Live Report: Gods Of Metal 2011 – In diretta da Milano
Baptized In Blood
Report a cura di Lucia Cal, foto a cura di Massimo Ecchili
“Good Morning Gods Of Metal”! Il monito dei Baptized In Blood è piuttosto chiaro: iniziamo a goderci questa giornata di afa e cemento in compagnia di sani interludi groove stirati sull’ampia panoramica musicale che oggi ci propone la giornata. Scaricano sulla folla pochi pezzi che trasudano rancore, incastonato nella frenesia furiosa che incanalano sulla platea di pochi ma buoni fedelissimi. A rendere la miscela convincente l’ottima definizione sonora, impeccabile nel far saltare corde, pelli e metaller in particolare su ‘Up Shirts Down Skirts’, forse una delle proposte più gradite. Un gruppo nato quasi per caso, la cui presenza scenica andrebbe ancora modellata e domata, frutti che ancora devono raggiungere la piena maturazione, ma che mostrano fin da ora un ottimo affiatamento. Del resto, la loro prima volta in Italia coincide con un’esibizione a supporto dei Judas Priest: insomma, mica da ridere.
Cavalera Conspiracy
Report a cura di Marcello Catozzi, foto a cura di Angelo D’Acunto
Sudore, brutalità e metallo sono le aspettative degli headbangers sotto al palco, in attesa che si scatenino i Cavalera Conspiracy; sono anche le aspettative del vecchio reporter scrivente, che si trova in mezzo alla propria “figliolanza” (anagraficamente parlando) nerovestita.
Si parte a manetta con WARLORD (dal nuovo album “Blunt Force Trauma”), per fare poi un salto nel passato con un tris di pura violenza: INFLIKTED (cantata a squarciagola dai giovani metallari), SANCTUARY e TERRORIZE (che infiammano un pogo circolare sotto gli occhi di un compiaciuto Max).
Dopo questo estratto dal precedente lavoro (l’esordio “Inflikted”, che vide la luce nel 2008), l’appesantito frontman, sempre bello carico di energia, presenta l’immancabile omaggio alle radici, ovvero REFUSE/RESIST (Sepultura), introdotto da un bis di bestemmie in buon italiano.
L’impatto sonoro è senz’alcun dubbio rispondente al marchio di fabbrica della Cavalera Family: ritmiche serrate, assoli a manetta (un po’ in ombra, in verità, dal punto di vista dell’alchimia acustica, la chitarra di Marc Rizzo rispetto a una base ritmica piuttosto “invadente”), il tipico cantato gutturale, l’incessante lavoro del basso; il tutto sorretto e trascinato dalla violenta doppia cassa di Igor (o Iggor? Mah).
Si prosegue con la variegata (rispetto alla produzione standard) KILLING INSIDE, molto ben eseguita e di grande effetto sonoro. Compattezza e groove, ottimi stacchi e un assolo finalmente incisivo caratterizzano questo pezzo di immediato impatto e di giusta “cattiveria” sonora.
A questo punto il Max introduce un ospite a sorpresa, ovvero il giovane erede Richie, che si lancia rabbioso e convinto nella violentissima BLACK ARK (anch’essa da “Inflikted”). Peccato che, per metà canzone, il povero Richie si sgoli in un microfono muto!
Si conclude con l’apoteosi di ROOTS BLOODY ROOTS, di Sepulturiana memoria, culminante in un furioso e genuino pogo messo in pista dai fans più irriducibili.
Max e Igor possono ora, finalmente, raccogliere l’ovazione del pubblico in delirio, a suggello di un’esibizione che ha messo in mostra la consueta adrenalinica, massiccia potenza.
Duff McKagan’s Loaded
Report a cura di Andrea Rodella, foto a cura di Massimo Ecchili
E’ il turno di una rockstar che ha fatto, a cavallo degli anni ’80 ed i primi ’90 la Storia dello street metal: Duff McKagan. Lo storico bassista dei Guns N’ Roses che furono si presenta sul palco del Gods Of Metal in veste di cantante/chitarrista di quella che da qualche anno a questa parte è la sua band, i Loaded. La risposta del pubblico, va detto, non è delle migliori e sin da subito si capisce che è proprio l’altissimo frontman ad attirare l’audience. Qualche problema tecnico ed una platea abbastanza fredda, però, non fanno perdere d’animo il quartetto che ce la mette veramente tutta per dare in pasto uno show degno di tale nome. Highlight della produzione dei Loaded vengono riproposti, ma il botto si ha quando vengono eseguite, una di fila all’altra, So Fine ed Attitude, due brani degli storici Guns N’ Roses cantati a squarcia gola dalle prime file. Certo, spiace vedere che il pubblico si scalda soltanto in occasione di quelle che potremmo definire tranquillamente cover, ma tant’è ed alla fine la sensazione è quella di uno show godibile, ma che ha risentito un po’ di tali premesse.
Epica
Report a cura di Marcello Catozzi, foto a cura di Massimo Ecchili
Ouverture inconfondibile per il sestetto olandese, che con SAMADHI danno il via alle danze. Il sound è ben miscelato, l’esecuzione impeccabile e mette in mostra un Mark Jansen in gran spolvero, così come l’algida Simone. La performance si snoda attraverso i più noti successi, dal cavallo di battaglia RESIGN TO SURRENDER alla rocciosa UNLEASHED, in cui la doppia cassa di Arien la fa da padrone. Da sottolineare anche la tostissima MARTYR OF THE FREE WORD, addolcita dall’ammaliante mezzo-soprano che agita la sua rossa chioma all’unisono con il tastierista.
La timbrica di stampo “death” di Mark fa da contrappunto alle melodie di Simone, in un indovinato mix di dolce-amaro che contraddistingue il sound di questi alfieri del symphonic-death-metal (tanto per voler allinearsi a coloro che sono soliti attribuire a tutti i costi l’etichetta di un genere specifico a una band).
In CRY OF THE MOON l’eterea Simone trascina in un coro tutta la platea entusiasta. Si passa poi all’indimenticabile QUIETUS, in cui le tastiere costituiscono la traccia dominante attraverso la quale si snoda questo piacevole, orecchiabile episodio.
Si chiude con CONSIGN TO OBLIVION, sorretto da un gran lavoro di drumming, in un trionfo di stacchi e mitragliate di pedali arricchito da gustosi assoli chitarristici (un po’ in ombra, in verità, rispetto alle tastiere).
Con questa performance gli EPICA si sono confermati una solida realtà nel mondo del symphonic metal. Pompose atmosfere di gotica reminescenza, maestosità degli sfondi orchestrali (a voler essere maligni, forse un po’ esagerati per una line-up di sei elementi) e grande tecnica esecutiva, per la gioia di tutti gli appassionati del genere!
Cradle Of Filth
Report a cura di Andrea Rodella, foto a cura di Massimo Ecchili
I vampiri del Suffolk sono pronti a salire on stage per un assalto frontale arricchito da arrangiamenti imponenti e tipici del gothic. Il vederli suonare piuttosto presto e con la luce del sole smorza parecchio l’impatto di una proposta musicale “buia” per definizione, ma comunque i sei, capitanati dal microscopico Dani Filth hanno deciso di dare ai propri fan uno show con gli attributi. Partiti in quarta, si nota subito come il banco del mixer non sia dalla loro parte con dei suoni decisamente confusionari e non all’altezza della situazione. Ghost In The Fog rappresenta sicuramente l’apice di un concerto che ha soddisfatto i fan del sestetto inglese, ma che ha lasciato tutto sommato indifferente il resto del pubblico. In un bill sicuramente bilanciato verso sonorità meno estreme, i Cradle Of Filth rappresentano una mosca bianca che vale certamente la pena ascoltare, ma che renderebbe molto di più in un contesto differente. Questo non sembra però interessare ai Nostri, i quali escono di scena soddisfatti della risposta della “loro” audience lasciando il testimone ai Mr. Big.
Mr. Big
Report a cura di Angelo D’Acunto, foto a cura di Massimo Ecchili
Poco prima dell’inizio dello show di una delle band più attese del festival, e molto casualmente, la pioggia comincia scendere debolmente sulle teste dei presenti, quasi a voler cancellare ogni traccia residua del noioso (a parere di chi scrive) show dei Cradle Of Filth. Le cose in ogni caso cambiano, e nemmeno di poco: Mr. Big (o meglio, ogni singolo componente del gruppo) è in forma smagliante, soprattutto un Eric Martin che sembra essersi fermato ai venti anni di età, e lo spettacolo è più che garantito. Molti i pezzi tratti dall’ultimo (e splendido) What If… (come l’apertura affidata al singolone Undertow e la turbolenta American Beauty), ma tanti anche i classici, come l’immancabile Daddy,Brother Lover, Little Boy, Green-Tinted Sixties Mind, Take Cover, Colorado Bulldog e così via. Show pirotecnico, soprattutto per via dell’ormai ritrovata (e affiatata) coppia Gilbert/Sheehan, i quali, da parte loro, danno lezioni di stile (e tecnica) a tutti i presenti, compreso un Duff McKagan che assiste al concerto dal bordo del palco. Concerto anche divertente, sia per i presenti, sia soprattutto per i Mr. Big, che giocano tra di loro quasi con una certa spensieratezza, compiendo, altrettanto spensieratamente, incredibili acrobazie sonore con i propri strumenti. Uno show, in poche parole, che rimarrà impresso nella mente dei presenti per tanto tempo.
Tra i migliori act della giornata… anche se non c’era alcun dubbio a riguardo.
Europe
Report a cura di Massimo Ecchili, foto a cura di Angelo D’Acunto
Dev’essere tremendamente difficile salire sul palco dopo un’esibizione straordinaria come quella dei Mr. Big. L’ingrato compito tocca agli svedesi Europe che, naturalmente, non sono poi così impressionabili. Con il solito trascinatore Joey Tempest a coinvolgere un pubblico che, va detto, risponde alla grande e con un Norum che, seppure non impeccabile (l’assolo di Superstitious è stato uno schiaffo ai presenti… ) ha comunque portato a termine lo show dignitosamente, gli Europe hanno offerto una prestazione di tutto rispetto. La scaletta ha alternato brani del periodo post-reunion quali Last Look At Eden, No Stone Unturned e Start From The Dark, ad altri più datati, come per esempio Scream Of Anger, Seventh Sign e la rediviva More Than Meets The Eye. Non sono naturalmente mancati i classici della band, tra i quali i più acclamati sono risultati Carrie (in versione originale) e la sempre coinvolgente Rock The Night. Encore affidato all’inossidabile The Final Countdown, per una festa collettiva che ha coinvolto praticamente tutti i presenti. Certo, la voce di Tempest non va più su come ai bei tempi, ma il suo carisma non è calato neanche un po’.
Ed ora spazio al Serpente Bianco, atteso e amato da tutti.
Whitesnake
Report a cura di Fabio Vellata, foto a cura di Angelo D’Acunto
Ha i capelli biondi, veste di bianco, domina le folle. Ma non risiede nell’alto dei cieli.
Come in un flashback improvviso di fine anni ottanta, i sommi Whitesnake, guidati dall’inossidabile eccellenza di un frontman come David Coverdale, salgono sul palco dell’arena di Rho alle ore 19.33 accolti da una folla urlante, giusto un paio di minuti in anticipo rispetto al programma stabilito. Ed è subito delirio.
Un incipit da brividi, inaugurato da “Best Years”, seguita dal trio di super classici “Love Ain’t No Stranger” (sorpresa e grande regalo per il sottoscritto), “Give Me All Yor Love” e “Is This Love”, mette immediatamente in chiaro quanto abbia ancora da dare lo zio Dave ad un grande pubblico come quello di stasera.
Un po’ gracchiante per la verità, il tempo fa la sua parte ed un minimo ha lasciato strascichi su corde vocali provate da mille battaglie in ogni angolo del globo. Ma la presenza scenica, lo stile, il modo di muoversi da consumato rocker dalla classe infinita, sortiscono pochi dubbi sul fatto che il il Re Leone sia ancora – speriamo a lungo – un attempato signore sulla sessantina dal carisma ancora intatto come ai bei tempi.
Concentrato in poco meno di un’ora e mezza ed un po’ penalizzato dall’eccessiva durata degli assolo di chitarra e batteria (scelta discutibile in un’esibizione non da headliner) lo show del serpente bianco ha in ogni modo soddisfatto per la gran parte della sua durata, ottenendo picchi di massimo gradimento – come ovvio – in occasione dei grandi pezzi storici del gruppo.
Ancora una volta, ancora come un tempo, straordinari!
Ed ora sotto con l’ultima botta definitiva di una giornata magnifica. Tempo di Judas Priest…