Hard Rock

Live report: Frontiers Festival VI – 27/28 Aprile 2019

Di Stefano Ricetti - 3 Maggio 2019 - 7:26
Live report: Frontiers Festival VI – 27/28 Aprile 2019

 

Frontiers Festival VI – 27/28 Aprile 2019
Live Music Club@ Trezzo sull’Adda (MI)

 

FRF 2019

 

Sesto anno consecutivo. 
Un bel traguardo per un festival dedicato a generi musicali divenuti di nicchia come hard rock e AOR, ormai meta prediletta da un novero di appassionati dall’aspetto sempre meno giovane, con qualche capello bianco che si aggiunge di anno in anno, ma pure con un ampio bagaglio di ricordi legati ad uno stile che è prima di tutto “di vita”. 
E che, pur se limitato nei numeri e nei dati di vendita, non mostra segni di cedimento e riesce, nonostante tutto, a rinnovarsi pervicacemente. 

Al di la di ogni possibile dubbio, parte del merito è ascrivibile all’opera di una label come Frontiers Music, ultima autentica riserva del grande rock anni ottanta che continua imperterrita nella propria attività, al contempo, romantica e futuribile.
Quasi utopica nell’assiduo, fin commovente, tentativo di mantenere inalterato il fascino di un modo di far musica di certo non moderno, eppure in qualche modo capace di catturare ancora fasce giovani di audience e musicisti.
Uno sguardo trasversale che accoglie antichi alfieri di lungo corso ma, parimenti, cerca di lustrare i lineamenti di nuove realtà pescate in giro per il mondo, fresca linfa vitale per un tipo di suono coniugato indissolubilmente con quella che è pura e semplice passione.

Una sesta edizione che verrà certamente ricordata come una sorta di eccezionalità nel percorso sin qui descritto dal Festival, per via della presenza – titanica e monumentale – di un nome come quello di Alan Parsons: qualcosa di molto affine ad una leggenda, per quanto possa essere efficace un termine così spesso abusato. 
Senza nulla togliere ai restanti – e spesso eccellenti – gruppi in cartellone, un po’ il proverbiale “gigante in mezzo ai moscerini”, dall’alto di una storia ed una carriera dai conclamati livelli cosmici.

 

Giorno Uno – 27 aprile 2019

Live report a cura di Fabio Vellata e Teresa Lastella
 

 

**Creye**

Sono giovani e carini. Potrebbero quasi ricordare una boy band.
Se non fosse che suonano AOR. E che AOR!
Depositari di quello che è stato –  a parere di chi scrive – il disco rivelazione in ambiti melodici del 2018, ai Creye from Sweden, il compito di aprire la sesta edizione del Frontiers Festival.
Una presenza che è la conferma di quanto si accennava in apertura: nuove leve che in virtù di ottimi numeri meritano un’occasione per tentare la strada del successo. 
Grintosi, padroni senza timore della scena, i giovani svedesi hanno recentemente provveduto a qualche cambio di formazione che ne ha comunque lasciati inalterati i caratteri, mantenendo con forza la carica di melodia della loro proposta.
Mezz’ora di concerto per dimostrare un’efficacia già ottimale nello stare sul palco, corroborata da brani che scivolano e scintillano in pieno stile anni ottanta.
Sono nati in un’epoca sbagliata? Forse.
Un quesito comunque ininfluente per i già numerosi convenuti, per i quali il tempo e le epoche, se di musica si tratta, sono fattori decisamente relativi e marginali.
 

Setlist:

Nothing to Lose
Christina
Miracle
Straight to the Top
Never Too Late
Different State of Mind
Holding On

 

**Airrace**

Nemmeno un giro di lancetta ed è già il momento di lasciarsi andare ad applausi a scena aperta.
Una carriera lunghissima, eppure un numero di album che non completa nemmeno le dita di una mano.
E poi, tanta, tantissima classe.
Retti sull’asse di grande esperienza che contempla il leader e fondatore Laurie Mansworth alla chitarra, Rocky Newton al basso (celebre anche per la lunga militanza nei Lionheart) e la coloratissima lady Kelsey Foster alle tastiere, gli Airrace sono completati da Dhani Mansworth (figlio dello stesso Laurie e già nei The Treatment) alla batteria e dall’ex Serpentine, Adam Payne, al microfono.
Sarà proprio quest’ultimo, nel corso dell’esibizione, ad ottenere i consensi maggiori in virtù di una performance al limite della perfezione.
Una bella selezione di brani che mescolano orecchiabilità e buon hard rock, con le consuete tematiche a cavallo tra ELO e Led Zeppelin, la cornice di un’esibizione fantastica, piena, ricca di stile ed eleganza. Precisa, senza sbavature: insomma, una delizia per le orecchie.
Come qualcuno ha efficacemente sentenziato, gli Airrace, a bocce ferme, sarebbero risultati uno dei picchi qualitativi dell’intero festival.
Niente di più vero: musica suonata con il cuore e gli attributi da un nucleo di musicisti cui la parola “eccellenza” calza come un vestito su misura.
Nel contesto di un festival come al solito ricco di sorprese, quella di ascoltare gli Airrace è stata un’occasione praticamente unica, forse persino irripetibile, che serberemo tra i ricordi migliori.
 

Setlist:

I Don’t Care
Eyes Like Ice
New Skin
Not Really Me
First One Over the Line
Summer Rain
Running Out of Time
Different but the Same
Brief Encounter

20190427 152113

 

**Jeff Scott Soto**

Quando sul palco si presenta un autentico animale come Jeff Scott Soto c’è poco da fare.
Si deve solo ascoltare, guardare ed ammirare. Anche quando il buon Jeff – come in questa occasione – non è vocalmente al massimo della forma (almeno sulle prime battute), non si può far altro che togliersi il cappello ed applaudire.
Un frontman espertissimo, capace di tenere in mano il pubblico con una vitalità ed un’energia contagiosa e dirompente al punto da farlo considerare, senza timori di smentite, tra i migliori performer attualmente presenti al mondo, ha condotto uno show che, data la caratura del personaggio, avrebbe di certo meritato un minutaggio superiore.
C’è ovviamente da considerare il fatto che Soto sarà protagonista anche l’indomani con i pirotecnici W.E.T., ragion per cui non si poteva di certo chiedere di più ad un artista che, ad ogni modo, pure in questo caso non si è risparmiato.
Durante le prime battute dell’esibizione ci ha tuttavia assalito qualche dubbio: Jeff un po’ sottotono e non ancora “caldo” a dovere, o livelli del microfono troppo bassi tanto da risultare sommersi dal resto degli strumenti?
Un dilemma che si è comunque dileguato con il proseguimento della performance, ingioiellata con l’esecuzione di brani davvero godibili quali “Believe in Me“, “Eyes of Love” e “Our Song”.
L’immancabile problema tecnico, questa volta alla chitarra dell’ottimo Lèo Mancini, non ha poi impedito il buon esito finale dello show, reso indimenticabile dalla fantastica “I’ll Be Waiting” (un inno scritto con i Talisman, cantato dall’intera platea) e dalla potente “Stand Up”, spettacolare pezzo heavy “mangiaossa” interpretato in coppia con Dino Jelusìc, frontman degli Animal Drive dotato di grande talento, giustamente presentato da Soto come valido esponente della “new breed”, la razza nuova di grandi cantanti.
Tutto vero, con un “però”. Jelusìc è bravissimo, ma quando Soto è “caldo”, sul pezzo ed in carburazione è praticamente impossibile tenergli testa. La riprova è stata proprio “Stand Up”: non appena Jeff spalancava i “polmoni”, l’idea di una categoria di diversità era ancora abbastanza nitida.
Jelusic cresce bene…ma Soto è un Dio dell’Olimpo con cui ci vorrà ancora un po’ prima di poter combattere ad armi pari…
 

Setlist:

Drowning
21st Century
Believe in Me
Look Inside Your Heart
Eyes of Love
Soul Divine
Our Song
Holding On
I’ll Be Waiting (Talisman cover)
Stand Up (con Dino Jelusić)

20190427 161907

 

20190427 170128

 

20190427 162730

 

20190427 170240

 

 

 

**Ten**

In tema di dei, roba epica, storie di passioni fantastiche ed icone fantasy, l’arrivo in scena dei Ten è stato un passaggio azzeccatissimo e quasi naturale.
Altro giro, altra grande voce, questa volta quella calda e profonda di Gary Hughes, singer di classe che non ha mai prediletto le tonalità troppo alte o i toni eccessivamente accesi.
Il consueto incedere maestoso, solenne, quasi nobile nella propria eleganza, ha reso anche dal vivo le canzoni dei Ten un’esperienza del tutto singolare e di difficile catalogazione.
Va detto con sincerità: i Ten devono piacere. È necessario sapersi introdurre ed immedesimare nella proposta condotta dal combo inglese, riuscire a “viverla” concretamente per poterla davvero apprezzare.
Altrimenti il rischio è, su disco come dal vivo, il non comprenderne appieno la poesia romantica e la forza immaginifica che ne animano le canzoni, lasciandole scivolare quasi con noia.
Abbiamo visto i Ten “live” per la prima volta in occasione del Frontiers ed anche sulle assi del palco l’impressione è stata quella di una band unica nel suo peculiare suono epic-folk, ancorché un pelo difficile e talora non elogiata per quanto meriterebbe.
Uno show che arrivava nel ventesimo anniversario della pubblicazione dell’immenso “Spellbound” che non poteva, ovviamente, non essere omaggiato con l’esecuzione di alcuni brani estrapolati dalla sua scaletta.
Intensi ed ugualmente naturali, i Ten hanno convinto l’audience con un concerto limitato se raffrontato alla portata storica del loro nome, mostrando come tanti anni trascorsi a macinare musica, album e concerti, siano un patrimonio determinante nel saper condurre al meglio un evento live di successo.
Emozioni particolari per il sottoscritto sull’iniziale “The Robe”, “Ten Fathoms Deep” e sulla conclusiva, enorme, “The Name of the Rose”.
 

Setlist:

The Robe
Shield Wall
Spellbound
Gunrunning
Ten Fathoms Deep
After The Love Has Gone
Jekyll And Hyde
Red
The Name Of The Rose

20190427 173600

 

20190427 173858

 

**Hardline**

Si chiama “Fontiers Festival”, quest’anno però avrebbe forse potuto chiamarsi anche “Festival delle grandi voci del Rock”.
Già, perché dopo Adam Payne, Jeff Scott Soto e Gary Hughes, ecco manifestarsi un altro grande frontman come Johnny Gioeli, vocalist degli ormai “italiani” Hardline, a fornire lustro ad una giornata orientata costantemente all’eccellenza.
Uno show che è stato una festa quello degli Hardline, nome storico della scena melodic rock che sta vivendo una seconda giovinezza grazie alle forze tutte tricolori messe a disposizione da musicisti di profonda caratura artistica quali Alessandro Del Vecchio, Mario Percudani, Anna Portalupi e Marco Di Salvia
Ascoltare dal vivo brani strappati alla storia come “Life’s a Bitch“, “Dr.Love”, “Everything”, “Takin’ Me Down”, “Hot Cherie”, “In The Hands of Time” e “Rhythm From a Red Car” è stato un sussulto per il cuore di chi ha amato alla follia il primo, grandissimo, disco della band.
Che emozione poi, rivivere proprio “Life’s a Bitch” e “In The Hands of Time” con l’unico ed originale mr. Deen Castronovo quale ospite di lusso alla batteria, a ricostruire per il breve spazio di un paio di canzoni i due terzi di quella prodigiosa formazione che diede alle stampe il fenomenale “Double Eclipse” nel 1992.
Zero sbavature, prestazione inossidabile, empatia con il pubblico (Gioeli racconta pure barzellette!) e grandi canzoni.
Critiche? Ma non scherziamo nemmeno…
 

Setlist:

Place to Call Home
Play Video
Takin’ Me Down
Play Video
Dr. Love
Take a Chance
Where Will We Go From Here
Page of Your Life
Life’s a Bitch (con Deen Castronovo)
In the Hands of Time (con Deen Castronovo)
Take You Home
Everything
Hot Cherie
Fever Dreams
Rhythm from a Red Car

20190427 190842

 

20190427 191011

 

 

**The Defiants**

Con sincerità ci siamo chiesti almeno un paio di volte la ragione per cui i pur ottimi Defiants fossero stati programmati così alti in cartellone. Addirittura a ridosso di un nome mitologico come quello di Alan Parsons.
Ok, molto bravi, l’emanazione diretta dei grandi Danger Danger “seconda versione” – quella con il canadese Paul Laine alla voce – e sicuramente artisti di grandissimo livello e massima affidabilità nella resa sul palco.
Tuttavia l’aver prodotto un solo album in una carriera iniziata nel non lontanissimo 2016 e l’aver già partecipato con una collocazione piuttosto di rilievo al Frontiers proprio del 2016, strideva discretamente con il ruolo prossimo a quello di co-headliner, soprattutto se rapportato alla posizione ed al minutaggio riservato ad alcune altre band ascoltate in precedenza nell’arco della prima giornata di questo festival.
Domande fugate, brillantemente, nel corso dello svolgersi di un’esibizione che, al suo termine, ha potuto definirsi di portata quasi “storica”. Per quanto si possa rilevare un qualcosa di autenticamente “storico” nel microcosmo di una realtà come quella dell’hard rock.
In effetti, la presenza di Steve West alla batteria sapeva davvero moltissimo, sin di primo acchito, di reunion in grande stile, in particolare se vista nell’ottica della prossima pubblicazione del nuovo cd previsto per giugno 2019 ed intitolato semplicemente “Sequel”.
Nessuno tuttavia poteva immaginare però che, nel bel mezzo di uno show come al solito ricchissimo di bei momenti, gustoso e carico di ironia, piombasse sul palco anche quel folletto biondo di Ted Poley, arrivato direttamente dal centro di una platea in visibilio per eseguire insieme ai vecchi compagni alcuni pezzi dell’epoca d’oro dei Danger Danger.
Peccato a questo punto per l’assenza di Andy Timmons: con la comparsa contemporanea on stage di Bruno Ravel, Rob Marcello, Steve West, Paul Laine e Ted Poley, si sarebbe potuto parlare di una reunion pressoché “universale” dei Danger Danger, espressi in una live band in cui racchiudere entrambe le anime storiche del gruppo statunitense.
Godimento e divertimento allo stato puro: intercalando i brani del debutto edito qualche anno fa, con i successi dei D.D., i Defiants sono scivolati piacevolmente da “Love and Bullets”, “Take Me Back”, “Waiting on a Heartbreak” e “Runaway”, ai classici “Still Kickin’”, “Goin’, Goin’ Gone” ed alla bellissima “Dead, Drunk and Wasted”, incastonando nel centro dell’esibizione la comparsata di Ted Poley.
Un salto nel passato reso unico dall’esecuzione corale della bellissima “Don’t Break My Heart Again” e concluso con l’altrettanto iconica “Beat the Bullet”, dall’indimenticabile “Screw It!”.

Tutto chiaro, tutto approvato. Al termine del concerto, i Defiants hanno ampiamente legittimato la loro collocazione in scaletta!
 

Setlist:

Love and Bullets
Waiting on a Heartbreak
Dead Drunk & Wasted
You Crossed My Heart
Dorianna (Paul Laine song)
Don’t Break My Heart Again
I Still Think About You (con Ted Poley)
Goin’ Goin’ Gone (con Ted Poley)
Don’t Blame It on Love
Runaway
Take Me Back
Beat the Bullet

20190427 210147

 

20190427 210235

 

20190427 210238

 

 

 

**Alan Parsons**

Chi non aveva, ovviamente, necessità di legittimazioni nel ruolo di headliner era sua maestà Alan Parsons, probabilmente l’artista dall’importanza storica maggiore mai comparso sulle scene del Frontiers Festival.
Qualcuno prima dello show aveva sentenziato che Parsons, da solo, aveva venduto in carriera più album di tutti gli altri nomi presenti in cartellone messi assieme: un assioma immediato quanto calzante utile nel descrivere la grandezza di un personaggio che come pochi ha avuto il merito di marchiare concretamente la musica, quella grande ed universalmente riconosciuta da meriti artistici e dati di vendita.
Il colpo d’occhio della sala naturalmente, mai come questa volta si è presentato come composito ed eterogeneo: molte le chiome bianche, parecchie coppie stagionate, un buon numero di presenze straniere, mescolati a rocker più o meno giovani che, magari, quando Alan Parsons usciva nel 1976 con “Tales of Mystery and Imagination”, nemmeno erano nati.

Con una buona mezz’ora di ritardo sulla programmazione, il nutrito numero di musicisti ha fatto il proprio ingresso sul grande palco del Live Music Club di Trezzo, dando il via ad un’esibizione che è stata adornata da grande energia, preziosismi tecnici e poesia allo stato cristallino. Un viaggio in un universo a parte, dissociato dalla realtà comune, rarefatto, immacolato, come solo le melodie composte da Parsons in oltre quarant’anni sanno descrivere con brillantezza.
Posizionato nelle retrovie, in seconda fila, in una collocazione un po’ più alta seppur leggermente defilata, il celebre ed imponente mastermind inglese è apparso quasi una sorta di “nume tutelare” che osserva agire dall’alto il resto della band, dirigendola con pochi semplici accordi e alcune strofe eseguite al microfono, alla conquista di un pubblico che già alla semplice entrata in scena si è lanciato in grandi applausi ed ovazioni.
Un po’ imbolsito dall’età, Parsons è sembrato non voler mai invadere troppo lo spazio riservato ai “suoi” artisti, riservando per se un ruolo apparentemente di secondo piano, benevolmente piazzato come una sorta di divinità posta sul monte Olimpo.

Un’ora e mezza di show volata via come un battito d’ali, resa indimenticabile dal passaggio su brani dall’impressionante impatto emotivo come “Time”, “Don’t Let it Show”, “Limelight” e “The Raven”, inframmezzati dai pezzi più recenti estratti dal nuovo album (“One Note Symphony”, “Miracle”, “As Lights Fall”, “I Can’t Get There from Here”) e suggellati dal quell’enormità leggendaria, immortale, spropositata, immensa che risponde al binomio “Sirius” / “Eye in the Sky”, melodia che, all’ergersi delle prime note ha in pratica mandato in tilt il sistema nervoso dell’intera sala, facendo schizzare l’adrenalina verso le stelle.
Dopo il consueto “scappa e ritorna” che precede i tradizionali bis (durato però più del solito e scandito da un coro quasi da stadio intonato dall’intero parterre), gli encore scelti per il saluto hanno  riservato le note della antichissima “(The System of) Dr. Tarr and Professor Fether” e quelle della gioiosa “Games People Play”, perfetta chiusura di un concerto talmente perfetto da apparire ai limiti dell’irreale.

Tecnicamente straordinaria (Jeff Kollman e Dan Tracey alle chitarre, Todd Cooper alla voce e sax, Guy Erez al basso, Tom Brooks alle tastiere, Danny Thompson alla batteria,  P.J. Olson e Jared Mahone al microfono) la band “live” di mr. Parsons ha, infatti, offerto una performance suggestiva nella perfezione dei dettagli, negli assolo, nella magia degli impasti vocali mai banali o improvvisati.
Mancava forse solo il leggendario Lenny Zakatek per rendere l’empireo realmente a portata di mano.

Conclusosi intorno alle 00.30, il concerto di Alan Parsons e della sua band è stato, senza tanti giri di parole, un evento indimenticabile che rimarrà probabilmente impresso a vita nella memoria dei tanti – fortunati – presenti.
Poche storie, ascoltare dal vivo “Sirius” ed “Eye in the Sky” eseguite da chi le ha composte nel lontano 1982, è roba che si può raccontare ai posteri!
 

Setlist:

One Note Symphony
Damned If I Do
Don’t Answer Me
Time
Breakdown
The Raven
I Wouldn’t Want to Be Like You
Miracle
Don’t Let It Show
Limelight
As Lights Fall
Standing on Higher Ground
I Can’t Get There From Here
Prime Time
Sirius
Eye in the Sky

Encore:

(The System of) Dr. Tarr and Professor Fether
Games People Play

20190427 230218

 

20190427 230424

 

20190427 230617

 

20190427 233424

 

20190427 234803

 

 

—————————–

Con grande soddisfazione si è conclusa così la prima giornata della sesta edizione del Frontiers Festival.
È stato un pomeriggio di grande musica, ottime conferme e forti emozioni. Talmente forti da far passare in secondo piano il tentativo di furto perpetrato (per fortuna senza successo) ai danni della nostra auto nel parcheggio del supermercato adiacente al Live Music Club.
Grazie al cielo siamo corazzati con degli antifurto a prova di bomba: poveracci, voi siete andati a vuoto…ma noi Alan Parsons, i Defiants, gli Hardline, i Ten, Soto, gli Airrace e i Creye li abbiamo visti, ascoltati e ce li siamo goduti davvero.

Tiè!

———————————————————————-

Giorno Due – 28 aprile 2019

Live report a cura di Carlo Passa e Stefano Ricetti
(foto realizzate da Massimiliano Ferraris)

 

frontiers rock festival 2019 orari

 

 

Heavy Metal Parking Lot fu pubblicato nel 1986. Si trattava di un documentario sui fan in attesa di entrare a un concerto dei Judas Priest. Cercando posteggio fuori dal LIve di Trezzo in occasione della seconda giornata della sesta edizione del Frontiers Rock Festival, non sembrano essere passati più di 30 anni da quei tempi. Rocker borchiati e/o incanutiti si affiancano a qualche giovane che rimpiange anni che non ha potuto vivere; nell’aria c’è la consueta atmosfera da happening di una comunità compatta, che anche quest’anno si è riunita intorno a nomi più o meno grandi dell’AOR e dell’hard rock.

**King Company**

Spetta ai finlandesi King Company aprire le danze con il loro caldo hard rock che rimanda ai numi tutelari Whitesnake (con qualche svisata di classe reminescente dei Dokken).
Se la band aveva stupito favorevolmente sui due dischi in studio, in virtù di un buon songwriting e soprattutto di un notevole gusto per la melodia asservita alla canzone, la prova live evidenzia qualche pecca. In particolare, la voce di Ilkka Keskitalo non sembra sempre in tono, penalizzando così la mezz’ora riservata alla band, che è comunque riuscita a scaldare un poco il già numeroso pubblico assiepatosi sotto il palco. Piacevoli, ma rivedibili.
[NB: nella setlist manca il titolo della prima canzone. Il vostro recensore ha classicamente imboccato l’entrata sbagliata della tangenziale est e si è perso l’inizio del festival.]
 

SETLIST

King for tonight
Hurricane
One day of your life
Wheels of No return 

**Leverage**

Finlandia segue Finlandia. Ma con tutt’altra qualità. Gli eccellenti Leverage regalano, infatti, un ottimo show pomeridiano al variegato pubblico presente al Live di Trezzo. Kimmo Blom è un vero animale da palco, ricco di movenze ammiccanti e quasi invasato dalla musica della sua band, che a propria volta lo supporta bene, senza strafare inutilmente.
Purtroppo, almeno sotto il palco, i suoni sono confusi: gli assolo dei chitarristi si possono solo intuire, la batteria tende a sovrastare tutto e la voce stessa di Kimmo è a tratti poco più che un sussurro. Un vero peccato, perché la prova dei Leverage è notevole, grazie a pezzi realmente esaltanti come Love Burn Love e l’evocativa Red Moon over Sonora. La proposta della band è tra le più dure della giornata, mischiando hard rock e heavy metal con un buon grando di personalità; e il pubblico apprezza dimostrando una bella interazione con il gruppo.
La conclusione è riservata a The Wolf and the Moon, che entra in testa a molti dei presenti che si affolleranno allo stand Frontiers ad acquistare il materiale della band. Bravi: li attendiamo con uno show tutto loro.
 

SETLIST

Superstition
Burn love burn
Wind of Morrigan
Mister Universe
Dreamworld
Red moon over sonora
Fifteen years
The wolf and the moon

**Fortune**

Non sono certo una band prolifica i Fortune: due album tra il 1978 e il 1985, e un terzo in questo 2019. Eppure il livello della produzione dei losangelini, oltre che la fortuna (appunto) di essersi trovati a suonare la musica giusta nel posto e momento giusto, li ha consacrati tra i culti minori del rock melodico. C’era, dunque, grande attesa a Trezzo per la loro prova.
Un’attesa ben ripagata, se è vero che la band gira alla grande: la voce di Larry Greene, pur senza bisogno di una potenza che non ha, sa incantare, così come l’elegante lavoro chitarristico di Richard Fortune.
Quasi a contraltare dell’hard & heavy dei Leverage, l’AOR di classe dei Fortune è forse la proposta più leggera della giornata, ma non per questo la tensione cala nell’ora della prestazione degli statunitensi; ciò in virtù soprattutto di grandi pezzi come Deep in the Heart of the Night e Dearborn station, che sono navicelle temporali capaci di portare gli astanti dritti nel 1985: e tutti ne godono.
 

SETLIST

Thrill of it all
Don’t say you love me
Bad blood
What a fool I’ve been
Through the fire
Deep in the Heart of the Night
Lonely hunter
Shelter of the night
Dearborn station
Freedom road

**Keel**

[Stefano “Steven Rich” Ricetti]

Ogni tanto, all’interno dei vari festival, capita che gli organizzatori, con il classico coup de théâtre, rendano un appuntamento imperdibile. Al Frontiers Rock Festival nella giornata di domenica è per l’appunto accaduto questo. Il fatto di avere nel cartellone uno come Ron Keel, seguito per la maggior parte anche dalla masnada di musicisti che diede alle stampe il pluridecorato The Right To Rock, Anno Domini 1985, ha catalizzato in quel di Trezzo Sull’Adda, un quantitativo di persone che altrimenti avrebbe passato la giornata del 28 aprile in altra modalità. Lo scrivente, senza Keel, sarebbe stato fra questi ultimi…  
La magia di uno come Rynia Lee Keel Jr., detto Ron, georgiano (USA) di Savannah del ’61, è quella di riuscire a mettere d’accordo anime defender, amanti del rock tout court e ultras dell’Hard Rock. Certe fenomenologie paiono inspiegabili: Keel è sempre stato un bel personaggione, senza dubbio, ma certamente non a livello di altri suoi colleghi più titolati. Dischi immortali nella loro interezza a suo nome se ne ricordano pochi ma pezzi epocali, quelli sì, ne ha scritti. Uno, in particolare, che troneggia lassù dove non osano nemmeno le aquile, da quasi quarant’anni. Titolo: The Right To Rock
Il popolo presente domenica ha ingrossato le proprie fila di gente che era specificamente lì per lui, Ron, anche perché beccarsi in un colpo solo Mr. Keel insieme con Marc Ferrari, l’affabile Geno Arce, Bryan Jay e il drummer Dwain Miller non è roba da poco! L’Italia metalrockettara aveva voglia di Ron Keel e Ron Keel, alla sua prima dalle Nostre parti – dopo trentasei anni di carriera, sebbene intervallata da momenti dedicati al country – non ha certo deluso le aspettative. Lo show della sua band ha emanato credo, simpatia e tanto rock’n’roll. Lontani dalla chirurgia applicata alla musica esternata qualche ora dopo dagli W.E.T. (gli altri vincitori della giornata, secondo chi scrive), Keel & Co. hanno puntato sull’immediatezza. Come si diceva prima, gli statunitensi hanno saputo intervallare autentiche cannonate – Speed Demon, le cover Because The Night e R’N’R Outlaw, Tears Of Fire – a pezzi non così clamorosi (eufemismo), per poi finire (o quasi, visto che hanno chiuso con You’re The Victim) con Ron in mezzo al pubblico impegnato sulle note dell’acclamatissimo inno The Right To Rock che, un po’ romanticamente, può assurgere a canzone simbolo dell’FRF targato 28.4.2019!
Buona la prima, Ronnie, chapeau! 
 

SETLIST

United Nations
Somebody’s Waiting
Speed Demon
Push & Pull
Streets of Rock & Roll
I Said the Wrong Thing
Because the Night
Looking for a Good Time
Here Today Gone Tomorrow
Rock N’ Roll Outlaw
Tears of Fire / Right to Rock
You’re the Victim

**Burning Rain**

Cominciamo dalle ovvietà. Doug Aldrich è una grande chitarrista: ha una tecnica sopraffina, un buon gusto e un groove notevole. Keith St. John ha (quasi) tutti gli ingredienti del grande front man: postura, movenze, look e, naturalmente, voce.
Fatto sta che, nonostante le ottime premesse, i Burning Rain non mi hanno molto convinto: Keith St. John si atteggia (troppo) a Coverdale/Plant per essere davvero credibile. E i pezzi sono sì buoni, ma così tanto debitori del pantheon dell’hard rock classico settantiano da divenire a tratti stucchevoli.
Per carità, non mancano bei momenti, come Beautiful road, o una Heaven gets me by in versione acustica che riesce davvero a trasportare un pezzo di Trezzo d’Adda negli anni settanta. Ma non basta: e alla fine resta una sensazione di tanto rumore per poco.
Il pubblico, comunque, reagisce bene perché, ammettiamolo, i Burning Rain sono una gran bella macchina da concerto. Sulle note di Face the Music, la band lascia il palco tra gli applausi, forse più dedicati al modello che alla sua ennesima incarnazione.
 

SETLIST

Midnight train
Revolution
Nasty Hustle
Cherie Don’t Break My Heart
Beautiful road
If it’s love
My Lust Your Faith
Heaven gets me by
Stone Cold N’ Crazy
Lorelei
Hit and Run
Face the Music

IMG 6163

 

IMG 6165

 

**W.E.T.**

Se i Leverage sono stati i vincitori tra le band “minori” della seconda giornata del festival, i W.E.T. hanno dominato tra i grandi nomi.
Favoriti da una produzione di grande qualità e notevole varietà, i W.E.T. prendono per mano il pubblico del Live e non lo lasceranno per tutto il tempo dell’esibizione. Non c’è un attimo di respiro quando si alternano pezzi come Burn e Kings on Thunder Road, la splendida Brothers in Arms e Invincible, oppure le lente Elegantly Wasted e Love Heals, che emozionano tutto il fortunato pubblico.
Jeff Scott Soto ha personalità (e voce!) di altissimo livello, ma è tutta la band a regalare una splendida prestazione, che lascia i presenti sotto il palco stravolti e felici. Ad aiutare il trionfo sono anche i suoni: perfetti, pieni e coinvolgenti, almeno quanto la band che li produce.
Il finale è fatto di If I Fall e One Love: ed è un crescendo di piacere per chi ha deciso di dedicare il fine settimana alla grande passione della vita. Gli W.E.T., che ormai 10 anni fa salutammo come un interessante side project, si confermano una realtà solidissima della scena.
Da vedere e rivedere, all’infinito.
 

SETLIST

Watch the fire
Burn
Kings on thunder road
Elegantly wasted
Brothers in arms
Invincible
Love heals
Broken wings
Urgent
Walk away
Learn to live again
I don’t want play that game
Comes down like rain
If I fall
One love

IMG 6168

 

**Steve Augeri Band**

Ero molto curioso di assistere alla prova della Steve Augeri Band. Come è noto, Steve ha legato il proprio nome a pezzi di storia dell’AOR e dell’hard rock, come Tyketto e Tall Stories, oltre che ovviamente ai Journey, di cui è stato il cantante dal 1998 al 2006.
Lo ammetto: temevo l’effetto cover band, quella sensazione di tristezza che ti prende quando vedi Blaze Bayley mettere in scaletta Hallowed Be Thy Name e il pubblico svegliarsi finalmente dal torpore che lo aveva attanagliato durante i pezzi dell’ex cantante degli Iron Maiden. Gli eventi mi hanno dato solo in parte ragione. Se, infatti, il freddo recensore non può non sorridere al sottotitolo del sito ufficiale di Augeri (che recita “JOURNEY former Lead Singer”), il fan si strappa le vesti davanti a Separate Ways e Stone in Love cantate alla grande. Se il censore discomane alza il sopraciglio di fronte ai suoni delle tastiere di Crain Pullman, il rocker che conosce a memoria Escape si esalta per l’ennesima volta davanti all’assolo di Don’t Stop Believin’, bene eseguito da un Adam Holland tinto e cotonato (inguardabile davvero).
Ma il concerto non è solo Journey: c’è spazio anche per i Tyketto (Jamie) e per ben due pezzi dei Tall Stories, oltre che per una cover di Forever Young di Rod Stewart. Insomma, un piatto ricchissimo di canzoni eccellenti, a tratti grandiose. Il pubblico si diverte, anche se l’ultima parte del concerto risente un poco della stanchezza dei due giorni di festival e numerosi diventano gli spazi vuoti nel locale.
Nel complesso, la Steve Augeri Band è una una ottima cover band, a tratti un po’ triste, a tratti decisamente eccitante. Può bastare per chiudere questa nuova, bella edizione del Frontiers Rock Festival.
 

SETLIST

Separate Ways (Worlds Apart)
Stone in Love
Jamie
Lights
Faith in the Heartland
Higher Place
Wheel in the Sky
Faithfully
Don’t Stop Believin’
Lovin’, Touchin’, Squeezin’
Anyway you Want it
Wild on the Run
Who’s Crying Now
Sister of Mercy
Forever Young
Be Good to Yourself / Whole Lotta Love / Won’t Get Fooled Again

IMG 6176

 

IMG 6172

 

——————————

Concludendo…

[Stefano “Steven Rich” Ricetti]

In Italia, da qualche lustro a questa parte, siamo abituati a vedere certune kermesse come un raduno di nostalgici. Nella fattispecie il pubblico che ha calcato il pavimento del Live Club di Trezzo Sull’Adda domenica 28 aprile 2019 non è certo sfuggito a quest’adagio. Nel Bel Paese SOLO certuni fenomeni riescono ad attrarre (vere) migliaia di persone: Ac/Dc, Metallica, Guns N’ Roses e Iron Maiden. Questi ultimi quattro disputano un campionato a parte, ove l’appassionato e il cultore rappresenta l’infinitesima particella di una moltitudine di occasionali, dai gusti trasversali. Lungi da me dipingere categorie di merito: ognuno con i propri soldi è liberissimo di fare quello che vuole! Il problema, se così lo si vuole chiamare, risiede nel fatto che in altri raduni, più mirati, l’audience è costituita prevalentemente da quell’infinitesima particella di cui sopra, che porta ai numeri consueti che tutti ben conosciamo, fra i frequentatori di musica dura alive. Cose dette e ridette e probabilmente non cambierà mai nulla, alle nostre latitudini, ma tant’è. E’ oltremodo sintomatico realizzare che al FRF, così come in appuntamenti similari, la componente giovanile sia numericamente irrilevante. Per la maggior parte trattasi di figli di tizio e caio. La “macchinata” di imberbi rocker brufolosi che va al festival per i Leverage, ad esempio, non esiste più da eoni… Manca il ricambio generazionale: l’heavy metal e l’hard rock hanno lasciato campo libero, nella mente dei ggggiovani, ad altre forme di espressione musicale. Amen. Quello che viceversa fa sempre piacere è, invece, imbattersi negli abituali frequentatori del Frontiers provenienti dalla Scandinavia e dal Sol Levante. Ma altresì incrociare facce che non si vedevano da secoli, con qualche chilo in più e qualche capello in meno ma con la stessa voglia – e l’abbigliamento – di decenni fa. Donne e uomini dal look inossidabile, segno che la fede nell’hard è incrollabile e lo zoccolo duro permane. In chiusura un applauso alla Frontiers che non molla di un millimetro e se ne frega dei trend imperanti.

Alla prossima edizione, quindi, come sempre duri, massici e incazzati (si fa per dire). HAIL.  

 

IMG 6155