Live Report: Gods Of Metal 09 a Monza (Day 1)

Di Angelo D'Acunto - 5 Luglio 2009 - 13:15
Live Report: Gods Of Metal 09 a Monza (Day 1)

DAY 1 – 27/06/2009

CRUEFEST STAGE
Mötley Crüe
Tesla
Lita Ford
Marty Friedman
Backyard Babies
Lauren Harris
The Rocker

L-STAGE
Heaven & Hell
Queensrÿche
Edguy
Epica
Voivod
Extrema

Eccoci, anche per il 2009, a tirare le somme del festival metal più importante d’Italia: il Gods of Metal. Si parte con sabato 27 giugno, la più classica delle due giornate di concerti, la cui scaletta è dominata da due graditi ritorni: quelli di Heaven & Hell e Mötley Crüe, entrambi già headliner nell’edizione del 2007 all’Idroscalo di Milano. Tra le fila degli artisti che calcheranno il palco c’è anche Marty Friedman in veste solista (per lui uno show completamente strumentale), i tanto discussi Queensrÿche e i Tesla. Molta la carne al fuoco, in una giornata piena di spunti e di interesse. Infine, ci sono anche delle previsioni del tempo non troppo incoraggianti, ma per fortuna un po’ d’acqua nel tardo pomeriggio non comprometterà nulla…
A voi il resoconto degli inviati sul campo (del Brianteo) di TrueMetal. Buona lettura.

Alessandro ‘Zac’ Zaccarini

THE ROCKER
(Report a cura di Alessandro ‘Zac’ Zaccarini)
(Foto a cura di Alessandro ‘Zac’ Zaccarini)


La prima ventata di sano vecchio rock n’roll della giornata arriva proprio in sede di apertura. Persi i primi minuti causa tradizionale coincidenza tra l’inizio del primo gruppo e l’apertura dei cancelli (tanto che solo i centometristi più allenati sono riusciti ad arrivare in tempo quasi utile) rimangono una decina di minuti per godersi gli italianissimi The Rocker. Nome decisamente non originale, come del resto non lo sono nemmeno le liriche dei brani, ma tralasciando questi due piccoli particolari lo show è assolutamente godibile. Energia e vitalità da vendere che viene recepita alla grande dai presenti, nonostante un’orario che vede molti degli occhi e delle facce ancora in preda ai postumi della serata prima o alla stanchezza di un lungo viaggio.

 

EXTREMA
(Report a cura di Nicola Furlan)
(Foto a cura di Nicola Furlan)


Seconda band a salire sul palco di questa tredicesima edizione del Gods of Metal, gli Extrema hanno infuocato gli animi dei presenti (già in discreto numero considerato l’orario ‘mattutino’ indicato sul ruolino di marcia) con una scaletta contenuta, ma di grandissimo impatto. Se qualcuno si aspettava una setlist ibrida, ovvero variegata di pezzi tratti un po’ da tutti i full-length dell’ormai più che ventennale attività discografica, si sbagliava di grosso. Massara e compagni hanno incentrato la scaletta su brani diretti che dimostrano quanto i milanesi siano affiatati e si stiano divertendo un sacco a suonare thrash, genere che proprio da un po’ di tempo ha ripreso considerazione tra le necessità primarie di chi lo ha sempre amato. L’apertura dello show è affidata a quattro pezzi estratti dall’ultima fatica targata 2009, “Pound For Pound”. Thrash si diceva e thrash è stato: Money Talks e This Toy, estratti entrambi da “The Positive Pressure (Of Injustice)”, hanno trascinato i fan fino alla chiusura, quella “WannaBe” contenuta in “Better Mad Than Dead” che suggella un concerto da dieci e lode. I suoni inaspettatamente perfetti e la grande abilità di giostrare on-stage hanno fatto si che il tempo sia volato via velocemente tra headbanging, acclamazioni e applausi. Devastante la prestazione dietro alle pelli di Paolo Crimi, in grado di confermarsi uno dei migliori batteristi di musica estrema che il suolo italiano sia in grado di proporre al momento. Ottima anche la prestazione di Massara autore di una prova magistrale. Bene anche la voce di GL e altrettanto ineccepibile la sezione ritmica alle quattro corde di Mattia Bigi. Unico aspetto negativo del tutto la posizione bassa nel running order di giornata. Avere band di questo calibro (Voivod e Cynic ne sono altri due esempi) relegate fra i primi posti non solo ne limita la potenzialità, ma confina la qualità in un orario in cui non tutti ancora sono presenti e la manifestazione ne risente.

 

LAUREN HARRIS
(Report a cura di Alessandro ‘Zac’ Zaccarini)
(Foto a cura di Nicola Furlan)


Un cognome importante, un pantalone a vita bassa e un top ben riempito in musica possono fare tanto, anche portarti al Gods of Metal quando in realtà suoni un rock ben poco hard. Ecco sul palco Lauren Harris, classe 1984 (non male come annata musicale) figlia d’arte di papà Steve, bassista degli Iron Maiden e istituzione potente e rispettata del mondo della musica. Non è troppo giovane per i riflettori (è coetanea della signorina Scarlett Johansson, tanto per dirne una) ma diciamocelo nemmeno troppo brava. Potevano essere 25 minuti diversi, rilassanti spesi in compagnia di una bella presenza tra gli avventi meno graziosi di Denis “Snake” Bélanger e Gianluca Perotti. Invece lo show non decolla, anzi, piuttosto annoia.
Quello che fa lo definiscono power pop, mah… Per quanto mi riguarda, e scusate se potrà sembrare un luogo comune, a me sembra tanto una ragazza carina con la passione per la musica ma senza il talento per farla, quantomeno a questi livelli. Si è già girata i maggiori palchi del mondo, a giudizio di chi scrive, togliendo spazio a chi quei palchi se li sta sudando da anni con il duro lavoro, non con il passaporto. Consigliata un po’ di gavetta, quella vera.

 

VOIVOD
(Report a cura di Nicola Furlan)
(Foto a cura di Nicola Furlan)


Sul palco con la classica formazione che ha fatto la storia, supportati alle sei corde da Daniel Mongrain (Martyr, Quo Vadis, Gorguts), i canadesi hanno sfoderato una prestazione notevole. Lo hanno fatto passando in rassegna parte di quel ricco repertorio di brani che negli anni ha costituito un punto di riferimento per ogni thrash band intenzionata a sconfinare dall’intransigente territorio chiamato bay area. In apertura viene piazza l’autocelebrativa Voivod, pezzo direttamente estratto da “War and Pain”, full-length di debutto uscito nel 1984 che ai più fece rizzare le orecchie per l’inusuale proposta musicale racchiusa al suo interno: un po’ di rock, un po’ di punk e un po’ di graffiante thrash primordiale. Ma di certo non è mancata la cyber psichedelia di pezzi del calibro di Overreaction, Ravenous Medicine e Tornado, tutti estratti dal geniale “Killing Technology”. D’obbligo qualche assaggio dall’ultimo disco “Infini” (davvero ben riuscita l’esecuzione di Treasure Chase), mentre lascia un po’ d’amaro in bocca l’esclusione di un capolavoro come The X-Streem. Si arriva al gran finale, spumeggiante come pochi, con Nothingface, title track di uno dei più geniali album della storia della musica estrema moderna, e con Astronomy Domine, cover dei Pink Floyd eseguita con splendida interpretazione in grado di suggellare uno show incredibilmente arrivato già alla sua conclusione. L’arte non ha tempo. Fortunato chi c’era.

 

BACKYARD BABIES
(Report a cura di Alessandro ‘Zac’ Zaccarini)
(Foto a cura di Alessandro ‘Zac’ Zaccarini)


Tra le prestazioni positive di questo Gods of Metal 2009 figura sicuramente il nome degli svedesi Backyard Babies. I nostri regalano 35 minuti di rock n’roll senza compromessi, con vecchi e nuovi segmenti della loro discografia ormai giunta a un rispettabile corso. Da ‘Degenerated’ alla conclusiva ‘Dysfunctional Professional’ è un susseguirsi di attitudine e sfrontatezza, riff quadrati ma dinamici in un tripudio di quel glam punk marcio e senza scrupoli di cui i Backyard Babies sono ormai maestri. La band è in ottima forma e neanche a dirlo viene trainata dalle plettrate e dal carisma di Mr. Andreas Tyrone Svensson (ai più conosciuto come Dregen e già The Hellacopters e Supershit666, tra gli altri) che come da tradizione non manca di sfoggiare pesante matita intorno agli occhi e un passo stile Angus durante i riff più eletrizzanti. Tra i migliori della giornata.

 

EPICA
(Report a cura di Andrea Loi)
(Foto a cura di Nicola Furlan)


“The Divine Conspiracy” del 2007 è stato a mio parere uno degli album più validi di quell’annata e per nulla sofferente di una certa saturazione e ripetitività di cui il filone power/gothic oriented ha sofferto negli ultimi anni. Di conseguenza le aspettative riguardo la band olandese, col suo power metal impregnato di sinfonia e fortemente influenzato per l’appunto dal gothic erano davvero tante. Questo nonostante l’orario di pranzo e la calura invitassero a una pausa ristoratrice. La fiducia è stata ben ripagata con uno show davvero spumeggiante, mai noioso e con una grande partecipazione di pubblico che ha applaudito e omaggiato il gruppo in maniera convinta. Simone Simons, voce, e mezzo soprano ci mette l’anima come tutto il resto del gruppo; il risultato è davvero convincente e,oserei dire, privo di grosse sbavature. Sound monolitico e potente, aggraziato dalle tastiere, con l’ausilio di alcune basi pre-registrate che introducono la maggior parte dei brani non guastando affatto e dando ulteriore benificio alla causa dello spettacolo che proposto in un orario serale avrebbe ben altre suggestioni.
Applausi meritatissimi per una band con una dimensione live di buon impatto che in futuro potrebbe stupire.



MARTY FRIEDMAN
(Report a cura di Francesco Sorricaro)
(Foto a cura di Francesco Sorricaro)


Marty Friedman è più di un famoso chitarrista metal che ha militato in band leggendarie come i Cacophony o gli stessi Megadeth. Ritiratosi a vivere in Giappone oramai da molti anni, terra dove lo venerano come un maestro samurai e gli tributano continui onori portandolo a diventare anche una quasi star della TV, il buon Marty è ormai una vera e propria entità spirituale per chi, da questa parte del mondo, non è abituato a vederlo più così spesso come un tempo.
Il ruolo da “spirito dei natali passati” sembra calzargli a pennello fin da subito. L’entrata in scena è delle più trionfali: sale per ultimo su un palco dove campeggia ormai da mezz’ora l’immagine del suo faccione che mostra la duplicità della sua identità, divisa tra quella orientale e quella occidentale (l’immagine è quella di copertina del suo nuovo disco ‘Tokyo Jukebox’, n.d.r.), prende posizione con passo lungo sfoggiando la sua folta incredibile capigliatura che sembra ferma nel tempo agli anni 80 e risveglia con una plettrata da vero figone d’altri tempi la sua Ernie Ball rossa fiammante.
Sul palco a fargli da fedeli scudieri il solito inseparabile ipertatuato Jeremy Colson (già batterista di Steve Vai) che
non smette di stupire per la precisione ipertecnica con cui mena mazzate da fabbro ferraio sui poveri pezzi del suo strumento, e due simpatici figli del Sol Levante che ricordano un po’ nel look gli ancor più simpatici Tokyo Hotel (brrrrrrr!!!….), e che smettono di suscitare solo folklore quando dimostrano tutto il loro valore di ottimi musicisti. Uno in particolare, tal Takayoshi Ohmura, è chitarrista che non fa sfigurare il suo guru per averlo portato con sè in giro per il mondo, anzi gli tiene testa alla grande, sfoggiando senza alcun timore reverenziale la tecnica e la verve che servono a sfidarlo in duelli all’ultima nota.
Tirando le somme, la prestazione di Friedman e compagni è impeccabile, e nonostante il fatto di presentare una setlist totalmente ed ovviamente strumentale, riesce a strappare applausi convinti e continui ad un’audience incitata e caricata a mille per tutta la durata del concerto. L’esecuzione scorre così veloce e coinvolgente: e si va da brani più tirati come ‘It’s the unreal thing’, a malinconiche emozionanti ballate come la datata Angel, a divertenti brani in stile J-Rock come Kaeritakunattayo, tratta dall’ultimo lavoro dell axeman, composto completamente da cover di pezzi giapponesi rock e pop (!!!).
Sono però le note di Tornado of Souls che rimbombano nel Brianteo, forse, il dono più bello che il capellone del Maryland poteva farci, facendoci correre per un attimo quel brivido sulla schiena che si ha in presenza degli spiriti.
Marty Friedman oggi è stata l’ennesima dimostrazione che il solismo e la tecnica non sono solo da relegare nei piccoli locali, ma possono infiammare anche grandi platee come questa, parola di maestro samurai.

EDGUY
(Report a cura di Alessandro ‘Zac’ Zaccarini)
(Foto a cura di Nicola Furlan)


Gli Edguy sono una di quelle band di cui non compro dischi, diciamo uno di quei gruppi di cui mi accontento di ascoltare qualche brano su myspace o in qualche compilation. Mi fa sempre piacere, però, ritrovarli in giro per i festival, un po’ per la simpatia di Tobias Sammet un po’ perchè dal vivo i ragazzi ci sanno fare.
Anticipo subito che non sarà la migliore delle giornate per la formazione di Fulda e per il suo frontman, ma che comunque il divertimento non mancherà. Si parte con ‘Dead Or Rock’ e con un Sammet che sprizza voglia di cantare e saltare da tutti i pori. Come al solito. Poi, forse per il caldo veramente martellante, il frontman si calma e staziona sul palco riducendo sforzi e movimenti. Anche la voce sembra lasciarlo per un attimo ma poi, con un po’ di esperienza, Tobias riporta tutto sui binari congeniali agli Edguy. La scaletta è incentrata sul nuovo corso, quello catchy e rockeggiante, a discapito di Vain Glory Opera e gli Edguy power della prima era.
Siparietto prima di ‘Lavatory Love Machine’ (estratto di ‘Hellfire’) e via verso ‘Superheroes’ (da ‘Rocket Ride’). Non c’è dubbio, sono proprio gli ultimi lavori a fare la voce grossa in scaletta, e la stessa chiusura del concerto, affidata nuovamente a ‘Hellfire’ con ‘King Of Fools’, lo dimostra . Concerto non irresistibile ma positivo, spensierato e divertente, ben capace di spezzare il ritmo tra lo show strumentale di Marty Friedman e la successiva Lita Ford.

 

LITA FORD
(Report a cura di Stefano Ricetti)
(Foto a cura di Stefano Ricetti)


Ore 17.00 spaccate. Con puntualità teutonica Carmelita Rossanna Ford, in arte semplicemente Lita Ford, icona – senza la “f”, ndr – sexy platinata dell’Hard Rock anni Ottanta si presenta sulle assi del Cruefest Stage per sancire la propria seconda calata in terra italica. La prima, infatti, risale al novembre del 1988 quando aprì per Bon Jovi all’interno di una manciata di date nella Nostra amata penisola. Strana, a volte, la vita: la bionda statunitense di origine britannica si trova a suonare nella stessa giornata di due suoi famosi ex boy-friend, ovvero Tony Iommi dei Black Sabbath e Nikki Sixx dei Motley Crue. Cinquantun primavere hanno lasciato il segno sul visino arrapante di Lita, è innegabile, ma quanto a determinazione Miss Ford non sfigura di certo. L’emozione di una performance al Gods Of Metal – a proposito, un elogio a chi dell’organizzazione ha pensato di chiamarla, calamitando l’attenzione dei più attempati ma non solo… – pare non scalfirne il piglio minimamente. Il concerto si svolge su canoni abbastanza normali – quindi con la sana dose di stecche fisiologiche dopo tanta ruggine provocata dall’inattività – snocciolando pezzi del passato come Can’t Catch Me ma si impenna davvero dopo l’accoppiata-killer Don’t Close My Eyes Forever/Kiss Me Deadly laddove l’entusiasmo fra il pubblico raggiunge buoni livelli. Chiusura con un nuovo brano, Crazy, tratto dal prossimo album in studio, che vedrà la luce a ottobre 2009 dal titolo Wicked Wonderland, in duetto con Jim Gillette dei Nitro, suo attuale compagno di vita. Niente di che, invero, se paragonato ai classici dei tempi d’oro. Staremo comunque a vedere. In definitiva un ritorno gradito, quantomeno per le molte persone che hanno goduto nel rivederla suonare e sculettare verso l’audience a fine concerto, nonostante il “girovita” non sia più quello di Dangerous Curves. Certo, una dose maggiore di energia suppletiva a quella profusa non avrebbe guastato, visto il suono decente del PA, ma accontentiamoci così, è tornata fra di noi e il tempo passa per tutti inesorabile.

 

QUEENSRŸCHE
(Report a cura di Andrea Loi)
(Foto a cura di Nicola Furlan)


Ad un anno esatto di distanza dall’ultima visita nel Bel Paese, riecheggiano ancora nelle nostre orecchie le rappresentazioni dei due episodi con tanto di scenografia e attori del celeberrimo “Operation : Mindcrime”
Geoff Tate & Co. tornano a calcare il palco del Gods of Metal dopo una sfortunata quanto grottesca parentesi del 2003, ma la novità assoluta è rappresentata da una scaletta “inedita” dove sono previsti esclusivamente pezzi tratti da “Rage for Order”, “Empire” e dall’ultimo, fresco di pubblicazione, “American Soldier”.
La band appare sempre in ottima forma confermando le sensazioni avute solo dodici mesi prima in quel di Milano. A memoria bisognerebbe tornare indietro di oltre vent’anni per ricostruire una set-list che prevedesse così tanti brani concentrati dal “futuristico” “Rage for Order” targato 1986. Il pubblico sembra apprezzare parecchio la scelta “revival” della band con pezzi come “Neue Regel” , “The Whisper, passando per “Screaming in digital” e concludendo con l’anthemica “Walk in the Shadows” cantata a squarciagola dal pubblico presente. Finito? Nossignori. Prima del gran finale vengono estratti tre pezzi dal recentissimo “American Soldier” quali l’opener “Silver” e ” Middle of Hell” dove il pubblico sembra gradire l’interpretazione di un Tate sempre grande mattatore per tutto il tempo e frontman di grande e riconosciuta personalità. Anche l’innesto del chitarrista Parker Lundgren sembra abbia dato ottimi risultati: l’esecuzione dei vecchi pezzi palesa una ottima padronanza tecnica dello strumento e una certa sicurezza come si nota nei brani estratti da “Empire”: “Best i Can” , “The Thin line”, “Jet City Woman” e la monolita title-track si susseguono senza sosta mandando in visibilio il pubblico che partecipa attivamente con decisione ai solleciti di Geoff Tate.
Lo show termina, purtroppo, con una decina di minuti di anticipo, lasciando comunque la sensazione di esserci trovati di fronte a una band ancora vogliosa di stupire e di divertirsi.

 

TESLA
(Report a cura di Andrea Loi)
(Foto a cura di Andrea Loi)


Quando fu annunciata la presenza dei Tesla, band che non ha certo bisogno di presentazioni, i pochi dubbi che avevo sulla mia partecipazione al Gods di quest’anno, lasciarono posto alle certezze tanta era la curiosità di vedere all’opera l’effervescente band di Sacramento. Per 4/5 in formazione originale col solo innesto di Dave Rude che dal 2006 è titolare della seconda chitarra al posto di Tommy Skeoch, la band ha offerto una delle prestazioni più convincenti dell’intera manifestazione proponendo estratti dall’ultimo e ispirato “Forever More” per poi tuffarsi nell’innesto dei vecchi e mai dimenticati classici senza tempo che hanno fatto sognare milioni di fan in tutto il mondo.
Qualche problemino iniziale sul basso del compassato Brian Wheat ed ai suoi suoni, ma poi l’esibizione prende quota complice sopratutto l’istrionico Jeff Keith che nelle movenze, messa a punto e riadattata la lezione del grande Steven Tyler, diventa uno show nello show vista la sua verve e il modo di interagire col pubblico. Tra l’altro, la sua voce sembra essere incurante del passare del tempo. Si parte: “Forever more”, la title-track dell’ultimo Lp, sprigiona subito tutto il suo potenziale insieme a “I Wanna Live” a dimostrazione come la band al feeling abbia sempre dato del “tu”. Superati quindi i problemini ai suoni di cui si accennava prima, lo show decolla definitivamente. Ancora un breve accenno a pezzi recenti quali “Breakin’ Free” e “In To The Now” dall’omonimo album del 2004, ed è tempo di far rivivere la storia. “Modern Day Cowboys” ma anche la trascinante e divertente “Rock Me to the Top” senza dimenticare la commovente “Getting Better”. Le trascinanti “Heaven’s Trail” e “Hang Tough” tratte dal secondo full length “The Great Radio Controversy” completano l’opera e rappresentano il preludio all’apoteosi di “Love song”, accolta da un boato da tutto lo stadio non appena Frank Hannon accenna ai primi accordi.

 

HEAVEN & HELL
(Report a cura di Marcello Catozzi)
(Foto a cura di Massimo Pellegrin)

Prima della fine del concerto dei Tesla, mi insinuo il più vicino possibile allo stage sul quale, di lì a poco, si esibiranno coloro che, per molti di noi, rappresentano il momento clou dell’intera manifestazione. Mi piazzo in posizione favorevole, sperando di non venire travolto dall’orda che tra pochi minuti si muoverà verso il nostro palco.
Finalmente, all’approssimarsi del crepuscolo, sullo sfondo di un cielo grigio e minaccioso, si odono le note della tenebrosa E5150, mentre il buio scende sull’inquietante scenografia, con le due diaboliche creature che vigilano da ciascun lato del palcoscenico. Ecco apparire, per prima, la silhouette di Vinnie, fra i tamburi e i piatti del mastodontico drum kit. Ecco Geezer che prende posto sulla sinistra, come al solito. Ecco Tony, al quale il fedele tecnico porge la chitarra per consentirgli di sparare il primo, devastante riff di Mob Rules, mentre “the King of Rock and Roll” irrompe sulla scena con tutto il suo carisma e la sua dinamicità. Siamo già dentro la storia: come per incanto si vedono mani alzate, corna levate al cielo… Intorno a me, occhi pieni di ammirazione e soddisfazione, finanche di stupore e sorpresa. L’esordio ha la potenza di una bomba che esplode e lo show non poteva davvero iniziare nel modo migliore.
La presentazione del prossimo brano prelude a un’altra dose di pelle d’oca, che puntualmente ci assale con l’arpeggio di Children Of The Sea, e così ci troviamo a sguazzare nuovamente nel piacere dell’ascolto, facendoci coinvolgere da quel crescendo impressionante segnato da una voce senza tempo, sorretta da un timing sinistro e pesantissimo. Questi sono i Black Sabbath, signore e signori, ancora qui a insegnare musica a tutto il mondo nonostante qualche ruga in più e qualche capello in meno!
L’inossidabile folletto introduce un altro capitolo di vigore travolgente, ovvero I, tratto da “Dehumanizer” (1992), nel quale si avverte tutta l’energia che sprigiona da questi incredibili marpioni. Testo e musica si fondono insieme in un episodio di vera magia, che prosegue con l’attesissima Bible Black (dall’ultimo album “The devil you know”): anche qui suggestivi e cupi arpeggi fanno da sottofondo a una voce vellutata e dolcissima, capace però di trasformarsi in grintosa e aggressiva quando il ritmo della canzone aumenta il passo, all’unisono con i battiti del nostro cuore di irriducibili metallari, legati fedelmente a questo genere immortale.
E’ ora il momento di Time Machine, contraddistinta da un’altra performance canora di prim’ordine e da una coesione impressionante: essere investiti da questa muraglia di suono è puro godimento per l’anima. Alla fine Ronnie anticipa, col suo classico stile, il Drum Solo di “Vinnie Appice”, ed ecco l’eccentrico drummer prodigarsi nelle sue inconfondibili rullate e nei suoi stacchi mozzafiato, che evidenziano tecnica e gusto, sfruttando appieno tutti i componenti del suo drum-kit, sino al momento della mazzata finale, che fa crollare la struttura verticale nelle braccia del fido André (il suo drum technician).
Si prosegue con la penetrante Fear, anch’essa tratta dall’ultimo lavoro in studio, eseguita con precisione assoluta e con un’altra prestazione vocale eccezionale.
Falling Off The Edge Of The World ci riporta a un passato indimenticabile e i brividi serpeggiano su e giù lungo la spina dorsale, sia per la straordinaria forza interpretativa di RJD sia per quegli arpeggi e quei riffoni capaci come nessun altro di penetrare in fondo al cuore.
La successiva Follow The Tears (altro episodio di epoca recente) si distingue per un’intro gustosissima di chitarra e batteria, in cui Vinnie può mettere ancora in mostra le sue doti sceniche oltre che tecniche. Compattezza e potenza sono gli ingredienti di questo pezzo tipicamente dark, pienamente in linea con la tradizione.
Con Die Young si realizza un’altra magica osmosi tra la band e il pubblico: se ne può percepire il feeling a ogni nota, a ogni acuto, e i brividi continuano a correre in modo inarrestabile fino alla brusca chiusura, scandita da un’ovazione fragorosa e gonfia di entusiasmo e gratitudine.
E’ il momento di Heaven And Hell, celebrazione della Storia e del Mito, con tutti i crismi che la solennità del momento impone: cori all’unisono, trionfo di corna, luce rossa che illumina il ghigno satanico di Ronnie con le fiamme dell’inferno tutt’intorno, fino all’abbraccio totale da parte di un’audience portata al top del piacere da queste leggende viventi della Musica. Il massimo dell’intensità.
Il gruppo si congeda da una folla ancora tanto affamata di musica. Ma dopo qualche minuto la band ritorna con un altro regalo, ovvero la commovente Country Girl inframmezzata dall’incalzante Neon Knights, con la faccia di cera di Tony compiaciuta e le dita di Geezer che viaggiano alla velocità della luce, mentre Ronnie sfoggia l’ultima prestazione che merita il massimo dei voti e pure la lode, visto che ci siamo.
Ora siamo proprio alla fine; dopo l’ultimo inchino, i quattro cavalieri dell’apocalisse si rifugiano nel backstage a prendersi il meritato riposo. La considerazione (che volutamente prescinde dagli aspetti tecnici, per motivi di ovvietà) con la quale mi sento di concludere la descrizione dell’evento, si rifà al commento di un giovane spettatore, che, avvolto da una giusta dose di pathos esclama: “si vede che questi suonano con l’anima e non lo fanno per i soldi”.
Sciogliamo le righe con un po’ di tristezza, perché il concerto è già finito. Follow the tears!…

 

MÖTLEY CRÜE
(Report a cura di Alessandro ‘Zac’ Zaccarini)
(Foto non concesse dalla band)


C’è grande attesa per il ritorno dei Motley Crue in Italia, per la terza volta nel giro di pochi anni a occupare la posizione da headliner al Gods of Metal. La platea si popola di pantaloni zebrati, foulard leopardati e acconciature anacronistiche in attesa che la storia del glam cavalchi nuovamente le assi di un palco italiano.
Telone nero calato sul palco. Mike Mars comincia a giocare con il ponte ed ecco ‘Kickstart My Heart’ aprire lo show italiano targato Gods of Metal 2009. Quello che è un classicissimo dei ragazzacci di Los Angeles diventa ben presto tra le cose più imbarazzanti che io abbia mai visto e sentito durante uno show di professionisti di questo calibro. La band sbaglia gli attacchi, finisce fuoritempo e Vince Neil canta si e no la metà delle linee vocali. Proprio non ce la fa: salta e balla ma l’opener è un vero disastro. Segue un alto cavallo di battaglia: Wild Side, gli strumentisti si rimettono in carreggiata ma ancora Neil
è in fortissime difficoltà. Le cose cominciano a migliorare con il passare del tempo e finalmente la band infila prestazioni degne del proprio nome con un’esaltante ‘Don’t Go Away Mad’ che arriva in compagnia dell’ottima ‘Girls Girls Girls’, introdotta come al solito dal classico siparietto con braccio destro all’aria. Neil ancora a mezzo servizio sulle peripezie vocali di ‘Shout at the Devil’ e dell’altrettanto ostica ‘Dr. Feelgood’, che oggi festeggia venti anni di onorato servizio. Decisamente meglio invece ‘Primal Scream’. Siamo nemmeno a un’ora di show e i Crue si sono già presi due pause. Arriva qualche estratto dal nuovo ‘Saints of Los Angeles’ (‘Motherfucker of the Year’) e arriva anche la splendida ‘Same ol’Situation’ a rimpinguare le vecchie glorie.
Ancora una pausa (piuttosto lunghina) e sul palco giunge il pianoforte griffato per Tommy Lee e l’immancabile ‘Home Sweet Home’, solitamente piazzata a metà scaletta ma oggi scelta come epilogo dello show. Vince Neil riarrangia le linee vocali – una scelta infelice quando vuoi che il pubblico canti con te – e infatti i presenti riescono a esplodere nel coro collettivo solo con i ritornelli. Ci si aspetterebbe un altro pezzo tirato a chiudere (‘Too fast for Love’ piuttosto che ‘Looks that kill’) ma niente, il concerto è già finito.
La band saluta e Tommy Lee si ritaglia due minutini da solista per il suo rap autocelebrativo che chiude un concerto di alti e bassi durato davvero troppo poco: a conti fatti nemmeno un’ora di musica. Per chi scrive meglio del 2005 (dove però il contorno aveva fatto la differenza) ma ben peggio della buona prova al bagnatissimo Gods of Metal dell’Idroscalo. Sarà che il tour era agli sgoccioli, sarà che la serata non era delle migliori, ma per un fan dei Motley Crue quale mi ritengo di essere, questo show è stata una mezza delusione.
L’applauso del sottoscritto va a Mick Mars, che continua a combattere la sua spondilite anchilosante con la musica, risultando ancora una volta, sul palco, il migliore dei quattro. Forza Mick!