Live Report: Devin Townsend ai Magazzini Generali (MI)
DEVIN TOWNSEND PROJECT + FEAR FACTORY + DUNDERBEIST
25/11/2012 @ MAGAZZINI GENERALI, MILANO
Serata all’insegna del metal “industriale”, quest’oggi, ai Magazzini Generali di via Pietrasanta, in compagnia di artisti che, in modi differenti hanno contribuito in una ventina d’anni di onorata carriera a fare la storia del genere e che hanno incrociato ler rispettive strade in occasione di questo tour, pronti a sfidarsi all’ultimo decibel di fronte ad un pubblico piuttosto nutrito. In un angolo del ring i Fear Factory, band californiana di lungo corso forte di titoli imponenti come “Souls Of A New Machine”, “Demanufacture” e l’ultimo “The Industrialist”, e all’altro angolo Devin Townsend, un nome ormai assurto ad icona per gli amanti del metal più sperimentale e privo di confini e anch’egli impegnato nel tour promozionale dell’ultima, acclamata, fatica: “Epicloud”. Nel ruolo di opening act, in luogo dei defezionari Sylosis, troviamo i norvegesi Dunderbeist ad aggiungere pepe ad una ricetta già molto saporita, sicché le premesse per uno spettacolo di alto livello ci sono tutte e l’attesa è indubbiamente elevata.
Ore 19 58 puntuali come orologi svizzeri, pardon: norvegesi, i Dunderbeist entrano sul palco bizzarramente acconciati con un look a metà tra costume di Halloween e rivisitazione postmoderna di “Arancia Meccanica”, ostentando camice bianche, cravatte, gilet ed un make up con contorno occhi nero e sbavato. Notevoli, a corollario della scenografia/costumistica dark/horrorifica, i due scheletri appesi alle aste dei microfoni. Sono ben sei sul palco sul palco i metaller di Hedmark: due cantanti (Torgrim Torve e Åsmund Snortheim), due chitarre (Fredrik Ryberg e Ronny Flissundet) e poi Kristian Liljan e John Birkeland Hansen, rispettivamente basso e batteria. Il primo pezzo é una sorta di divertente ibrido di heavy metal, hard rock e tendenze hardcore, retto da chitarre spessissime e da una batteria forsennata. La seconda in scaletta si gioca su strofe in tempi piu cadenzati prima di un esplodere in un bel crescendo sottolineato da melodie intonate a due voci, forse la vera particolarità della proposta dei norvegesi. I suoni si dimostrano subito convincenti, forse giusto le voci restano un pelo indietro, ma complessivamente non c’è di che lamentarsi. Tocca a “Father Serpent”, l’unica di cui siamo riusciti a carpire il titolo, e l’inizio è furiosamente di stampo deathcore per poi lasciare spazio ad un refrain oscuro e marziale molto ben riuscito e ad un break atmosferico che da l’occasione ad Åsmund Snortheim di arringare da par suo la folla. Anche la successiva viene annunciata come un estratto del nuovo album “Black Arts & Crooked Tails” e lo schema in effetti è similare: chitarre pesantissime, basso e batteria molto presenti e le due voci ad intonare linee melodiche dimesse per quanto molto efficaci. Avviandoci verso la conclusione incocciamo un paio di canzoni piuttosto atipiche, rispetto a quanto sentito sinora, l’una caratterizzata da atmosfere epiche e rarefatte ottenute grazie ai tempi rallentati e agli intensi controcanti di Ronny Flissundet, l’altra, molto teutonica e “birraiola”, allegrona e inquietantemente divertente seppur sinceramente un po’ sotto alle precedenti, nella quale i due cantanti si concedono anche un intermezzo à la Till Lindemann dei Rammstein. La chiusura è affidata ad un brano dai tratti epicheggianti, caratterizzato da una linea melodica piuttosto particolare sovrapposta a ritmiche thrashy cadenzate ed efficaci, un mix a prima vista improbabile eppure coinvolgente. Lo show dei Dunderbeist si è dimostrato positivo ed energico, perfettamente adeguato nell’ottica di scaldare un pubblico impaziente per l’entrata in scena delle star della serata.
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Alle 20 e 50 scocca l’ora dei Fear Factory, annunciati dalla sigla del dolby surround e da luci colorate intermittenti a ritmo, e il piu invocato, manco a dirlo, è il mastodontico Dino Cazares che, non appena entrato in scena, si piazza subito sul lato destro del palco con tutta la sua mole e tutto il suo carisma. La partenza è affidata all’opener, nonché title track, di “The Industrialist” : la batteria di Mike Heller è in primissimo piano, forse fin troppo, i suoni molto piu secchi rispetto a quanto è dato sentire su disco e la voce di Burton C. Bell è potente ed impostata su un growl molto cavernoso, mentre Cazares mulinella cascate di note a velocita supersonica e si diletta anche ai controcanti con il bassista Matt DeVries. Con la seconda in scaletta aumentano i battiti e anche l’atmosfera a centro pista si surriscalda, purtroppo Burton appare gia in debito d’ossigeno sulle parti melodiche, praticamente sussurrate, pur continuando a mostrarsi a proprio agio agio sulle tonalità piu urlate. “Edgecrusher” scatena un gran pogo e il cantato di Burton pare assumere i toni di un rappato scandito dalle intense randellate di una batteria preminente e da un basso dal suono ferraglioso fino al refrain, cantato a squarciagola da quasi tutti i presenti. Un riff robotico e imponente apre le danze della successiva “Smasher/Devourer” , un altro ottimo esempio di cyber/industrial metal con impresso a fuoco il marchio della band californiana. Pochi istanti e tocca a “Powershifter” e ad un attacco di batteria in doppia cassa dir poco tellurico il compito di provare a far saltare in aria i Magazzini Generali; Burton si trova di nuovo in difficolta sulle clean per quello che pare purtroppo essere un leit motiv dell’esibizione. Da “Digimortal” i Fear Factory estraggono “Acres Of Skin” e l’assalto continua, con ritmiche rallentate di grande effetto alternate a passaggi in doppia cassa a velocitá furiosa che fanno la felicitá di tutti i presenti, scatenandone l’headbanging più selvaggio. La successiva “Linchpin”, aperta da un riff meshugghiano viene accolta con un boato dai presenti e la formula collaudatissima di Cazares e compagnia, a base d ritmiche brutali, strofe in growl e passaggi melodici, continua a mietere vittime. L’intro per sola voce di “Resurrection” evidenzia una volta in piu tutte le difficolta del frontman texano con il cantato in voce pulita, per fortuna le repentine scariche di violenza cibernetica riportano in alto il voltaggio e lo costringono a tirare fuori un growl su cui riesce ad esprimersi su buoni livelli. Nonostante tutto è d’obbligo rimarcare che si è trattato probabilmente della peggior prestazione vocale udita finora. E’ il turno di “Recharger” e la tensione risale dopo un piccolo passaggio a vuoto per uno dei brani migliori di “The Industrialist”, purtroppo di nuovo macchiato da un altro mezzo disastro a livello vocale sul refrain. Ed é un vero peccato perchè dal lato strumentale e per quanto riguarda le atmosfere la canzone ha reso davvero molto bene. “Martyr”, l’opener dell’ormai antico “Soul Of A New Machine”, fomenta i presenti sin dal suo annuncio e le parti rallentate per sola voce e batteria in crescendo, con l’entrata in scena successiva degli altri strumenti, questa volta riescono bene . “Demanufacture”, la title track del capolavoro dei FF targato 1995, scatena ovviamente il delirio, forte di quasi vent’anni di storia come manifesto dell’industrial metal e di una sostanza strumentale e vocale resa per l’occasione senza cedimenti di sorta. “Self Bias Resistor” continua nel solco di “Demanufacture”, sia come impianto che come resa da parte di un Burton che sembra essersi un po’ risollevato rispetto ai frangenti peggiori del concerto. La seguente “Zero Signal” ha energia thrash da vendere, grande il guitar work e ancora una volta adeguate le parti in clean, mentre “Replica” si apre al ritmo dell’infernale coro “I Don’t Want To Live That Way” e il suo ritmo da marcia militare coinvolge e colpisce come ci si attende prima di lanciare la volata ad un refrain melodico abbassato di qualche ottava rispetto all’originale ma in ogni caso più che accettabile. Lo show è arrivato al capolinea ed è il momento dei saluti sulle inusuali note di “Don’t You Forget About Me” dei Simple Minds in sottofondo; i Fear Factory non hanno lesinato energie e la loro prestazione è stata decisamente apprezzabile seppure lo stato di forma vocale di Burton C. Bell, in particolare sulle parti più melodiche desti più di qualche perplessità.
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Setlist
01. The Industrialist
02. Shock
03. Edgecrusher
04. Smasher/Devourer
05. Powershifter
06. Acres Of Skin
07. Linchpin
08 .Resurrection
09. Recharger
10. Martyr
11. Demanufacture
12. Self Bias Resistor
13. Zero Signal
14. Replica
L’attesa prima dell’entrata in scena di Devin Townsend viene scandita da svariate diapositive proiettate sui due grandi schermi montati in alto dietro al palco. I protagonisti ovviamente non possono essere altro che medesimo Devin e il simpatico Ziltoid, di volta in volta alle prese con celebri fotogrammi tratti da Star Wars, Hulk, Il Cavaliere Oscuro, Alien e mille altri film famosi, rivisitati in forma parodistica come solo Lui poteva immaginarsi. Il successivo filmato di introduzione vede il Mad Canadian nei panni di una sorta di gladiatore futuristico (un po’ John Carter tanto per capirci) alle prese con il lancio di un “pizza boomerang” che finisce per evirare un maniaco impersonato da lui stesso per poi lasciare spazio ad una sorta di “Annoying Devin” a parodiare con successo la famosa Arancia rompicoglioni che impazza da tempo sulla Rete. Se la buona notte si vede dal crepuscolo..
Devin si presenta sul palco addirittura elegante in completo nero, tonico ed ironico come non mai, tra scaccolamenti e facce buffe catalizza su di sé l’attenzione fin dal primo istante grazie al suo carisma e alla sua voce meravigliosa, nello stesso modo in cui un incantatore soggioga i serpenti. L’opener “Supercrush!”, con le sue atmosfere tempestosamente eteree e gli accenni di screaming, rappresenta l’ideale banco di prova per l’istrionismo di un Townsend in gran forma. “Kingdom”, restituita a nuova vita dal remake presente sul nuovo “Epicloud”, ci accarrezza con le strofe melodiche per poi frustarci con il growl arcigno tipico dell’artista canadese prima di darci il colpo di grazia con il bel refrain ultra melodico.
Dopo la strumental “Truth” è il turno della furia thrash/industrial/djent della fenomenale “Planet Of The Apes” ed in pochi attimi il classico circo townsendiano prende forma e sostanza senza risparmiare energie, né dal punto di vista vocale né da quello strumentale, con chitarre a pieno regime e una batteria estremamente dinamica. E’ ora il turno di “Where We Belong” e la magia della voce del Mad Canadian è la stessa che ci ricordavamo da studio. il momento piu intimista prosegue con “Sunday Afternoon”, tratta da un altro pezzo da novanta della sua nutrita discografia, “Accelerated Evolution”, e le clean vocals che sfumano nello scream sono un vero tuffo al cuore per i fan. Si torna al lato piu funny con l’acclamata “Vampira”, e lo spettacolare videoclip proiettato sullo sfondo, mentre gli accenni classic heavy caricano a molla un pubblico che non aspetta altro che il pretesto per esplodere in danze sfrenate in centro pista. “Lucky Animals” scatena definitivamente il putiferio con un Devin davvero senza freni tra smorfie, pose e escursioni nella zona photo: apoteosi. La successiva “Juular”, anche’essa proposta con il videoclip sullo sfondo, torna a pestare durissimo con una sorta di thrash/industrial/casasttchok davvero infernale, trainato da una batteria possente (non a caso) come una locomotiva. “Grace” rappresenta ad ora l’apice del concerto:la potenza è smisurata e le liriche che rimbalzano sugli schermi a ritmo non fanno altro che accentuare l’enfasi di un brano gia di per sé devastante; certo, l’ideale sarebbe stato veder comparire sul palco la bellissima Anneke, per un sorprendente duetto, ma si sa, la perfezione non è di questo mondo ed è d’uopo “accontentarsi”.
Il finale è riservato ad uno dei maggiori capolavori di Devin Townsend, la splendida “Deep Peace”: l’esecuzione da manuale, le atmosfere immaginifiche e il fenomenale assolo di chitarra garantiscono brividi a profusione. Dopo un breve siparietto c’è tempo per un bis e la scelta ricade su “Bad Devil”, con la quale Devin torna a divertire la platea al ritmo di hard rock e musica da circo, piu istrione che mai.
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Setlist
01. Supercrush!
02. Kingdom
03. Truth
04. Planet Of Apes
05. Where We Belong
06. Sunday Afternoon
07. Vampira
08. Lucky Animals
09. Juular
10. Grace
11. Deep Peace
Encore
Bad Devil
E’ stata davvero una bella serata, in compagnia di due band di valore riconosciuto e di un opening act che non ha fatto rimpiangere in quanto a grinta e voglia di fare i defezionari Sylosis. Unici nei la prestazione vocale un po’ altalenante di Burton C. Bell e i riflettori brucia-retina sparati direttamente negli occhi del pubblico delle prime file, piuttosto fastidiosi e francamente evitabili, ma per tutto il resto c’è davvero di che ritenersi soddisfatti.
Report a cura di Stefano Burini, fotografie a cura di Davide Locatelli