La setlist è abbastanza simile a quella dell’anno scorso al Fosch Fest, quasi tutti classici, dai testi intelligenti e taglienti. Non manca un diretto quanto poco sorprendente attacco al Presidente Americano Trump, insultato senza tanti complimenti, ma del resto questo è il mimimo per una band sempre attenta alla politica contemporanea e critica verso il sistema. Il pubblico non ha certo bisogno di preghiere per partecipare attivamente allo spettacolo, e con il poker finale Independent-War Pigs-The American Way-Surf Nicaragua si chiude un concerto che ha visto nuovamente i Sacred Reich fare un’ottima impressione. Considerato che dall’ultimo album in studio sono passati più di vent’anni, è lecito sperare in nuova musica da parte della band di Phoenix. VC
GALLERY FOTOGRAFICA WINTERSUN
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Non conoscevo i Wintersun in versione live. Il fatto che ci fossero state delle dispute sull’orario dell’esibizione, la durata dello show e la posizione all’interno del bill nell’intervallo ricompreso fra Sacred Reich e, appunto, Wintersun, presupponeva una probabile disputa fra agenzie, promoter e chi più ne ha più ne metta. Quello che conta, al solito è però quanto viene restituito in termini di calore e coinvolgimento emotivo da parte delle band nei confronti del pubblico e, da questo punto di vista, né gli americani né i finlandesi hanno deluso. Così come molti dei presenti erano approdati in quel di Brescia principalmente per UN GRUPPO in particolare, fra le prime file di fronte a Jari Mäenpää e soci erano assiepati parecchi fan dei Wintersun, armati di T-Shirt e curiosità per l’esibizione. Il fatto di essere un poco fuori contesto per alcuni con il loro Death Metal sinfonico dai tratti peculiari non ha inficiato lo show degli autori di The Forest Seasons che, forse proprio per questo, ci hanno dato dentro alla grande in termini di energia, coadiuvati da un palco super accessoriato con prevalenza delle tonalità verdi sui vari teloni issati, non deludendo coloro i quali erano lì per loro. Probabile qualche inesorabile taglio alla scaletta, visto il protrarsi delle operazioni iniziali di regolazione dei suoni. SR
GALLERY FOTOGRAFICA KREATOR
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Dopo il recente passaggio in terra lombarda a supporto del fortunato Gods Of Violence e forti degli ottimi dati di vendita e classifiche, sono i Kreator gli headliner della prima serata del festival. Il gruppo di Essen è ormai da più di trent’anni sulle scene e sembra di aver raggiunto un livello di amalgama perfetto: i fidatissimi Ventor e Christian Giesler sono ormai al fianco del mastermind Mille Petrozza da una vita e lo stesso Sami Yli-Sirniö oramai non può più essere definito “il nuovo entrato”. Tutti e quattro i componenti coprono i loro ruoli in modo colladauto e ineccepibile, in particolar modo si nota come la voce di Petrozza “tenga” ancora e che lo stesso Ventor abbia raggiunto un livello tecnico davvero valido, specialmente se paragonato agli zoppicanti inizi. Lo spettacolo a livello di luci è sgargiante e subito lascia intendere come si voglia stupire a livello visivo. La tracklist è decisamente orientata al presente, con la stragrande maggioranza dei pezzi presi dai dischi più recenti, specialmente dall’ultimo. Questa scelta prende leggermente in contropiede chi tra i presenti è più legato alla matrice di thrash grezzo e pesante nel gruppo. Già, perché i Kreator con lo spettacolo di questa sera (ma la cosa si era notata anche ascoltando gli ultimi lavori in studio) denotano la volontà di dare maggiore respiro alla loro proposta, rendendola molto più corale rispetto agli assalti frontali di un tempo, più melodica e adatta alla dimensione live più popolare. E’ sufficiente ascoltare pezzi come Satan Is Real o Fallen Brother per rendersi conto che questa trasformazione ha probabilmente raggiunto il punto di non ritorno. Il tutto, poi, è contornato da un trionfo di cannoni ad aria compressa, stelle filanti e coriandoli sparati sul pubblico. Lo show è spettacolare, i più giovani hanno probabilmente trovato un altro idolo da posizionare accanto ai vari Amon Amarth e Arch Enemy, ma chi era legato all’intransigenza del thrash metal di Petrozza & Co. non può non aggrottare la fronte e le varie People Of The Lie, Total Death e Pleasure To Kill (fortunatamente posta in chiusura), unici riferimenti al passato, sono solo un piccolo contentino. La prima giornata del Colony Open Air si chiude quindi in gran stile, con uno spettacolo roboante e ridondante, fumo e arrosto insieme, ma che in un certo fa riflettere sul futuro della band che lo ha proposto. Poco male, tutto sommato, il pubblico lascia la sala stanco e soddisfatto, pronto ad affrontare una seconda giornata orientata ai suoni più estremi. VC
Domenica 23 luglio 2017. Ad aprire la seconda tornata musicale del Colony Open Air, dedicata alle sonorità più estreme e oscure, ci pensano i bresciani Kaiserreich. La band è dedita a un black metal tradizionalista, fortemente debitore alla scena nordica, in cui si possono trovare riferimenti ai Marduk. I Nostri si presentano agghindati come il genere impone, sfoggiando face painting e bracciali borchiati. I Kaiserreich aggrediscono bene il palco e suonano con precisione le proprie parti, dimostrando di tenerci a fare bella figura in un contesto importante come quello del Colony Open Air. Poco importa se la loro proposta risulti derivativa, lo show si lascia apprezzare per la carica e la convinzione profuse. Unica pecca l’affluenza: alla stessa ora del sabato, i fan presenti erano ben più numerosi. A fine concerto dei Kaiserreich, in attesa che vengano ultimate le operazioni per il cambio palco, faccio due passi tra gli stand di cd presenti all’interno del Pala Brescia. Qui incontro e scambio due chiacchiere con Titta Tani, il batterista dei Goblin di Claudio Simonetti, presente a entrambe le date del festival. Dopo questo piacevole incontro, mi dirigo nuovamente verso lo stage in attesa dello show dei romani Deceptionist. La band, nata da una costola degli Hideous Divinity, propone un death metal brutale e tecnico, dando ampio spazio ai pezzi provenienti dal debut album del 2016. Anche i Deceptionist salgono sul palco carichi e danno vita a uno show impeccabile, esibendo grandi doti tecniche, in cui spiccano i due chitarristi Fabio Bartoletti e Antonio Poletti, proponendo canzoni di livello. Un nome sicuramente da tenere d’occhio in previsione futura. Tocca poi ai bergamaschi Ulvedharr, che abbiamo recentemente ammirato sul palco della quarta edizione del Truemetal Fest. Il quartetto non ha bisogno di presentazioni e sale sullo stage con la solita aggressività che contraddistingue i loro live. Anche per gli Ulvedharr vale quanto detto per i Kaiserreich: sebbene la proposta risulti derivativa (gli Unleashed fanno spesso capolino n.d.r.), i nostri danno vita a uno show convincente e piacevole. Su questo non c’erano dubbi, il quartetto di Bergamo, in sede live, sta diventando una garanzia. MD
Dopo la tripletta iniziale, altre tre compagini da seguire con attenzione e che per motivi diversi hanno tratti decisamente in comune: innanzitutto tutte e tre fanno riferimento allo stesso genere, un feroce brutal death metal, seppure declinato in modo diverso. Poi, i romani Hideous Divinity e i maltesi Beheaded sono compagni di etichetta, la piccola ma estremamente intraprendente Unique Leader Records. Inoltre i “nostrani” Antropofagus e gli stessi Beheaded condividono il batterista, quel Davide “BrutalDave” Billia, deus ex machina del suo strumento e già attivo con Hour Of Penance, Septycal Gorge e tanti altri. Insomma, con le tre band abbiamo a che fare con un paio d’ore di death metal brutale e intransigente che fa gola agli ancora pochi ma appassionati astanti. Si diceva prima, tre modi diversi di intendere il genere: abbiamo gli Hideous Divinity, capitanati da uno scalpitante Enrico Di Lorenzo, che basano la loro proposta su un suono profondo, tecnico e strutturato. Pochi gli assoli, grande lavoro di riffing e di ritmiche, per una performance che vede il nuovo album Adveniens proposto nella sua interezza. Ci sono poi gli Antropofagus, con un death metal chiuso su se stesso, nel senso positivo del termine: opprimente e spietato, con il mastermind Francesco “Meatgrinder” Montesanti che forse oggi non avrà macinato carne ma certamente centinaia di riff affilati e taglienti e con Mattia “Tya” De Fazio, vero animale da palco, che sputa sulle prime file growl disumani. Un vero peccato la sua fuoriuscita dal gruppo, immediatamente successiva al festival. A chiudere questo tris d’assi del metallo della morte, ci sono i Beheaded, anche loro come gli Antropofagus, dei veterani della scena underground. Rispetto alle due precedenti band, il loro death metal è meno tecnico, brutale ma più classico e anche le toppe sui giubbini dei membri non nascondono la passione per i gruppi più vintage del genere. Il frontman Frank Calleja, con in suo fare quasi piratesco, sa certamente il fatto suo e guadagna la simpatia del parterre quando inizia ad arringare le prime file con un ottimo italiano. Altra freccia al loro arco, è il fatto che la loro proposta, in un certo senso più diretta rispetto alle due precedenti band, è più lineare e facilmente fruibile dal parterre, specialmente nella dimensione live. I tre show sono impeccabili nella precisione e nella puntualità, accettabili a livello di suoni (praticamente nessun soundcheck è stato eseguito). Un vero e proprio massacro sonoro. E pensare che siamo ancora agli inizi della giornata… VC
Ero molto curioso di vedere all’opera gli olandesi Carach Angren, un nome che sta acquisendo sempre maggiore popolarità ma che, almeno per il sottoscritto, risultava difficile capire se i consensi arrivassero per meriti musicali o per un’immagine curata al dettaglio, che trae ispirazione dai padri del symphonic black. In poche parole, serviva la prova on stage per capire quanto il gruppo fosse “vero” o “costruito”. Partivo prevenuto, inutile nasconderlo, ma lo show che i Carach Angren hanno generato sul palco del Colony Open Air mi ha completamente fatto cambiare idea. I suoni non li hanno aiutati, ma i nostri hanno letteralmente acceso la giornata della domenica, divertendo e conquistando gli astanti. Molto del merito ricade sulle spalle del vocalist Seregor, autentico animale da palco. Il cantante non è stato fermo un attimo: ha aggredito lo stage con continui headbangig, marce militari, cambi di look, interpretando al meglio le varie anime delle canzoni. È riuscito a ottenere la partecipazione del pubblico grazie alla sua aggressività e a qualche “astuzia”, come lasciare spazio a delle imprecazioni in italiano che, ai metalhead del suolo italico, piacciono tanto. Poco importa se Jack Owen (chitarra n.d.r) si è mosso poco, se il tastierista Ardek ha fatto il suo compitino, la scena era totalmente in pugno a Seregor. Piacevole il siparietto tra Seregor e Namtar (batteria n.d.r.) negli stop and go: il cantante saliva sulla pedana della batteria porgendo il microfono al drummer, che lasciava partire i classici “uh” in stile Tom G. Warrior. Il symphonic black proposto dai Carach Angren potrà piacere o meno, ma dal vivo date loro una possibilità. Una piacevole sorpresa. MD
Si continua con il black/thrash degli americani Absu, una formazione che, nel corso degli anni, ha saputo aumentare il numero dei propri seguaci, diventando uno dei nomi culto della scena black odierna. I Nostri salgono sul palco con la classica line-up a tre componenti, con il leader Proscriptor McGovern a occuparsi delle parti di batteria e voce, per poi diventare vero e proprio frontman, affidando le pelli a “Gunslut” Czapla. Sarà questa la parte più interessante dello show, in cui Proscriptor, come una sorta di novello David Bower, utilizzerà un microfono ad archetto, avendo così le mani libere per poter mettere in scena tutta la carica teatrale della propria esibizione. Certo, David Bower, oltre a essere un cantante heavy metal, è anche un attore di teatro. Le sue movenze sono curate ed eleganti, aggettivi che non possono essere utilizzati per descrivere quelle “sgraziate” di Proscriptor, che, in qualche frangente, hanno riportato alla mente il Gollum che abbiamo imparato a conoscere nella trasposizione su pellicola de “Il Signore degli Anelli” griffata Peter Jackson. Sebbene si possa scorgere qualche risatina tra il pubblico per il gesticolare del singer, i presenti sembrano gradire, rispondendo alla grande all’assalto sonoro perpetrato dagli Absu, che suonano con precisione le proprie parti. Un’esibizione portata avanti con convinzione, fede e un credo smisurato nella causa del lato oscuro che ha pienamente soddisfatto i fan della band presenti quest’oggi. MD
Non conoscevo i MGLA se non di nome, lo ammetto candidamente. I polacchi, secondo chi scrive, sono stati i vincitori della giornata di domenica in quel di Brescia. Un briciolo di soundcheck di spalle rispetto al pubblico, poi via, senza salutare né perdersi in smancerie, a una maratona black metal dalla potenza impressionante. Tre quarti d’ora circa di mattanza metallica, nessuna concessione né posa né proclama, men che meno un thank you o un grazzzie Italllia ma solo violenza e un muro sonoro dalle tinte nere figlio delle radici del genere, quelle germogliate in Norvegia dalla spinta malata di gente come Mayhem e Immortal. Capisci di trovarti al cospetto di un vero e proprio evento quando, guardandoti attorno per osservare la reazione del pubblico, noti al tuo fianco Mark Osegueda dei Death Angel. La domanda “Mark what do you think about the show?” è quantomai doverosa, e la risposta “It’s so intense”, detta con un’espressione del volto entusiasta, fa capire come la prestazione del quartetto abbia centrato il bersaglio. Con il loro set, i MGLA, hanno espresso l’essenza del lato più oscuro del metallo: freddi, glaciali, figure spettrali che prendono forma e vita, totalmente incappucciati, nonostante la temperatura, hanno raso al suolo le assi del Colony Open Air. Unica mossa alla fine, da parte del chitarrista/cantante M. che ha alzato il proprio strumento in segno di vittoria, per sé e per chi ha apprezzato, come il sottoscritto. Brixia capta est. HAIL. SR
Le ombre iniziano ad allungarsi e la giornata più estrema del Colony Open Air si avvicina velocemente al suo climax. Dopo la possente esibizione degli MGLA è il turno degli austriaci Belphegor a calcare le assi del palcoscenico. E la temibile compagine death-black non si limita a munirsi di strumenti e corpse-paint di routine, ma si preoccupa di agghindare la scena con i peggiori orpelli di carattere blasfemo ed orrorifico. Croci rovesciate, incenso, teschi e carcasse di animali a detta di qualcuno assolutamente vere: una scenografia del genere potrà far sorridere qualcuno (certamente la Polizia che girava annoiata per la sala), ma di sicuro aiuta i Belphegor a caratterizzare al meglio la performance. Una prestazione profonda, precisa e autoritaria. La band capitanata dal frontman Helmuth Lehner, ormai un veterano, sputa sugli astanti i propri inni satanici con efferatezza, eppure riuscendo a mantenere un piglio superbo, quasi altezzoso, tanto che la band – musicalmente molto in linea con i maestri del genere Behemoth – tende a risultare a volte un po’ fredda e quasi “antipatica”, al di là della parte recitata. Poco importa, il macabro show si chiude in modo impeccabile tra gli applausi dei non pochi blackster accorsi. VC
Si continua all’insegna della blasfemia in musica con i Marduk, un nome che rappresenta una vera e propria istituzione nell’ambito black più oltranzista. Una delle compagini più attese della domenica, i Nostri salgono sul palco verso le 22:00 e danno il via al proprio assalto sonoro con “Frontschwein”, tratta dall’omonimo album del 2015. La scaletta prevista dà spazio a presente e passato, proponendo alcuni classici come “Wolves”, “Souls for Belial” e “Materialized in Stone”. Balza subito all’attenzione come la band suoni con precisione le proprie parti, ma pecchi nell’impatto scenico. I nostri si muovono poco e non sembrano aggredire lo stage come ci hanno abituati nel corso degli anni. Lo stesso Mortuus, vero e proprio animale da palco, colui che solitamente funge da collante tra band e pubblico, stasera sembra staccato, freddo, non riuscendo a trasmettere quella carica adrenalinica che ha sempre contraddistinto le sue esibizioni. La folla sembra comunque apprezzare, tanto da urlare a più riprese il nome della band e a scandire, in maniera ritmica, quelle imprecazioni che sempre più spesso affiorano durante i concerti sul suolo italico. Lo show termina con la violentissima “Panzer Division Marduk”, uno dei classici del quartetto svedese, ma l’atmosfera non cambia: i Marduk suonano alla perfezione ma manca quell’impatto scenico a cui ci hanno abituati durante la loro pluridecennale carriera. Un concerto forse sottotono ma ugualmente apprezzato dai presenti. MD
Ci stiamo avvicinando alla fine del festival, all’appello manca soltanto un nome per concludere una seconda giornata all’insegna delle sonorità più oscure ed estreme, che ha visto un’affluenza inferiore rispetto al sabato. La storia la conosciamo bene: annunciati a pochi giorni dall’inizio del Colony Open Air come sostituti dei defezionari Morbid Angel, i Carcass, a detta di chi scrive, hanno sicuramente aumentato la qualità del bill di questa prima edizione del Colony Open Air. I Nostri salgono sul palco poco dopo le 23:00 e lo fanno con il piglio del grande gruppo, quello sicuro di sé e dei propri mezzi, che sa cosa dare al proprio pubblico e, soprattutto, sa come coinvolgerlo e mantenerlo vivo per tutta la durata dello show. Si parte alla grande con l’intro “1985” e “316L Grade Surgical Steel” con cui i Carcass mettono subito in chiaro che non sono venuti qui per fare prigionieri, ma per spazzare via tutto ciò gli si pari davanti. La scaletta è quella delle grandi occasioni, pescando sia dalla storia recente della formazione inglese che da quella passata. Il duo Bill Steer-Ben Ash scaglia sul pubblico, senza pietà alcuna, i personalissimi riff che caratterizzano i Carcass. Autentiche frustate condite da abrasività e melodia, supportati da una sezione ritmica stratosferica, composta dal terremotante drumming di Daniel Wilding e dal basso di Jeff Walker, pronto a sputare sul pubblico le sue taglienti vocals per adempiere alla perfezione al ruolo di bassista-cantante. Anche l’impatto visivo è curato al dettaglio: mosse combinate tra i due chitarristi, headbanging sulle parti serrate e un Jeff Walker autentico mattatore della serata. Interagisce con il pubblico, dialoga con i fan, li incita a battere le mani a ritmo, lancia un numero imprecisato di plettri e bottiglie d’acqua per correre loro in aiuto, visto il clima prossimo all’ebollizione che si è venuto a creare tra le prime file. La folla è in suo pugno, grida a gran voce il nome Carcass, con le prime file che si trasformano in un autentico massacro. Non poteva essere altrimenti, dato il susseguirsi di pezzi del calibro di “Corporal Jigsore Quandary”, “Incarnated Solvent Abuse” e la seminale “Heartwork” posta in chiusura. Solo i Mgla possono provare a competere con i Carcass per conquistare lo scettro della domenica. Semplicemente devastanti. MD
Live Report a cura di Marco Donè, Vittorio Cafiero e Steven Rich.