Live Report: Devildriver e guest a Bologna

Di Redazione - 10 Giugno 2009 - 10:58
Live Report: Devildriver e guest a Bologna

Ben lontano dai fasti passati quando da esso passava tutto il meglio del metalcore mondiale con nomi come Unearth, Hatebreed, Killswitch Engage, As I Lay Dying e compagnia il Flame Fest si ripropone quest’anno in versione “light” e per di più mutila di uno dei gruppi più interessanti presenti nel bill alla vigilia, i God Forbid. Questa scelta organizzativa si ripercuote sul pubblico naturalmente, il quale è talmente striminzito da non riuscire a riempire che poco più della metà dell’Estragon di Bologna, luogo dell’evento: pure i Nile da soli erano riusciti a fare meglio, per non parlare poi dei Dark Tranquillity. Oltre alla mancanza di grandi nomi l’altra caratteristica dell’evento è quella di puntare senza mezzi termini su band di stampo prettamente hardcore metal, genere portato alla ribalta nella seconda metà degli anni novanta da gente come Hatebreed e Walls of Jericho e che da parecchi anni ha smesso di evolversi, fossilizzandosi su strutture thrash molto semplici alle quali si accostano breakdown e parti accelerate più prettamente da pogo, senza tuttavia le evoluzioni melodiche introdotte successivamente, come ad esempio i cori in voce pulita, il riffing alla At The Gates, i vari arrangiamenti a due chitarre che tutti sappiamo riconoscere. Stiamo parlando dei gruppi di apertura naturalmente, in quanto i Devildriver, come da tradizione all’interno dei festival italiani, costituiranno un discorso a parte, riuscendo finalmente a catalizzare un pubblico rimasto piuttosto spento per la maggior parte della serata.

Trapped Under Ice

Gruppo di giovincelli dal nome copiato spudoratamente dall’omonima canzone dei Metallica presente nell’album Ride The Lightning i Trapped Under Ice non dimostrano di avere più fantasia compositiva di quella che li ha accompagnati nella scelta del monicker, proponendo al pubblico un hardcore metal privo di idee ed eseguito anche in maniera insufficiente. I nostri tentano di sopperire con i tatuaggi ed un frontman a dorso nudo alle loro mancanze di musicisti, ma falliscono miseramente e si lasciano dietro una prestazione anonima all’interno di un genere che già di per se non richiede una straordinaria competenza strumentale per essere godibile. Non sappiamo quanto abbiano pagato per suonare in apertura ai Devildriver, ma siamo certi che chiamare gruppi della zona, anche giovani, come ad esempio i Chaos Among Nameless, i Damned Spring Fragrantia, gli Stigma, i Figure of Six o i bravissimi Fightcast avrebbe reso le cose ben più interessanti, soprattutto dal punto di vista musicale.



Stick To Your Guns

Secondo gruppo praticamente esordiente del lotto e secondo gruppo della giornata a proporre la solita mistura di ritmiche a due accordi in tutto e breakdown in 4/4 sentiti e risentiti gli Stick to Your Guns, a differenza dei loro predecessori, almeno dimostrano di saper impugnare gli strumenti e tenere il palco, rendendo decente uno show comunque costellato da canzoni tutte uguali e che non riesce ad attirare l’attenzione del pubblico, se non di coloro che si stanno pogando per tenersi caldi in attesa dei gruppi veramente validi del lotto. Ancora una volta mi sorprendo a domandarmi come mai ci sia bisogno di chiamare dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti gente del genere, quando in casa abbiamo musicisti in grado di interpretare il genere in maniera non solo migliore, ma anche più moderna ci questi cinque ragazzi, i quali, pur facendo in maniera decente il loro lavoro, sembrano essere del tutto ignari delle evoluzioni occorse al di qua ed al dilà dell’oceano in questi ultimi dieci anni. Abomini del pay to play probabilmente, sistema nel quale la selezione delle band da inserire in un bill viene effettuata non guardando il talento artistico, ma piuttosto sulla base della disponibilità dei suoi membri a sganciare soldi pur di aggregarsi al carrozzone di turno. Speriamo che presto o tardi si veda una luce alla fine del tunnel.



Born From Pain

I Born from Pain sono forse il mio gruppo preferito all’interno dell’hardcore metal, anche se devo ammettere che non hanno particolari meriti per esserlo diventati. In un genere dove molte band si equivalgono infatti la scelta dei propri preferiti rimane al gusto personale di ciascuno, ed il mio, chissà come, chissà perchè, ha scelto il quintetto americano, il quale in questa occasione si presenta con l’ennesimo nuovo frontman. David Wood, che normalmente ricopre il ruolo di bassista nei Terror, si ritrova a ricoprire il ruolo di frontman in quanto Rob Frassen ha dovuto sostenere di recente un intervento chirurgico, il ragazzo tuttavia non sembra soffrire l’emozione e si prodiga in una prestazione più che dignitosa. Lo show in senso stretto altro non è che quanto di solito ci si possa aspettare da una band di questo tipo, infarcito però da una competenza superiore che permette ai nostri, nonostante i problemi di cui sopra, di uscire fuori tamarri e spaccaossa, un invito al mosh che non può essere rifiutato. Come al solito l’apice lo si raggiunge non appena comincia The New Hate, il cui ritornello riesce a prendere il pubblico ed a farsi cantare a squarciagola in ogni occasione: una bella prestazione dunque da parte di uno dei migliori acts hardcore metal oggi in circolazione, anche se siamo lontani dall’essere di fronte ad una band imprescindibile.



Terror

Ultima band della sezione hardcore metal del festival i Terror in realtà altro non sono che gli headliner del tour che comprende loro più tutte le band che finora abbiamo elencato, tour che, per la sua data italiana, è stato accorpato a quello comprendente Devildriver e God Forbid e chiamato Flame Fest. I nostri dal punto di vista artistico non sono né più né meno della band che li ha preceduti, con la differenza che hanno cinque anni di storia e due album in meno. Lo show è piacevole soprattutto perchè ci permette di rivedere in Italia Scott Vogel, mattatore di indiscusso carisma che due anni fa, in versione cantante dei Born From Pain, ci aveva deliziato all’Hell On Earth. Il ragazzone si presenta più in forma che mai, con i suoi slogan libertari e democratici che mirano a proclamare la fratellanza universale in barba al colore della pelle, alla religione, al sesso eccetera. Come dimostrazione concreta di questa volontà egualitaria egli in un paio di occasioni fa salire sul palco roadies ed assistenti di palco, lasciando che siano loro a cantare per qualche minuto: gesto simbolico questo, che tuttavia fa pensare al sottoscritto come davvero chiunque sia in grado di prendere in mano il microfono e cantare le canzoni della band californiana.

Lo show si conclude con un pubblico annoiato che altro non aspetta se non l’arrivo dei suoi beniamini: finito il festival hardcore metal è giunto il momento del concerto Death, e lasciate che lo si dica, se ne sentiva davvero il bisogno.


Devildriver

Sono death? Sono thrash? Sono metalcore? Non si sa, quello che importa è che i Devildriver sono di fatto uno dei due acts estremi emersi nel nuovo millennio che in meno di dieci anni di carriera sono riusciti a fare il salto da opening act a headliner di festivals (gli altri sono i Lamb of God), con tanto di record mondiale (non omologato) per il più grosso circlepit mai realizzato. Mentre In Flames, Dark Tranquillity e Children of Bodom hanno avuto bisogno di due decadi o quasi per guadagnarsi la fama che oggi hanno, i cinque californiani capitanati da Dez Fafara, con o senza merito, hanno avuto una carriera fulminea per una band metal, che in soli tre album li ha portati alla ribalta internazionale: non stupisce dunque che la maggior parte del pubblico (se non tutto) li stia aspettando con trepidazione e sia rimasto del tutto indifferente alle band che li hanno preceduti.


Intro atmosferica dunque e via che si parte con quattro pezzi sparati in faccia senza un secondo di tregua: Clouds Over California, Die (And Die Now), Not All Who Wander Are Lost e I Dreamed I Died. Si nota immediatamente che, nonostante in sede di intervista abbiano liquidato il loro platter d’esordio come un esperimento di pura aggressività destinato a non ripetersi in quanto il loro stile sta andando ad evolversi verso poetiche più mature, i nostri dal vivo continuino a contare molto sui pezzi di Devildriver, dal quale vengono estratti anche The Mountain, Meet the Wretched, Nothing’s Wrong? e la mitica I Could Care Less. Dez Fafara non lascia al pubblico nemmeno un attimo per respirare, le canzoni vengono eseguite l’una dopo l’altra con la gente che continua ad ammazzarsi nel pogo ed a proiettarsi oltre le transenne con l’ennesimo crowd surfing, si lascia spazio alle parole solamente prima di Grinfucked e quando viene finalmente chiamato quello che oramai sta diventando il simbolo dei concerti dei nostri, ossia il Circlepit, il quale, nonostante non veda la partecipazione che di solito si verifica all’estero, esce fuori davvero ampio e divertente, sicuramente il più grande al quale il sottoscritto abbia mai partecipato.


Il concerto si chiude con End of The Line, lasciando davvero una bella soddisfazione, soprattutto in quanto i nostri hanno eseguito tutti i loro pezzi migliori con la sola esclusione di What Does it Take. I Devildriver, come loro solito, dimostrano di meritare ogni briciola del successo che si sono guadagnati, anche se a dire il vero Dez in qualche occasione ha mostrato i suoi limiti vocali, interrompendo lo screaming ed andando avanti a forza di urlacci poco belli oltre che poco incisivi. Poco male comunque, gli errori esecutivi del frontman sono stati mascherati benissimo da una band all’altezza, da un John Boecklin in grandissimo spolvero dietro le pelli e da uno show assassino, davvero aggressivo come pochi.


Il Flame Fest di quest’anno si è rivelato un festival sotto le aspettative, con un bill scarno caratterizzato dalla defezione dei God Forbid e da due gruppi di apertura incapaci di catalizzare il benché minimo interesse. A risollevare le sorti di una serata altrimenti deludente ci hanno pensato i Devildriver con il loro solito show pirotecnico, aiutati da un locale, l’Estragon, come sempre all’altezza e questa volta pure immune a problemini tecnici di varia entità che si erano presentati in altre occasioni. Un plauso al posto, al pubblico ed agli headliner dunque, ma una tirata d’orecchie per gli organizzatori, che devono capire che non basta accorpare i bill di un paio di tour (in questo caso quello dei Terror e quello dei Devildriver) per far uscire un buon festival. I gruppi si devono scegliere sul campo, forti di una reale competenza nel genere trattato, e non a tavolino pensando semplicemente che di più sia meglio e che un nome abbastanza rinomato come quello del Flame Fest possa abbindolare il pubblico. Sotto questo aspetto c’è davvero bisogno di migliorare.