Live report: Frontiers Festival IV – 29/30 Aprile 2017
Frontiers Festival IV – 29/30 Aprile 2017
Live Music Club@ Trezzo sull’Adda (MI)
Non potevamo mancare nemmeno questa volta.
Il Frontiers Festival è ormai divenuto un appuntamento fisso della primavera concertistica, confermandosi quale contenitore di massimo livello per valore degli artisti proposti e per la qualità dell’organizzazione nel senso più ampio.
Locale tra i migliori della penisola, il Live Club di Trezzo si distingue per l’ampia capienza e gli spazi ben distribuiti: due bar, zona stand e mercatino (letteralmente prese d’assalto), spazio meet and greet e non ultimo il grande giardino esterno, attrezzato di gazebo, poltrone ed amache a disposizione del pubblico.
Sempre più di respiro internazionale, quest’anno il festival di casa Frontiers è risultato – se possibile – ancora più frequentato da presenze straniere rispetto al passato. Gironzolando per l’area esterna, è stato, in effetti, parecchio difficile scambiare qualche parola in italiano: la percentuale di pubblico inglese, tedesco e scandinavo era in nettissima preponderanza.
Un segno evidente di come la fama del Frontiers si sia consolidata molto oltre confine, andando a radicarsi con forza laddove i suoni tipici del rock melodico hanno da sempre attecchito con maggiore efficacia.
Del resto chi, appassionato di questi suoni, avrebbe potuto resistere ad una due-giorni in cui poter vedere, tutte insieme, grandi promesse, ottime realtà consolidate e leggendarie eccellenze del mondo del rock e dell’AOR?
Trovare un altro evento, in Europa e nel mondo, capace di racchiudere in un’unica manifestazione, tra gli altri, calibri quali Tyketto, Steelheart, Unruly Child, L.A. Guns e TNT è, in effetti, pressoché impossibile.
Finalmente notevolissimo anche il numero delle presenze totali: un conforto ed una conferma per gli organizzatori, probabilmente sempre più consapevoli di un successo che speriamo possa condurre ad altre edizioni altrettanto ben riuscite come quella che vi stiamo per raccontare.
Giorno Uno – 29 aprile 2017
Live report a cura di Fabio Vellata e Teresa Lastella
Palace
Ad aprire l’attesa quarta edizione del Frontiers Festival, il giovane ed ambizioso Michael Palace con il suo omonimo progetto, autore lo scorso anno di un convincente disco d’esordio intitolato “Masters of The Universe”.
Suoni ancora non ben settati ed una padronanza della scena tutta da apprendere, hanno contribuito a rendere l’esibizione dal vivo dei Palace non proprio efficace, in bilico tra la buona resa della band – invero encomiabile – e l’altalenante prova al microfono dello stesso Palace, vittima di un certo numero di evidenti “stecche” tipiche di chi, preda dell’entusiasmo, ancora non ha l’esperienza necessaria nel dosare la voce dal vivo, prendendo così eccessiva confidenza nel proporre note alte destinate a sfociare in grossolane stonature. Significative pure alcune incertezze della band nel suo complesso, a volte apparsa come un po’ poco sincronizzata: il comunque valoroso artista nordico, intercettato poco dopo l’esibizione nella zona esterna del club, si rivelerà onestissimo nel rammaricarsi per una riuscita tutt’altro che ottimale.
La giovane età e le buone idee espresse nel debut album sono, ad ogni modo, un persuasivo biglietto da visita che induce all’ottimismo: “Path to the Light”, “Young, Wild, Free” e “Part of Me”, sono brani di qualità, che ben testimoniano lo spessore di una band cui manca, probabilmente, qualche “ora di volo” in più per poter offrire il proprio meglio.
Setlist:
Man Behind The Gun
Cool Runnin’
Path To Light
Matter In Hand
She Said It’s Over
Young, Wild, Free
Part Of Me
Master Of The Universe
Lineup:
Michael Palace – Voce
Rick Digorio – Chitarre
Marcus Johansson – Batteria
Soufian Ma’Aoui – Basso
One Desire
Il tono cambia decisamente con l’arrivo in scena dei finlandesi One Desire, anche loro esordienti “totali” eppure già in possesso di una manifesta dimestichezza con la scena tanto da farli apparire come navigati frequentatori del palco.
Splendido il disco di debutto pubblicato poche settimane fa e grande l’attesa nel verificare se il valore dei brani ascoltati su cd mantiene lo stesso appeal dal vivo.
Esame superato con discreto successo: il gruppo funziona, la voce non perde colpi e canzoni come “Hurt”, “Apologize” e “Whenever I’m Dreaming” viaggiano forte anche on stage. Questione a parte per la clamorosa hit “Love Injection”: straordinaria e strappaorecchie su disco, appare un pizzico meno performante proposta in sede live, pur rimanendo in ogni caso un brano dotato di un ritornello dall’impatto formidabile.
Peccato per il poco tempo a disposizione: non si poteva del resto chiedere di più, considerato lo scarso materiale – ad oggi – realizzato da Andrè Linman e compari.
L’evidente soddisfazione di Serafino Perugino – presidente di Frontiers e loro personale scopritore, intento a seguire ogni momento dell’esibizione con palese entusiasmo – la dice lunga di come anche i vertici della label partenopea puntino forte su di una realtà dal potenziale impressionante, capace di piacere un po’ a chiunque
Setlist:
Hurt
Turn Back Time
Apologize
Love Injection
This Is Where the Heartbreak Begins
Whenever I’m Dreaming
Buried Alive
Lineup:
André Linman – Voce / Chitarre
Jonas Kuhlberg – Basso
Jimmy Westerlund – Chitarre
Ossi Sivula – Batteria
Crazy Lixx
Chi non appare affatto sprovvisto di esperienza sono invece i Crazy Lixx, adorabile gruppo svedese in circolazione ormai da una quindicina d’anni.
Seguendoli dagli esordi e con l’occasione di vederli dal vivo per la terza volta in carriera, ci è stato impossibile non notare come la formazione di Danny Rexon sia cresciuta nel tempo, con modifiche e rimpasti di line up che hanno condotto ad un significativo accrescimento della performance.
Il materiale a disposizione del gruppo di Malmo è già piuttosto cospicuo ed è quasi un peccato vederne l’esibizione confinata in poco più di tre quarti d’ora.
Proprio in questo però, è stata evidente la statura raggiunta dal quintetto, capace in breve tempo di soddisfare l’uditorio con un live set intenso, gagliardo e divertente.
A partire dalle notevoli “Wild Child” e “Walk The Wire”, estratte dal recentissimo (ed ottimo) “Ruff Justice”, per arrivare alle “storiche” “Heroes Are Forever” e “21 Till I Die”, tormentoni editi agli esordi, i Lixx hanno messo in mostra compattezza, presenza scenica e tensione adrenalinica, garantendo uno spettacolo alla vecchia maniera che tanto ha ricordato gli show glam degli anni ottanta.
Periodo cui – non a caso – Rexon e compari fanno smaccato riferimento.
Siamo certi che i Lixx compariranno ancora, in futuro, nella line up del Festival Frontiers. E non perderemo l’occasione per goderceli nuovamente.
Setlist:
Wild Child
Blame It on Love
XIII
Whiskey Tango Foxtrot
Girls of the 80’s
Walk the Wire
Heroes Are Forever
Rock and a Hard Place
Hell Raising Women
21 Til I Die
Lineup:
Danny Rexon – Voce
Joél Cirera – Batteria
Jens Sjöholm – Basso
Chrisse Olsson – Chitarre
Jens Lundgren – Chitarre
Eclipse
Per chi scrive, quello approssimatosi verso le ore 18.00 di sabato 29 aprile 2017 presso il Live Club di Trezzo sull’Adda, era uno dei momenti più attesi della quarta edizione del Festival di casa Frontiers. E forse, anche qualcosa in più.
Seguendo da parecchio tempo con massimo interesse l’evoluzione della band guidata da Erik Martenssson e Magnus Henriksson, quello che ci mancava era conoscerne da vicino la bravura on stage, in modo da verificare in presa diretta – dopo aver applaudito a scena aperta l’uscita di una serie di album, uno più bello dell’altro – se di vera gloria si tratta.
La partenza con una quaterna “da spavento” composta da “Vertigo”, “Never Look Back” (il coro intonato da tutto il pubblico, uno dei momenti più belli), “The Storm” e “Wake Me Up” è stata sin da subito chiarificatrice di quanto gli Eclipse siano band completa sotto ogni punto di vista: eccellenti su disco, coinvolgenti, adrenalinici e formalmente inappuntabili dal vivo.
Autore di una performance dalla “pulizia” esemplare, il quartetto nordico si è distinto proprio per l’altissima carica emotiva di cui ha saputo ammantare lo show, garantendo al contempo una granitica solidità d’impatto ed una precisione nell’eseguire i brani a dir poco maniacale.
Molto gradita la comparsata di Michele Luppi, sul palco per un estemporaneo duetto su “Jaded” (presentata dalla stesso Luppi come la sua preferita del nuovo album “Monumentum”) e davvero “superiore” la capacità della band di passare dagli assalti tonanti alle atmosfere malinconiche (“Hurt” su tutte), transitando per le gradevoli sensazioni celtiche di “Downfall of Eden” e l’oscuro magnetismo rainbowiano di “Black Rain”.
A concludere uno show pressoché perfetto, non potevano mancare le corali “Runaway” e “I Don’t Wanna Say I’m Sorry”, pezzi in cui le svisate chitarristiche memori di John Sykes messe in mostra da Magnus Henriksson hanno mandato in archivio una delle esibizioni migliori – probabilmente – di tutte e quattro le edizioni del Frontiers Festival sin qui proposte.
Setlist:
Vertigo
Never Look Back
The Storm
Wake Me Up
Killing Me
Jaded
Hurt
Wide Open
Battlegrounds
Downfall of Eden
Black Rain
Stand On Your Feet
Runaways
I Don’t Wanna Say I’m Sorry
Lineup:
Erik Mårtensson – Voce / Chitarra
Magnus Henriksson – Chitarra
Philip Crusner – Batteria
Magnus Ulfstedt – Basso
Revolution Saints
L’eccellenza di una label come Frontiers e del relativo festival, diventa argomento di stretta attualità nel ritrovare sul palco una band come i Revolution Saints.
Side project sinora mai visto dal vivo, il gruppo composto da un trio di eccelsi musicisti quali Jack Blades (Nightranger), Doug Aldrich (Whitesnake) e Deen Castronovo (Journey, Bad English, Hardline e mezzo milione di altri), si anima on stage per la prima volta dalla sua fondazione, sgomberando il campo dalle sottili polemiche che ne hanno sin qui accompagnato l’esistenza, incentrate su di un profilo del progetto che ai più è sempre apparso come una sorta di unione “fittizia” piuttosto che una vera e propria band di senso compiuto.
I Saints, coadiuvati da Alessandro Del Vecchio alle tastiere e da Steve Toomey alla batteria (nei momenti in cui Castronovo è principalmente intento a svolgere il ruolo di singer), si sono concretizzati con il fiero proposito di smentire chi li identifica come un entità priva di reale consistenza, esibendo un campionario di assoluta classe, infarcito di stile, abilità e sostanza.
In procinto di realizzare un nuovo capitolo discografico, Blades, Aldrich e Castronovo si sono dilettati nel proporre alcuni pezzi inseriti nel debut album edito lo scorso anno, eseguendo, tra le altre, le notevoli “Turn Back Time”, “Here Forever” e “Way To The Sun”.
Le atmosfere per lo più vicine ai Journey, la bravura degli interpreti e la sorprendente verve vocale di mr. Castronovo, hanno reso anche questa esibizione un gioiello impedibile per i fan, testimoni di uno spettacolo dai contorni quasi “storici”.
“Love will set you Free” dei Whitesnake, “Coming of Age” dei Damn Yankees e “Higher Place” dei Journey – omaggi alla storia personale dei tre grandi musicisti – il sigillo di uno show-evento indubbiamente da ricordare.
Setlist:
Back on My Trail
Turn Back Time
Here Forever
Locked Out of Paradise
Way to the Sun
Guitar Solo (Doug Aldrich)
Dream On
In the Name of the Father (Fernando’s Song)
Love Will Set You Free (Whitesnake cover)
Coming Of Age (Damn Yankees cover)
Higher Place (Journey cover)
Lineup:
Deen Castronovo – Voce Batteria
Jack Blades – Basso / Voce
Doug Aldrich – Chitarra
Alessandro Del Vecchio – Tastiere
Steve Toomey – Batteria
Tyketto
In una giornata ricca di ottime performance, salire ancora di livello poteva apparire pressoché impossibile. O quanto meno, improbabile.
Nulla di più sbagliato quando a sopraggiungere in scena è uno degli interpreti che – opinione personale – meglio ha caratterizzato l’epoca d’oro del grande (grandissimo) hard rock americano di fine anni ottanta – inizio novanta.
Danny Vaughn con i Waysted prima e con i Tyketto poi ha, in effetti, marchiato in modo indelebile un periodo dorato e carico di sogni, segnando in particolar modo le sorti del genere con un capolavoro memorabile quale “Don’t Come Easy”, esordio datato 1991 proprio dei Tyketto.
Avendo nel cuore da ventisei anni i brani di un album leggendario, davvero ci è sembrato quasi un regalo insperato l’apprendere che, proprio in occasione del Frontiers Festival, Vaughn ed i Tyketto avrebbero eseguito l’intera tracklist del disco. Ultima volta in carriera, per altro: che magnifica coincidenza!
Curioso poi notare come la scaletta sia stata però riproposta in senso inverso rispetto all’originale, partendo così dalla conclusiva “Sail Away”. Il motivo è tutto sommato semplice: lasciare verso fine concerto la grandiosa “Forever Young”, pezzo forte dell’album e sorta di “inno” della band.
Un treno di ricordi ha preso dunque il sopravvento sulle note della già citata “Sail Away”, seguita dalla doppietta “Strip Me Down” / “Nothing But Love” – primo grande momento di “panico” per il sottoscritto (cori memorabili da intonare a pieni polmoni!) – “Walk Away” e “Lay Your Body Down”, altro passaggio in cui la grande quantità di pubblico accorsa al Live Club è apparsa totalmente rapita da un viaggio a ritroso nel tempo.
Vaughn si è nel frattempo confermato frontman di grande simpatia e comunicativa: un ottimo intrattenitore, dotato di carisma, smisurata verve e con l’entusiasmo più consono ad un giovincello in rampa di lancio che non ad un consolidato artista nemmeno troppo lontano dalla sessantina.
Proseguendo con la tormentata “Standing Alone” (lento da antologia), l’esibizione è scivolata via via sino al momento clou, rappresentato dalla attesissima “Forever Young”, manifesto definitivo dei Tyketto. Uno di quei pezzi che valgono una carriera: il trasporto della platea, completamente coinvolta nell’intonare il fenomenale ritornello, è stata chiara testimonianza di come il gruppo del New Jersey, da anni sia identificato proprio con quelle note.
Spazio nel finale anche per “Rescue Me” – traccia estratta da “Strength in Numbers”, secondo cd della band – e per un paio di episodi più recenti, le rispettive title track di “Dig in Deep” e del recentissimo (ottimo) “Reach”, album usciti per Frontiers Music negli ultimi anni.
Non avremmo potuto chiedere di più: un concerto fantastico, un’esibizione che è stata al contempo un tuffo nei ricordi ed una affermazione orgogliosa di vitalità, uno dei momenti più belli a livello concertistico sperimentati in tanti di anni di frequentazione dal sottoscritto. Pezzi stupendi, band in palla (del cui nucleo originale rimangono però i soli Vaughn ed il batterista Michael Clayton Arbeeny) ed un frontman semplicemente “superiore”.
Senza timori d’offendere nessuno ed al netto di una valenza storica comunque elevatissima, per noi, il Frontiers Festival 2017 avrebbe anche potuto chiudersi qui. In massima gloria…
Setlist:
Sail Away
Strip Me Down
Nothing But Love
Walk on Fire
Lay Your Body Down
Standing Alone
Seasons
Burning Down Inside
Wings
Forever Young
Rescue Me
Dig in Deep
Reach
Lineup:
Danny Vaughn – Vocals
Michael Clayton Arbeeny – Drums
Chris Green – Guitar
Ged Rylands – Keyboards
Chris Childs – Bass
Steelheart
E invece, di carne al fuoco ce n’era ancora.
Eccome.
Un nome decisamente storico e foriero di ricordi antichi anche quello degli Steelheart, esattamente come i Tyketto, paladini di un’era ormai piuttosto remota che solo grazie agli estimatori e ad una etichetta come Frontiers, può avere un seguito ancor oggi tanto da tramandarsi alle nuove generazioni.
Attesa palpabile quella riscontrata nei minuti precedenti all’entrata in scena di Mike Matijevic e dei suoi sodali: una platea gremitissima come accaduto poche altre volte al Frontiers Festival, si è raccolta sotto al palco nell’attesa di ascoltare – dopo moltissimi anni – una band entrata nell’immaginario collettivo dell’universo metallaro, vuoi per la bontà dei primi due album risalenti ad inizio anni novanta (meglio dimenticare i misconosciuti e nebbiosi capitoli successivi), vuoi per la figura carismatica del suo frontman, protagonista di una carriera trentennale costellata da eventi ai limiti del romanzesco e del cinematografico.
Aperto dalle potenti “Blood Pollution” e “Livin’ The Life”, brani originariamente inseriti nella colonna sonora del film “Rock Star” del 2001, il live set degli Steelheart si è subito prefigurato come sorretto su due cardini base: l’ugola ancora mostruosamente metallica e potente di Matijevic, ed i suoni durissimi, cupi, oscuri, ai limiti dell’alternative metal, eruttati furiosamente sul pubblico dalla band, dotata di un livello tecnico tanto straordinario, quanto, forse, un pelo spiazzante dal punto di vista della mera comunicatività e coinvolgimento.
Un pregio ed al contempo un limite: l’accesissimo tasso virtuoso dei musicisti ed il taglio quasi grunge del sound sono apparsi essere aspetti non del tutto consoni al tono della manifestazione, che in tal modo si è vista privata al suo apice degli aspetti prettamente spensierati e “melodici” di cui è intrisa per elezione.
Un effetto che non ha tardato a produrre conseguenze: pur seguito con passione da un quantitativo notevole di fan, il numero dei presenti all’esibizione degli Steelheart è andato via via assottigliandosi, lasciando “buchi” sempre più evidenti nella sala soprattutto nelle retrovie.
Chi ha guadagnato anzitempo l’uscita dopo una manciata di pezzi a causa della stanchezza maturata, chi non sentendosi particolarmente avvinto dai suoni ha preferito trascorrere più tempo nell’area esterna, alla caccia degli artisti visti in azione precedentemente. Chi, in modo più semplice, ha alzato i tacchi per andarsene direttamente a casa, appagato da quanto sentito sino a quel momento.
La sensazione generale – personalissima, s’intenda – è stata tuttavia un pizzico meno soddisfacente del previsto, non già per l’effettiva bravura di Matjievic (voce impressionante e solito piglio sprezzante da “duro”) e dei musicisti, quanto piuttosto per un taglio stilistico che – soprattutto dopo aver visto i Tyketto – è sembrato distanziarsi un po’ troppo dal trend musicale del festival.
Un peccato, giacché ascoltare la voce di Matjievic su “She’s Gone” è sempre un’emozione e la seconda parte di concerto è sembrata nettamente migliore e più calibrata. “My Dirty Girl”, nuova canzone che andrà a far parte di un nuovo cd di prossima uscita, è sembrata niente male, mentre “Everybody Loves Eileen” (con il singer addirittura a saltellare sul bancone del bar ai lati del palco) e “Rock n’Roll (Just Wanna)” sono comunque memorabili ancora oggi. Piccola nota, davvero strano l’aver ignorato completamente il secondo album “Tangled in The Reins”, del quale non è stato eseguito nemmeno un brano.
Chiude per l’entusiasmo dei rimasti, una intensa versione di “We All Die Young”, altro estratto dalla colonna sonora di “Rock Star”, film che alla collaborazione degli SteelHeart (o Steel Dragon, per l’occasione) deve, in effetti, parecchio.
A conti fatti, detto di un qualcosa nel sound degli Steelheart che per certi versi ci è sembrato un po’ fuori contesto, una chiusura di prima giornata assolutamente degna e più che soddisfacente.
Forse l’inversione delle ultime due band avrebbe prodotto esiti ancora migliori (ricordiamo lo scorso anno, quanto era ancora piena l’arena al termine dello show dei Talisman, headliner del 2016), ma non ci sentiamo comunque di biasimare la scelta di privilegiare i riformati Steelheart quale gruppo “punta” del “Day One”.
Il valore c’è tutto, il seguito di fan è risultato ancora importante nonostante la lunga assenza dalle scene e l’alone di leggenda che da sempre ammanta la band, un valore aggiunto nel renderne il come back evento gradito e caratterizzante di questa quarta edizione di Frontiers Festival.
Setlist:
Blood Pollution
Livin’ the Life
Gimme Gimme
Like Never Before
Live to Die
My Dirty Girl (inedito)
She’s Gone
Cabernet
Everybody Loves Eileen
Rock ‘n’ Roll (I Just Wanna)
I’ll Never Let You Go
We All Die Young
Lineup:
Mike Matijevic – Voce
Uros Raskovski – Chitarra
Rev Jones – Basso
Mike Humbert – Batteria
Giorno Due – 30 aprile 2017
Live report a cura di Carlo Passa
Le ultime ore di aprile regalano un sole fresco e piacevole ai partecipanti della seconda giornata della quarta edizione del Frontiers Rock Festival.
L’area del posteggio intorno al Live di Trezzo d’Adda è puntellata di rocker più o meno colorati fin dalle prime ore del pomeriggio. Non da meno, il locale ospita giā un buon numero di persone ben prima che il festival abbia inizio.
L’atmosfera č decisamente piacevole, soprattutto grazie alla piccola ma accogliente area esterna del Live, dove gli astanti possono rilassarsi bevendo una birra e discutendo (per lo pių) di musica. Nel corso della giornata, qui si potrā incocciare nei membri delle varie band che si alterneranno sul palco in un clima di grande disponibilitā da parte di tutti. Anche in questo, quello della Frontiers si rivela essere un festival di respiro internazionale, come dimostra la notevole presenza di rocker provenienti da varie parti d’Europa: passeggiando tra il palco, gli stand e l’area esterna, le lingue che si sentono parlare sono davvero numerose, a ulteriore testimonianza di come l’AOR e l’hard rock rappresentino ancora un forte richiamo che trascende luoghi e tempi.
Al proposito, piuttosto variegata è anche la fenomenologia dei presenti: ed è un gran bene per tutto il movimento. Un nutrito gruppo di quelli che un tempo sarebbero stati chiamati Glamsters siede accanto a incalliti fan incanutiti che vestono la maglietta del festival o una consunta t-shirt di un tour degli Steelheart risalente a ben pių di due decenni fa. Giovani impellettate giocano a fare le groupie a fianco di nerd che hanno comprato un bel pacchetto di CD allo stand Frontiers. Vecchi amici si ritrovano (“ti ricordi gli L.A. Guns a supporto degli Skid Row?”) e nuove conoscenze si fanno (“allora ci vediamo a Wacken!”). Insomma, il popolo dell’hard rock si ritrova: gente che veste la divisa, fa chilometri con l’autoradio a palla e, alla fine, si riconosce e ci crede. Profumo di grigliata e birra, di giubbotti di pelle e sudore, profumo di rock e di casa.
Cruzh
Alle 15 in punto, la voce dello speaker ufficiale del festival annuncia che i Cruzh stanno per aprirne la quarta edizione.
Forti di un buon album d’esordio tra AOR e hard rock ottantiano, i giovani svedesi non sfigurano alla prova live. Il suono dei Cruzh, elegantemente ammorbidito su disco da una produzione perfetta e fin troppo limata, esce molto pių hard rock che AOR dal vivo. La band ha tutto l’entusiasmo della gioventù, con i pregi e difetti che ciò comporta. Se è evidente la totale confidenza che i ragazzi hanno nei propri mezzi e la loro speranza di “farcela”, d’altra parte mostrano una certa, comprensibile, dose d’inesperienza nel tenere il palco. Il pubblico, per fortuna, non fa mancare loro un caloroso supporto, già ben nutrito a quest’ora del pomeriggio.
Sei pezzi in scaletta, tra i quali le belle “In n’Out of Love” (che richiama pure troppo Livin’ On a Prayer) e “Aim for the Head“, che è uno dei momenti migliori del disco degli svedesi.
La band suona bene, nonostante una certa immaturitā della base ritmica e un cantante non sempre preciso. I suoni sono già decisamente buoni.
Nel complesso, il modo più giusto d’iniziare la giornata.
Setlist:
Before I Walk Alone
Survive
In n’ out of love
First Cruzh
Set me free
Aim for the head
Lineup:
Philip Lindstrand – Voce
Anton Joensson – Chitarre
Dennis Butabi Borg – Basso
Tony Andersson – Tastiere
Matt Silver – Batteria
Lionville
C’era motivata attesa per i Lionville, non solo perché sono la prima band di base italiana a calcare le assi del Frontiers Festival, ma soprattutto in virtù di una discografia di ottima qualità ormai arrivata al suo terzo, recente capitolo.
Pochi giri di parole: il concerto dei Lionville è stato splendido. La band ha tono e valore internazionale, il che va positivamente sottolineato a fronte di una scena italiana a volte troppo affetta di provincialismo. Certo, oltre che la qualità delle composizioni, a contribuire notevolmente alla riuscita del prodotto sono la voce e la personalitā di Lars Saefsund, che canta col sorriso stampato in volto e pare non faticare mai, rimanendo costantemente intonatissimo.
Apre le danze la bella “I will Wait”, che dà avvio a una sequenza di ottimi brani che il pubblico accoglie e loda con ovazioni e applausi. Tra i momenti migliori ci sono “Show Me the Love”, la successiva “No Turning Back” (una ballad di gran classe, eseguita magistralmente) e “Bring Me Back Our Love”. Ma tutto il concerto è godibile: la band gira perfettamente ed è un vero piacere ascoltare la fluidità live dei brani.
Stefano Lionetti non smette di ringraziare il pubblico, dimostrando a più riprese tutta la propria riconoscenza e soddisfazione. Mi sarei aspettato qualche parola in italiano: va benissimo che la lingua ufficiale del festival sia l’inglese, ma se le band straniere si sforzano a dire un “grassie!” e un “bella Italia!”, non sarebbe stato fuori luogo ascoltare il nostro idioma per una volta pronunciato bene.
In conclusione, una bellissima prestazione per una band che ci darà soddisfazioni.
Setlist:
I will wait
Here by my side
A world of fools
All we need
Show me the love
No turning back
Power of my dreams
Bring me back our love
With you
Lineup:
Stefano Lionetti – Chitarre
Lars Säfsund – Voce
Michele Cusato – Chitarre
Giulio Dagnino – Basso
Martino Malacrida – Batteria
Fabrizio Caria – Tastiere
Adrenaline Rush
Dalla freschezza nella tradizione dei Lionville eccoci catapultati nella canonicitā degli Adrenaline Rush.
La band ce la mette davvero tutta per dare forza a composizioni dalla scrittura leggera, che arrangiamenti e suoni aggressivi non riescono a far decollare dal vivo.
Tåve Wanning è irrefrenabile e, inevitabilmente, il centro dell’attenzione con quei capelli biondi vaporosi e quella schiena nuda che non possono non attrarre sguardi e pensieri dei rocker di ogni età e provenienza. Ma la voce è quella che è. Certo, poco prima su quel palco c’era Lars Säfsund (e tra qualche ora ci sarā un certo Tony Harnell): il confronto è impietoso, benché la mia beluinità maschile non esiterebbe a preferire una cena con Tåve che con il buon Lars.
I pezzi si alternano senza troppi scossoni, mentre la band spinge al massimo sugli strumenti e Tåve urla su “Change”, “Generation Left Behind” e “Sinner”, non aiutata da suoni un poco impastati e da un volume del microfono della sua voce davvero troppo basso (almeno dalle prime file). Forse, è proprio l’ultimo pezzo, quella “Girls Gone Wild” che suona cosė tanto Motley Crue, a rappresentare il momento migliore degli Adrenaline Rush, che lasciano il palco tra i commenti, non sempre musicali, del pubblico.
Setlist:
Adrenaline
Love Like Poison
Shock me
Change
Generation left behind
Break the silence
My life
Sinner
Girls gone wild
Lineup:
Tave Wanning – Voce
Ludvig Turner – Chitarra
Alexander Hagman – Chitarra
Soufian Ma’Aoui – Basso
Marcus Johansson – Batteria
Kee Marcello
Avevo lasciato Kee Marcello ai tempi degli Europe. Non ne ho seguito con grande attenzione la carriera solista e, dunque, ero decisamente curioso di vedere colui che, nel mio cuore ormai annoso, rimarrà sempre il sostituto di John Norum.
Il buon Kee si presenta con una band a due chitarre e priva di tastierista, il che ne dimostra l’attitudine molto hard rock. In effetti, i suoni sono ben distorti, come le composizioni soliste di Marcello richiedono: le varie “Scaling Up”, “Get on Top” e “Don’t Miss You Much” ne risentono positivamente. Soprattutto quest’ultima è davvero un pezzo trascinante dal vivo e ha rappresentato uno dei momenti migliori del concerto, con il pubblico decisamente in sintonia con la band.
Un discorso a parte va fatto per i pezzi degli Europe, che sono sembrati eseguiti da una cover band con un ottimo chitarrista. L’eleganza degli arrangiamenti, e la presenza delle tastiere, è parte integrante della qualità delle composizioni degli svedesi. La band di Kee Marcello ha, invece, preferito optare per esecuzioni più aggressive e sporche, che non hanno saputo valorizzare scritture di ottima fattura. Se la cosa è tutto sommato trascurabile su “More Than Meets the Eye” e “Tower’s Calling”, ecco che “Girl From Lebanon” e anche “Superstitious” ne escono con le gambe rotte e il respiro corto. Un velo pietoso va steso sulla conclusiva “The Final Countdown”, dove nulla riesce bene, compreso il celeberrimo assolo e la triste registrazione a basso volume del giro di tastiere.
Si vede che Kee Marcello si diverte un mondo: è simpatico e sa tenere il palco alla grande. Dovrebbe rendersi conto che quanto la sua band oggi propone, in termini sia stilistici che di attitudine, fatica a convivere con il suo ingombrante passato, che andrebbe meglio valorizzato. O del tutto abbandonato.
Setlist:
Soldier Down
More than meets the eye
Girl from Lebanon
Scaling up
Get on top
Don’t miss you much
Tower’s calling
Black hole star
We go rockin
Superstitious
The final countdown
Lineup:
Kee Marcello – Voce / Chitarra
Ken Sandin – Basso
Darby Todd – Batteria
Jonny Scaramanga – Chitarra
Unruly Child
Non si può non amare gli Unruly Child. Sono semplicemente una band eccezionale. Lo sono in virtù di una raffinatezza compositiva ed esecutiva che l’esibizione live non fa altro che accentuare ulteriormente rispetto alle prove su disco. Se poi la band si mette in testa di suonare per intero quella pietra miliare del genere che è il propro album d’esordio (“Criminal” a parte), allora le lodi si sprecano e rischiano di trasformarsi in verbosi panegirici.
Marcie Free domina la scena e interpreta alla grande classici senza tempo come “On the Rise”, “Take Me Down Nasty” e “Who Cries Now”, che precedono una “To Be Your Everything” da lacrime, tanto č il pathos che viene emanato dal palco.
Bruce Gowdy non sbaglia un tocco, un suono, un assolo: tutto torna nel concerto degli Unruly Child …tranne forse il portatile di Marcie Free appollaiato su un trespolo per ricordare le parole dei pezzi: evitabile, Marcie!
Nel corso del concerto si crea una bella sintonia tra band e pubblico. Il tempo sembra non passare se perle del calibro di “When Love is Gone”, “Is It Over” (che splendore) e “Let’s Talk About Love” allietano i nostri minuti sotto il palco.
Quando la band esce prima dell’encore, gli astanti non ne hanno proprio abbastanza e molti sarebbero ben lieti che il concerto durasse pių del previsto. Ma “When love is gone” e “Who cries now” chiudono un’esibizione che, grazie a una scaletta davvero storica e a un approccio da grande band, si è configurata più come un evento che non come un semplice concerto in un tardo pomeriggio di fresca primavera.
Setlist:
Wind me up
Lay down your arms
Take me down nasty
Let’s talk about love
Is it over
On the rise
Tunnel of love
To be your everything (lento – ovazione)
Long hair woman
Forever
This is who I am
Encore:
When love is gone
Who cries now
Lineup:
Marcie Free – Voce
Bruce Gowdy – Chitarra
Guy Allison – Tastiere
Jay Schellen – Batteria
Larry Antonino – Basso
L.A. Guns
Dall’eleganza formale e attitudinale degli Unruly Child veniamo catapultati nel mondo vizioso degli L.A. Guns, semplicemente una delle più grandi band street/sleaze di sempre.
Il pubblico si accalca sotto il palco e le note di quel capolavoro di “Diary of a Madman” lo scaldano a dovere in attesa dell’uscita della band losangelina.
Il celebre logo del gruppo, riprodotto sulla copertina del suo primo, omonimo album, campeggia sopra la batteria. Sotto di esso, sono riportati i nomi di Phil Lewis e Tracii Guns, a ribadire che, dopo lungo travaglio anche giuridico, si tratta finalmente della band unificata e non più di una delle sue due incarnazioni tristemente capitanate ciascuna da uno dei due leader storici.
L’apertura è affidata a “No Mercy”. Ed è tripudio, sudore, attitudine tra il punk (il bassista pare uscito dai Ramones), il glam (il completo pitonato di Lewis è strepitoso) e lo street pių sporco (Tracii pare davvero un barbone).
I suoni sono corposi e la distorsione delle chitarre è perfetta per la proposta della band, benché la chitarra di Michael Grant sarà penalizzata per l’intera durata del concerto da un volume troppo basso.
“Electric Gipsy” è un inno. “Killing Machine” è una (violentissima) gemma tardiva che la band fa bene a mantenere viva. “Over the Edge”, preceduta da un eccellente assolo cacofonico di Tracii Guns (anche con l’archetto), incanta grazie al suo vizioso mid-tempo che, ai tempi dell’uscita di “Hollywood Vampires” aveva fatto storcere il naso a molti (eravamo molto ben abituati…).
Seguono “Bitch is Back” e “Sex Action” trentennali e freschissimi, accolti con ovazioni dal pubblico festante e festaiolo. Phil Lewis canta piuttosto bene, con quella sua timbrica che pare sempre sul punto di sforzare troppo e cadere nella stonatura, per poi riprendersi e suonare adattissima agli L.A. Guns.
Arriva anche un pezzo dal nuovo album, in uscita a breve: “Speed” è una canzone veloce e decisamente fresca e dinamica. Seguono la leggera “Kiss My Love Goodbye” e “Don’t Look at Me That Way”. Ma è “Malaria” a mandare il pubblico in visibilio prima della pausa.
Richiamata sul palco, la band regala un trittico clamoroso da “Cocked and Loaded”. Il ritornello di “Never Enough” sembra fatto apposta per esaltare il pubblico. Quindi, un bel pezzo strumentale, che la band chiama “Jelly Jam” (in cui, purtroppo, la chitarra di Michael Grant è realmente penalizzata da un volume troppo basso), introduce “The Ballad of Jayne”. Uno dei simboli del glam/hair metal degli anni ottanta, The “Ballad of Jayne” è accolta religiosamente dai fan della band, che sono cresciuti su queste note, compagne di tanti loro momenti, più e meno belli; rimane il sapore dolceamaro del constatare quanto i cari accendini siano stati sostituti dagli schermi degli smart phone. E, infine, ecco “Rip and Tear”: ed è un pandemonio. La celeberrima accelerazione finale del pezzo conduce gli L.A. Guns alla consacrazione definitiva, davanti a un pubblico entusiasta di aver constatato l’ottimo stato di salute di un pezzo di storia del genere.
Setlist:
Diary of a Madman (Ozzy Osbourne song)
No mercy
Electric gipsy
Killing Machine
Over the Edge (Preceded by Tracii Guns bowed guitar solo)
Bitch Is Back
Sex Action
Speed
One More Reason
Kiss My Love Goodbye
Don’t Look at Me That Way
Malaria
Encore:
Never Enough
Jelly Jam
The Ballad of Jayne
Rip and Tear
Lineup:
Phil Lewis – Voce
Tracii Guns – Chitarra
Shane Fitzgibbon – Batteria
Michael Grant – Chitarra
Kenny Kweens – Basso
TNT
C’è attesa per l’esibizione dei TNT, che festeggiano il trentennale di “Tell No Tales”. Un’attesa più lunga del previsto, considerati i più di venti minuti di ritardo rispetto al programma con cui il concerto inizia. Niente di male, se poi ci si trova di fronte a una “Give Me a Sign” che sa portare per mano gli astanti nel mondo della band norvegese.
Tony Harnell è decisamente diverso da quel ragazzone colorato e capellone che campeggiava, con la band, sulla copertina di “Tell No Tales”. A vederlo così, con gli occhiali da sole, assomiglia un po’ a Ben Stiller. Ronnie Le Tekro, invece, è magrissimo, ha i capelli fini e lisci ed è vestito con una tutina bianca, che lo fa sembrare un membro degli Angel.
La band, che stasera registra l’esibizione per un DVD live di prossima pubblicazione, ha vita facile grazie al gruppo di canzoni di primissimo piano tratte da “Tell No Tales”, che viene suonato per intero (intermezzi strumentali esclusi). E allora è tempo di “As Far as the Eye Can See” (che nel finale cita “Carry on Wayward Son” dei Kansas), di “Desperate Night” e di “Child’s Play”, prevedibilmente capace di regalare pių di un’emozione al pubblico.
Ma i TNT non si limitano a pescare da quello che è forse il loro album pių famoso. Pezzi da novanta come “Forever Shine On” e la meravigliosa “Intuition” non possono mancare nella scaletta. La band è in ottima forma. Le Tekro non lesina le sue usuali aperture di bocca durante gli assoli, sempre belli e ben eseguiti, e Harnell, pur con qualche accorgimento, si dimostra ancora in grado di arrivare alle note altissime che gli erano usuali un trentennio or sono.
“Northern Lights” è un gioiello melanconico. “Downhill Racer” è la party song che risveglia un Live un po’ affaticato da un giorno intero (e, per molti, da due giorni interi) di festival, mentre “Seven Seas” conclude lo show regolare.
C’è aria di chiusura di evento e la mezzanotte è ormai passata, quando i TNT tornano sul palco con “Listen to Your Heart”, “10,000 Lovers (In One)” ed “Everyone’s a Star”. Soprattutto queste ultime due risvegliano definitivamente il pubblico, che ne canta i ritornelli a squarciagola. “Everyone’s a Star”, in particolare, è ben rappresentativa dell’attitudine di un decennio che fu ricco di speranze e ben suona nei cuori di tutti quei rocker ai quali basta un giubbotto di pelle o uno strumento consunto tra le mani in un locale di periferia per sentirsi una star
Setlist:
Give Me a Sign
As Far as the Eye Can See
She Needs Me
Desperate Night
Invisible Noise
Child’s Play
Guitar Solo
Forever Shine On
Northern Lights
Tonight I’m Falling
Intuition
Downhill Racer
Seven Seas
Encore:
Listen to Your Heart
10,000 Lovers (In One)
Everyone’s a Star
Lineup:
Tony Harnell – Voce
Ronni Le Tekro – Chitarre
Diesel Dahl – Batteria
Roger Gilton – Tastiere
Ove Husmoen – Basso
Si chiude, cosė, la quarta edizione del Frontiers Rock Festival. La valutazione complessiva è decisamente positiva. Il Live di Trezzo si conferma la location pių adatta alla manifestazione, sia per dimensione che per capacitā di accoglienza. L’organizzazione è stata impeccabile, con il rispetto degli orari delle esibizioni e una bella offerta di pacchetti capaci di venire incontro alle più diverse esigenze. Anche questo ha sicuramente contribuito ad attrarre un folto numero di partecipanti dall’estero, confermando il festival come un evento ormai stabilitosi nelle pianificazioni concertistiche degli appassionati a livello continentale.
L’alternarsi di band dai suoni più e meno duri, più e meno moderni e dall’età anagrafica piuttosto varia ha contribuito a dare freschezza al bill. Le esibizioni hanno fornito un buono spaccato dello stato dell’arte del genere nel 2017, confermandone la buona salute grazie anche al supporto lodevole di un’etichetta convinta e attiva come la Frontiers. Le riproposizioni di classici ormai immortali, come il primo disco degli Unruly Child, “Don’t Come Easy” dei Tyketto e “Tell No Tales” dei TNT, rappresenta il vitale legame tra la vecchia e la nuova guardia di chi suona e di chi ascolta, quasi a saldare parti di una storia che, al netto delle alterne sorti commerciali del genere, non ha in vero soluzione di continuità.
E poi ci sono i fotografi, gli standisti, i colleghi di chi vi scrive e gli appassionati; che sono lo spettacolo nello spettacolo. A loro, al pubblico del Live va reso il merito di aver creato per l’ennesima volta un’atmosfera magica, in cui i confini tra il fan e il musicista si confondono, a creare una comunità coesa che già guarda con trepidante attesa alla prossima edizione.