Live Report – Frontiers Rock festival a Trezzo Sull’Adda (MI) – Prima Giornata

Di Alex Casiddu - 9 Maggio 2014 - 0:29
Live Report – Frontiers Rock festival a Trezzo Sull’Adda (MI) – Prima Giornata

FRONTIERS ROCK FESTIVAL – DAY I

01/05/2015 @Live Club, Trezzo sull’Adda (MI)
 

 

1° maggio 2014: una data che resterà nella storia! Si tratta, infatti, della giornata inaugurale della prima edizione del Frontiers Rock Festival, un evento realizzato dall’omonima etichetta discografica napoletana, ormai familiare per tutti coloro che, in giro per il mondo, fanno di AOR, hard e melodic rock la propria religione. Con l’ovvio intento di non perderci nemmeno una nota, arriviamo di buon’ora al Live Club di Trezzo Sull’Adda, ed è un piacere vedere una già nutrita coda di fronte ai cancelli, a testimonianza di una buona affluenza di pubblico. Anzi, a dirla tutta, l’atmosfera è quella delle grandi occasioni (per usare un termine sportivo) e lo si percepisce sentendo le chiacchiere di persone arrivate appositamente da tutta Europa (Spagna, Inghilterra, Germania, Francia, paesi scandinavi, Grecia) ma anche da Stati Uniti, Brasile e paesi orientali.

 

Proprio a causa della lunga (ma benaugurante) coda all’ingresso in attesa dell’apertura cancelli, siamo purtroppo costretti a perderci la prima metà dello show degli svedesi State Of Salazar, una delle band più giovani di casa Frontiers, con solo un EP del 2012 (“Lost My Way”) all’attivo e in piena fase di registrazione del debutto su disco di prossima uscita. Le poche canzoni che abbiamo avuto modo di sentire hanno tuttavia evidenziato una buonissima attitudine melodica, sulle orme dell’AOR di scuola americana (Toto in primis) e con menzione particolare per la bella e potente voce di Marcus Nygren, leader e vero asso nella manica della band scandinava. Se il buon giorno di vede dal mattino…
 

Fondati nel lontano 1985 e da sempre dotati di una eccelsa qualità musicale/compositiva, i Dalton non sono, purtroppo, mai riusciti ad arrivare alla notorietà raggiunta da altri loro colleghi; d’altronde, a ben guardare, tra il 1987 e il 1990 ritagliarsi un posto al sole nel nutrito panorama del rock melodico era affare tutt’altro che semplice, data la competizione oltremodo agguerrita. Recentemente riuniti, i cinque svedesi autori di due gemme quali “The Race Is On” e “Injection”, ci deliziano con la maestria che li ha sempre contraddistinti (e gli applausi e cori d’incitamento raccolti al Live ne sono una palese dimostrazione) giungendo, a distanza di diversi anni dagli esordi, a raccogliere quanto di buono seminato tempo addietro. La scaletta proposta dai Dalton in quel del Frontiers si sviluppa sull’alternanza tra cavalli di battaglia come le trascinanti “Caroline” e “Love Injection” e brani nuovi nuovi di pacca tra cui si  distingue la nuova “Hey You”, una delle tracce che andranno a far parte del nuovo album attualmente in lavorazione. Ottima ed energica la prestazione di tutta la band con menzione particolare per l’ex Treat Mats Dahlberg, batterista che sa ancora picchiare duro: vista la qualità dei pezzi e lo stato di forma della band c’è davvero di che ben sperare in attesa del nuovo disco.

 

Sono le 16 e 40 e, in corrispondenza dell’inizio dello show dei Three Lions, il parterre si riempie in maniera considerevole, complice la presenza del grande Vinny Burns, chitarrista britannico di lunghissimo corso, noto a tutti gli AOR-maniacs per i suoi trascorsi in gruppi come Dare e Ten. Fin dalle prime note la band appare subito in palla ma, probabilmente a dispetto delle attese, la vera star di giornata, non è lo schivo Vinny, defilato alla sinistra del palco, e molto concentrato sulla sua chitarra, quanto piuttosto l’esordiente (sembra impossibile vista l’età e il grande savoir faire sul palco, ma è proprio così, NdJ) bassista e cantante Nigel Bailey, in grado di rempire la scena grazie ad una voce calda, piena e melodica e ad un’attitudine live insospettabilmente sciolta. Rispetto allo show dei Dalton, ci troviamo in territori musicali più raffinati e meno hardrockeggianti; ciò nonostante l’accoglienza da parte dei numerosi presenti è davvero caldissima, al punto di arrivare a salutare con un vero e proprio boato la l’opener “Holy Water” e la notevole “Hold Me Down”, così come la successiva “Twisted Souls” e la più atmosferica e bluesy “Kathmandu”. Il prosieguo dello show viene poi affidato a “Don’Let Me Fall”, una semi ballad aperta da tastiere a mo’ di pianoforte sulle cui note si adagia la potente voce di Nigel in un crescendo graduale e decisamente efficace, alla più veloce “Hellfire Highway” e, dopo le presentazioni di rito, alla conclusiva “Trouble In A Red Dress”: addirittura classy e metallizzata nell’incedere, tra le migliori. Non c’è che dire, terza esibizione di giornata e terzo centro: i Tre Leoni avranno pure un solo album alle spalle e pure monicker un po’ altisonante ma si fanno davvero rispettare.

Setlist:
01. Holy Water
02. Hold Me Down
03. Twisted Soul
04. Kathmandu
05. Don’t Let Me Fall
07. Hellfire Highway
08. Trouble In A Red Dress

 

Mentre il pubblico si diletta tra chiacchiere e shopping; l’ennesimo – e rapidissimo – cambio palco, ci introduce gli Snakecharmer. Il combo inglese, come suggerisce il nome, vede tra le proprie fila due ex Whitesnake – nientemeno che Neil Murray e Micky Moody – insieme a Chris Ousey (cantante già sentito con gli Heartland e in un apprezzato disco da solista), al batterista Harry James (Thunder), al chitarrista Laurie Wisefield (Wishbone Ash) e al tastierista Adam Wakeman (Ozzy Osbourne). In una giornata dominata finora da sonorità decisamente easy listening, la proposta degli anglosassoni (un hard rock classico a tinte blues che si rifà molto, manco a dirlo, a Whitesnake e Deep Purple) consente al pubblico di variare un po’ il menu con una proposta leggermente diversa da quelle ascoltate finora. Il primo ed omonimo album, pubblicato lo scorso anno, viene esplorato per quasi tutta la durata del set con buonissimi risultati; tuttavia, nonostante la tecnica e l’esecuzione siano ineccepibili, la molla scatta quando giunge l’ora dei brani targati Whitesnake. “Slow And Easy”, “Here I Go Again” e “Fool For Your Loving”, alcuni dei fiori all’occhiello del “vecchio” repertorio del Serpente Bianco, trovano infatti nuova linfa nella portentosa intepretazione di Chris Ousey: la sua voce, acuta eppure corposa, carezzevole quanto all’occorenza ferina, viaggia senza problemi sulle tonalità del Coverdale dei tempi d’oro, guadagnandosi i meritati applausi al termine di un altra prestazione di alto livello all’interno di questo festival.

Setlist:
01. Guilty as Charged
02. A Little Rock & Roll
03. Accident Prone
04. Falling Leaves
05. Moody’s Blues
06. Slow an’ Easy (Whitesnake cover)
07. My Angel
08. Here I Go Again (Whitesnake cover)

Encore:
09. Full For Your Loving (Whitesnake cover)

 

Le band viste finora hanno onorato alla grandissima l’evento ma l’entrata in scena dei W.E.T., per usare una metafora calcistica, sa di “finale anticipata”, tale e tanta la classe (e l’esperienza) messe in campo da esponenti dell’hard/AOR/melodic rock di spicco quali Jeff Scott Soto, Erik MartenssonRobert Säll. La loro presenza al Frontiers Rock Festival, data la natura di “supergruppo” di questo progetto, è già di per sè una chicca di quelle che valgono il prezzo del biglietto, al pari della possibilità di ammirare in Italia band decisamente più popolari (almeno per ora) ad altre latitudini. Lo show dei W.E.T. si apre alle 19 sulle note di “Walk Away” e, nonostante l’esecuzione sia assolutamente convincente, è un peccato dover rimarcare come i suoni siano tutt’altro che perfetti (un unicum, per quanto riguarda la prima giornata, NdJ) e i volumi siano decisamente troppo alti, al punto da oscurare parzialmente la voce di Jeff Scott Soto. I suoni vanno via via aggiustandosi in quanto a resa complessiva ma il volume rimane troppo elevato. “Learn To Live Again” si fa largamente in virtù delle qualità melodiche e dell’ottima esecuzione a due voci, con Martensson a duettare senza patemi di sorta con il grande cantante americano; seguono l’apprezzatissima “Invincible” e la semi ballata “Love Heals”, davvero molto bella e ben riuscita. La scaletta va ad attingere in egual misura da entrambi i lavori targati W.E.T. (l’esordio omonimo e il più recente “Rise Up“) evidenziandone l’uniformità qualitativa, sicché le nuove “Rise Up”, “Bad Boy”, “Still Unbroken” e “Broken Wings” vanno a scontrarsi con le più “anziane” “If I Fall”, “Brothers In Arms” e “Comes Down Like Rain” (uno degli apici emozionali di tutta la giornata, grazie all’immancabile dedica allo scomparso Marcel Jacob e allo spettacolare assolo di chitarra ad opera di Robert Säll)  in un’ epica battaglia a colpi di riff letali, azzeccati cori e ariose melodie. Una battaglia da cui escono certamente vincitori i numerosi appassionati presenti tra il pubblico, assolutamente avvinti e soddisfatti da un esibizione di livello molto elevato, neppur troppo penalizzata dai accennati problemi “tecnici” di cui sopra. C’è, tuttavia, tempo per un’altra canzone, e non poteva che trattarsi della splendida “One Love”: uno dei brani simbolo dell’album targato 2009, cantata a squarciagola da tutto il Live Club.

Setlist:
01. Walk Away
02. Learn to Live Again
03. Invincible
04. Love Heals
05. Rise Up
06. Bad Boy
07. Still Unbroken
08. Broken Wings
09. If I Fall
10. Comes Down Like Rain
11. Brothers in Arms

Encore:
12. One Love
 

Eguagliare, o fare addirittura meglio dei W.E.T. sarà impresa ardua; ma sullo stage del Live Club sta per salire un fenomeno che risponde al nome di Johnny Gioeli: classe 1965 e fondatore, con il fratello Joseph, degli Hardline. Il cantante italo-americano si presenta in Italia con quattro quinti della formazione che ha registrato l’ultimo album in studio dal titolo “Danger Zone”: l’onnipresente Alessandro Del Vecchio alle tastiere, Anna Portalupi al basso, Josh Ramos alla chitarra (ormai entrato in pianta stabile in line up in luogo di Thorsten Koehne) e, infine, Francesco Jovino alla batteria. Grazie alla posizione di tutto rispetto riservata loro dall’organizzazione (e al conseguente ampio minutaggio) gli Hardline hanno la possibilità di spaziare dal più recente “Danger Zone”, fino all’ esordio “Double Eclipse”; lasciando anche spazio per brevi assoli di tastiera, batteria e chitarra. I ritornelli e le melodie di facile presa non faticano a trascinare i fan in battimani ritmati e cori: d’altronde non potrebbe essere diversamente al cospetto di pezzi come “Fever Dreams”, “Life’s Is A Bitch”, “Everything” o, ancora, la grande hit “Hot Cherie”, che scatena definitivamente il delirio tra i presenti, nessuno escluso! Gioeli si dimostra – all’anticamera dei cinquant’anni – ancora un animale da palco, correndo da una parte all’altra dello stage, oltre che un cantante assolutamente straordinario, tuttora in possesso di un timbro cristallino e in grado di sfoderare acuti talmente perfetti da sembrare registrati. Lunga vita a lui e agli Hardline

Setlist:

01. Danger Zone
02. Takin’ Me Down
03. Everything
04. Fever Dreams
05. Dr. Love
06. In This Moment
07. Keyboard Solo
08.Voices
09. Drum Solo
10. Life’s a Bitch
11. In the Hands of Time
12. Guitar Solo
13. Hot Cherie
14. Rhythm from a Red Car

 

Non mi nascondo: i Tesla sono una delle mie band hard ‘n’ preferite di sempre e, dopo essermeli persi al Gods Of Metal 2009, sarebbe stato davvero imperdonabile da parte mia perderli anche in quest’occasione, data la rarità delle loro calate nel Belpaese e la (meritatissima) posizione da headliner di questa prima giornata. Certo, dopo la strabordante esibizione degli Hardline, guidati con mano ferma e voce sicura da un Johnny Gioeli in stato di grazia, qualche remora legata all’inevitabile confronto tra l’ugola carica e devastante dell’italo-americano e quella più sottile e abrasiva di Jeff Keith era inevitabile, ma pur nel divario di timbrica ed estensione (in favore di Gioeli), va detto che il cinquantacinquenne Keith si è difeso alla grande. La partenza, in controtendenza, è affidata ad “I Wanna Live”, unico estratto dal (per ora) ultimo nato di casa Tesla: “Forever More“, e l’accoglienza riservata ai californiani da parte del pubblico è di quelle tipiche delle grandi occasioni, salutata con grandi sorrisi da Jeff, Frank e dal resto della band. Il vero delirio si scatena, ad ogni modo, sulle note della doppietta composta dalla mitica “Hang Tough” e da “Heaven’s Trail”, due dei migliori estratti di quell’immortale capolavoro a mezza via tra hard rock, blues e class metal che risponde al nome di “The Great Radio Controversy“: il coinvolgimento da parte degli astanti è totale ed è davvero bello vedere centinaia di appassionati cantare a squarciagola queste due storiche hit. C’è spazio, ad ogni modo, per almeno un’estratto da ognuno dei sette album targati Tesla ed ecco, dunque, farsi strada le inattese “Mama’s Fool” (dal sottovalutato “Bust A Nut“), con il suo flavour a metà tra blues e western tipicamente nordamericano, e la più noisy “Into The Now”, immensa title track dell’album omonimo del 2004, certamente più “alternativa” rispetto al tipico trademark dei Tesla, ma di nuovo suonata e cantata con un tiro assolutamente micidiale. Con il nuovo disco in arrivo in estate, la band di Sacramento non si lascia sfuggire l’occasione di proporre un paio di estratti in anteprima, nella fattispecie la più brillante “MP3” e l’elaborata “Ricochet”, due brani certamente non immediati ma che lasciano tutto sommato ben sperare in attesa dell’uscita di “Simplicity”. Con “What You Give”, primo e unico estratto dal pluri-decorato “Psychotic Supper“, si apre la parentesi acustica del concerto ed è davvero uno spettacolo vedere i cinque americani alle prese con alcune delle migliori ballad/semi ballad/cowboy song di fine anni ’80. Il feeling è a livelli da capogiro e il vero apice non poteva che coincidere con la sempre splendida “Love Song”, appuntamento immancabile di ogni concerto di Keith, Hannon e compagnia. Non da meno, tuttavia, appaiono la piacevole “Signs”, unica cover della serata, e l’immortale “Modern Day Cowboy”, primo (ma non ultimo) estratto dal finora trascurato “Mechanical Resonance“, presente in scaletta anche con la successiva “Little Suzie” e con l’acclamatissima “Cumin’ Atcha Live”, cui viene riservato il posto d’onore nell’encore, dopo una lunga intro affidata alle chitarre di Frank Hannon e Dave Rude, qui impegnati in uno dei rari duelli alla sei corde. Concerto d’eccezione per una band d’eccezione, ancora (colpevolissimamente) troppo poco conosciuta dalle nostre parti e assolutamente meritevole di una riscoperta, anche in vista della pubblicazione del nuovo lavoro da studio e del successivo tour mondiale che, mai dire mai, potrebbe anche riportarli in Italia. E nel caso, sapete già che fare….
 

Setlist:
01. I Wanna Live (Forever More, 2008)
02. Hang Tough (The Great Radio Controversy, 1989)
03. Heaven’s Trail (No Way Out) (The Great Radio Controversy, 1989)
04. Mama’s Fool (Bust A Nut, 1994)
05. Into The Now (Into The Now, 2004)
06. MP3 (Simplicity, 2014)
07. Ricochet (Simplicity, 2014)
08. What You Give (Psychotic Supper, 1991)
09. Love Song (The Great Radio Controversy, 1989)
10. Signs (Five Man Acoustical Jam, 1990 – Five Man Electrical Jam cover)
11. Modern Day Cowboy (Mechanical Resonance, 1986)
12. Little Suzie (Mechanical Resonance, 1986)

Encore:
13. Cumin’ Atcha Live (Mechanical Resonance, 1986)

Al tirar delle somme, la prima giornata del Frontiers Rock Festival si è dimostrata assolutamente all’altezza delle attese e altrettanto prodiga di emozioni. Tante conferme da parte dei gruppi più conosciuti (Tesla e W.E.T.) come da parte di act storici eppur meno noti al grande pubblico quali Dalton e Hardline, cui si aggiungono pure le piacevolissime sensazioni suscitate da parte degli “outsider” (le virgolette sono d’obbligo, visti i nomi che si celano dietro agli esordienti Three Lions e Snakecharmer) e dell’impeccabile organizzazione. Chiedere di più sarebbe stato davvero ingeneroso.

Live Report a cura di Alex Casiddu (Dalton, Snakecharmer e Hardline) e Stefano Burini (State Of Salazar, Three Lions, W.E.T. e Tesla), fotografie per gentile concessione di Mirko Barbato.