Live Report: Graspop Metal Meeting a Dessel (BE)
(report a cura di Luigi Murciano e Flavio Pian)
“Ne valeva la pena” e “L’Italia quando imparerà?”. Sono state queste le inevitabili esclamazioni uscite dalla nostra bocca al termine della estenuante giornata di venerdì 26 giugno. Una giornata al Graspop Metal Meeting 2009, il festival belga che ormai ha lanciato la sfida ai main metal events di tutta Europa. Basta scorrere la scaletta del primo giorno, l’unico a cui (ahiloro) hanno assistito i vostri umili scrivani, per giustificare la pazzia di prendere un aereo, fare una capatina e purtroppo tornare immediatamente alla dura realtà. Una giornata da pendolari del metallo, enormemente gratificata dalla presenza sui palchi del Graspop di una ventina di band di calibro mondiale.
Tutto ciò si è svolto a Dessel, un paese di circa novemila anime situato a pochi chilometri dall’Olanda, nella provincia di Anversa e nel cuore delle Fiandre. La tredicesima edizione ha decisamente proiettato il GMM nell’olimpo dei festival europei, non avendo ormai più nulla da invidiare ai più blasonati Wacken o Sweden Rock, con circa 65 band – tutte di rilievo – impegnate nella tre giorni, ma con l’impressione che (forse per le dimensioni della location, forse per sua filosofia) sia ancora più vivibile dei suoi nobili “cugini” festival europei. La prima giornata, quella a noi più affine, come si evince dal bill era dedicata maggiormente a band classiche, mentre le altre due – pur rimanendo estremamente variegate – erano improntate maggiormente su altre sonorità, talvolta “nu” come dimostrano la presenza da headliner nei due giorni successivi di Marylin Manson e Slipknot, anche se non sono mancate icone rock come Journey e Chickenfoot.
L’organizzazione della kermesse è stata letteralmente perfetta. Separazione delle zone parcheggio (rigorosamente sorvegliate) tra visitatori giornalieri e coloro che si godranno l’intero week-end; ampia zona campeggio (purtroppo priva di zone d’ombra) subito all’entrata del festival e percorsi differenziati per il ritiro dei braccialetti d’entrata. Morale della favola: dopo una tranquilla passeggiata nella boscaglia con altri brother siamo entrati senza la minima coda! La zona concerti, sita in un’enorme spianata, è ciò che ogni metallaro potrebbe desiderare: decine e decine di punti di ristoro con ogni tipo di gioia per il palato (abbiamo visto fra gli altri stand di cibo italiano, cinese, messicano, greco, argentino, e persino vietnamita accanto alle immancabili patate fritte inondate di maionese, che i belgi rivendicano come una propria invenzione) e bevande con prezzi abbastanza decenti (una birra da 0,2 costava poco più di 2 euro). Niente – e sottolineiamo niente – file per prendersi da mangiare o da bere, nonostante un picco di presenze di almeno cinquantamila persone. Servizi igienici ben organizzati, con un sacco di docce, bagni e vespasiani accessibili a tutti in strutture prefabbricate tenute per quanto possibile pulite e soprattutto, anche in questo caso, file ridotte al minimo. Di notevoli dimensioni anche il metal market, in una zona separata e tranquilla del festival. Un’autentico supermercato del metallo con sterminata scelta di dischi ma anche di abbigliamento e gadget per la vita on the road che piace a tutti noi. Poco lontano, un vasto internet point. Non manca davvero nulla.
I gruppi si sono alternati su ben 4 stage (Main Stage, Marquee1, Marquee 2 e Metal dome) con sempre due band in contemporanea. Questo non ci ha permesso di seguire tutti i gruppi, anche perché la precisione in questo meeting è di casa; altro che puntualità svizzera, deve essere belga per forza! Tutti i concerti hanno rispettato rigorosamente le tabelle di marcia e il tempo che intercorreva tra la fine di un’ esibizione e l’inizio di un’altra era lo stretto necessario per spostarsi presso i vari palchi, non un minuto di meno, non un minuto di più. Il tempo di ordinare una birra al volo e ripartire, spesso con l’intro del gruppo successivo già in rampa di lancio. Un pomeriggio senza respiro. Fra i vari palchi il solo il Main Stage, enorme, era scoperto, mentre gli altri tre si trovavano sotto due grossi tendoni rettangolari (del tipo di quelli utilizzati al circo). Il Marquee 1 ne occupava uno interamente, mentre il Marquee 2 e il Metal Dome ne occupavano l’altro rispettivamente per 2/3 il primo ed 1/3 il secondo. Nonostante la canicola estiva, anche sotto i tendoni si riusciva tutto sommato a respirare: sempre meglio, verrebbe da dire, che un Gods Of Metal di tanti anni fa al palasport, in cui alle 10 del mattino già si tagliava col coltello la cappa di umidità e sudore, ma tant’è.
Al nostro arrivo nella zona concerti ci imbattiamo nella seconda parte dell’esibizione dei Dragonforce a cui però non prestiamo molta attenzione non essendo mai stati dei convinti estimatori di Erman Li e soci, che comunque come prevedibile sono stati accolti alla grande, da almeno ventimila persone, nonostante siano appena le quattro e mezzo del pomeriggio. Ci rammarichiamo invece del fatto di non aver potuto assistere all’esibizione dei greci Firewind, causa leggero ritardo dell’aereo e intenso traffico stradale. Chiusa la divagazione, incominciamo il tour de force di ben nove ore che ci attende, nel corso del quale per le varie concomitanze dovremo fare delle scelte e sacrificare del tutto, fra gli altri, l’ascolto di Down e Soulfly.
Venerdì 6 giugno 2009
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Dream Theater
Heaven & Hell
Blind Guardian
The Gathering
W.A.S.P.
Samael
Jon Oliva’s Pain
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JON OLIVA’S PAIN
(a cura di Luigi Murciano)
Si inizia subito con le emozioni forti, perchè un concerto del “Mountain King” di NY farà sempre dell’aspetto emotivo il suo punto di forza. Non è chiaro se all’interno della band sia iniziata una gara per raggiungere le dimensioni corporee del proprio leader, perchè la stazza dell’eccezionale Matt LaPorte continua a lievitare data dopo data.
Scherzi a parte, proprio il chitarrista sarà uno dei protagonisti assoluti dello show, dimostrando a tutti – lo so di dire una cosa forte – di essere forse l’unico musicista degno di ripetere su una sei corde i funambolismi del compianto Criss Oliva. Non è certo una questione di tecnica, dal momento che sia Al Pitrelli che lo stesso Chris Caffery (per tacere di Alex Skolnick) hanno onorato la figura del fratello di Jon nella loro militanza nei Savatage: è una questione di cuore. E LaPorte ce ne mette tanto nell’eseguire alla grandissima le parti del compianto chitarrista, trovandosi a suo agio in particolare nei pezzi più datati, che ci fanno fare un salto indietro di oltre vent’anni.
Acclamata da un gran numero di fan, la band regala subito un tuffo al cuore: la misteriosa City Beneath The Surface, dall’omonimo Ep dell’ 83 ( poi in “Dungeons are calling”). Si intuisce subito che anche stavolta il buon vecchio Jon cercherà nello scrigno dei Savatage, lasciando tutti a bocca aperta con altri due masterpiece come Sirens e la polifonica Chance. Rispetto alle ultime date italiane l’istrionico frontman è meno “in palla” quanto a voce, a volte dà l’impressione di arrampicarsi sulle note, ma il pubblico ovviamente non se ne cura e lo sostiene.
Dopo un’aggressiva Through the Eyes of the King (il sottoscritto la chiama “la Hall Of The Mountain King dei giorni nostri” per le atmosfere che evoca), unica parentesi dedicata alla sua fase solista, le dita di Jon accarezzano il piano per il consueto mix di disperazione e maestosità, rabbia ed epicità delle varie Gutter Ballet, Believe – sentita mille volte live, ma stavolta la partecipazione è stata così intensa sia da parte di Oliva che dell’audience, che ci è scappata una lacrimuccia – Jesus Save e con l’inevitabile chiusura di Hall Of The Mountain King che fa tremare letteralmente il Marquee 1.
Setlist: City Beneath The Surface, Sirens, Chance, Through the Eyes of The King, Gutter Ballet, Believe, Jesus Saves, Hall Of The Mountain King.
SAMAEL
(a cura di Flavio Pian)
Ci spostiamo rapidamente verso il Metal Dome dove sta per iniziare l’esibizione degli svizzeri Samael, giungendo giusto in tempo per le prime note dell’intro elettronica. Il tendone è abbastanza pieno e l’afflusso continua anche durante l’esibizione di Vorph e soci (nota a margine la presenza di molti metalhead di giovane età). Il gruppo ha a disposizione 45 minuti per dare in pasto ai fan il meglio della loro discografia, eseguendo tutti i loro classici con alcuni estratti del loro ultimo album “Above”: l’opener Under One Flag e la già presentata (durante il tour invernale con i Deicide) Black Hole. Vengono proposte le varie Rain, Reign Of Light, passando per Baphomet’s Throne ed Infra Galaxia, senza dimenticare gli ormai classici Into The Pentagram e Slavocracy.
Proprio i brani estratti da “Solar Soul” sono quelli a riscuotere più successo tra il pubblico presente, che ad ogni modo ha partecipato attivamente a tutto il concerto incitando ed accompagnando la band durante l’esecuzione dei vari pezzi. L’esecuzione dei brani è ottima, anche se il lavoro svolto dietro al mixer dal responsabile del suono non è dei migliori. Nei pezzi di tipica matrice black (quelli della prima era e dell’ultimo nato “Above”) i suoni dei vari strumenti sono impastati e la voce del sempre coinvolgente Vorph risulta essere molto bassa. Il tutto migliora quando vengono eseguiti i brani più “elettronici”.
Si è già detto della carica e del carisma di Vorph, ma anche gli altri componenti non sono stati da meno: menzione particolare va al bassista Masmisein, che non smette un attimo di muoversi sulle assi del palco. A conclusione della loro performance i quattro elvetici eseguono My Saviour, anche se l’impressione è che non riscuota grande successo tra il pubblico.
Setlist: Under One Flag, Rain, Baphomet’s Throne, The Ones Who Came Before, Infra Galaxia, Solar Soul, Reign Of Light, Black Hole, Into The Pentagram, Slavocracy, My Saviour.
W.A.S.P.
(a cura di Luigi Murciano)
Sarò un inguaribile nostalgico, ma per me Blackie Lawless rappresenta, anche meglio di altre icone hard and heavy, il prototipo di vocalist perfetto per quanto concerne certe sonorità ottantiane. Lasciate perdere i chili in più, e pure voci e malignità sul presunto utilizzo sistematico di playback e sovraincisioni che ogni tanto fanno capolino sul singer dei W.A.S.P.: qui stiamo parlando di carisma, di magnetismo e di una voce abrasiva ma al tempo stesso oscura, evocativa e ribelle, teatrale e trascinante come ce ne sono state assai poche nella storia della nostra amata musica.
Perlomeno a Dessel, Blackie non ha avuto bisogno di alcun aiutino – se non quello del pubblico che gli dà una inevitabile mano cantando a sguarciagola classici senza tempo e permettendogli di rifiatare – per fare letteralmente infiammare il già rovente tendone del Marquee 1, dove il rito dei W.A.S.P. si è rinnovato con il consueto (e forse di più, rispetto a certe esibizioni italiane) pieno di entusiasmo. Il tendone era stracolmo e il pubblico presente probabilmente ha retto il confronto con quello dei Blind Guardian, cedendo il passo (e non di molto) ai soli Dream Theater quanto ad affluenza.
Niente brani dall’ormai neanche recentissimo e più che discreto “Dominator” (questa è ormai è una costante); del resto i tempi per l’esibizione sono quelli che sono. E allora via a perdifiato con un autentico “best of”, senza compromessi e senza intermezzi, aperto come al solito dalla irriverente On your knees e subito decollato con altre due mazzate al cuore di ogni vecchio rocker che si rispetti come Wild Child e L.O.V.E. Machine. Senza contare un ripescaggio importante come Electric Circus, dall’omonimo album del 1986. La band sembra coesa e divertita: Doug Blair non sarà nè Chris Holmes nè Darrel Roberts, ma nei soli dimostra di sapere il fatto suo. Mike Duda e Mike Dupke, la sezione ritmica, pedalano che è un piacere.
Il picco emotivo, naturalmente, è quella The Idol che incanta ancora oggi e che dimostra come i W.A.S.P. (ok, Blackie) non siano mai stati solo una shock rock band, ma una formazione capace di scrivere brani alti e estremamente poetici. Finisce in festa, come è giusto che sia, con le immortali Chainsaw Charlie e I Wanna Be Somebody a far muovere letteralmente chiunque nel forno del Marquee 1. E con la certezza che i vecchi mostri sacri – sarà il patto col Diavolo – per un motivo o per l’altro hanno sempre una marcia in più. Questione di carisma, quello non si inventa e non si affina.
Setlist: On Your Knees, Wild Child, Sleeping (In the Fire), L.O.V.E Machine, Inside The Electric Circus, The Idol,
Chainsaw Charlie (Murders In The New Morgue), I Wanna Be Somebody.
THE GATHERING
(a cura di Luigi Murciano)
D’accordo, i The Gathering ormai con il metal non c’azzeccano più letteralmente nulla. Ma dopo la dipartita della storica singer Anneke Van Giesbergen troppa era la curiosità di misurare la nuova line-up della formazione di Nijmegen. Al punto – non ce ne vogliano i puristi – da snobbare la concomitante esibizione dei Soulfly di Max Cavalera sul main stage. Quella del Graspop, se escludiamo due date di warm-up in un paio di locali olandesi, era di fatto la “prima” assoluta della nuova cantante, la norvegese Silje Wergeland, con un passato recente (e convincente) dietro il microfono degli Octavia Sperati, e sulla cui scelta il sottoscritto era stato piuttosto ottimista.
Entriamo nel Metal Dome proprio quando stanno per terminare le note dell’intro strumentale When trust become sound, dell’ultimo (o dovrei dire primo?) album della band, “The West Pole”. Silje è già sul palco e sceglie una maniera inedita per entrare in scena, ovvero suonando delle tastiere aggiuntive a quelle di Frank Bojinen. Si parte con No One Spoke, brano sognante dell’ultimo lavoro che conferma l’ormai marcata vocazione trip-rock della band, ma un brivido corre lungo la schiena quando parte la successiva On Most Surfaces dal masterpiece “Nightime birds”, album in cui i “viaggi” mentali degli olandesi erano ancora vicini al metal andando a creare uno stile unico e una nuova frontiera tuttora insuperata per tante band venute in seguito.
Il concerto è decisamente guitar-oriented, con il buon Renè Rutten a cesellare suoni su suoni e a cambiare chitarra per ogni brano. Non sarà un virtuoso, ma questo timido ragazzo dalla vaghissima somiglianza con Dave Murray è un autentico artigiano del suono, disegna con precisione certosina melodie e riff mai banali e fa un massiccio uso di effetti che fanno fischiare e a volte quasi cantare la sua chitarra creando suggestioni molto particolari. La band gli va dietro alla grande, dal fratello Hans, drummer semplice ma efficace, alla pulsante bassista Marjolein, mentre Frank colora il tutto alle keyboards e agli effetti “psicotropi”.
E Silje? Facile a dirsi: onesti come al solito, i Gathering dedicano tutta la seconda parte dello show all’era Anneke e non si sottraggono agli inevitabili confronti. La voce meno maestosa della norvegese si difende bene sui brani più “diretti” (dal punto di vista delle parti vocali, perchè stiamo pur sempre parlando di una band di non facile accesso, dalle sonorità sognanti e a volte psichedeliche) come Analog Park e la hit Leaves, mentre pare molto più in difficoltà quando si tratta di tirare fuori l’anima e quella teatralità di chi l’ha preceduta: lasciando quindi un po’ di amaro in bocca su Great Ocean Road e sulla ballad Saturnine dove Silje fa più fatica e Anneke pare inarrivabile: non tanto tecnicamente, quanto a feeling. All you are, brano estrapolato dall’ultimo full-length, convince invece tutti sulla ritrovata coesione della band. In conclusione: non c’entrano col metal, probabilmente nemmeno coi festival di queste dimensioni, ma i Gathering rimangono una compagine assolutamente affascinante. In attesa della crescita di Silje.
Setlist: When Trust Becomes Sound, No One Spoke, On most surfaces (Inuit), A Constant Run, Leaves, Analog Park,Great Ocean Road, Saturnine, All You Are.
BLIND GUARDIAN
(a cura di Flavio Pian)
Era il lontano 1995 quando entrai a contatto con la musica dei Blind Guardian. A quel tempo usciva nei negozi “Imaginations From The Other Side”, un album che per sempre rimarrà nel mio cuore metallico e che mi fece diventare un loro fedele seguace. Innumerevoli le esibizioni live nel corso degli anni, e mi hanno sempre trasmesso grande entusiasmo. Ora, dopo anni di silenzio, li rivedo mentre salgono sul palco del Marquee 1. L’ultimo loro concerto a cui avevo assistito era stato quello del Gods Of Metal 2007. Erano da poco reduci dall’ultima fatica “A Twist in the Myth”, che coincise con la fuoriuscita dello storico batterista Thomen Stauch, e l’esibizione all’Idroscalo non fu delle migliori e mi lascio molto amaro in bocca, soprattutto per quanto riguarda la setlist presentata.
Proprio questo è il grosso problema del gruppo: sempre la “solita storia”. Vista la lunga assenza on stage, speravo in una rivoluzione della scaletta, magari con qualche colpo a sorpresa. Purtroppo le mie aspettative sono state realizzate solo in piccolissima parte. Anche quest’oggi l’inizio dell’esibizione è affidato alla ormai consueta War of Wrath a cui segue la ormai classica Time Stands Still (At The Iron Hill). L’audio è ottimo ma purtroppo il buon Hansi nonostante il promettente inizio non è al top della forma (come successo in altre occasioni) ed il suo cantato spesso fatica a raggiungere certe tonalità, tanto da lasciare al pubblico il compito di eseguire intere parti di alcune canzoni.
Il resto della band gira come un ingranaggio ben oliato con Olbrich a farla da padrone e gli altri a svolgere il loro compito in modo impeccabile, compreso il “non più nuovo” drummer Ehmke (nonostante al sottoscritto non piaccia molto, Thomen è Thomen!). Tutto scorre come da copione con i soliti brani estratti da “Imaginations…” (la title-track, Another Holy War, The Script For My Requiem), Punishment Divine e gli immancabili classici che ogni vero fan attende: Lord Of The Rings e The Bard’s Song. Uniche novità della giornata sono l’esecuzione di Turn The Page (tratta dal loro ultimo full-lenght) e Sacred (composta per l’omonimo videogioco).
Il concerto giunge alla fine con Mirror Mirror, acclamata a gran voce dal pubblico, grande protagonista della serata, numerosissimo e sempre pronto ad intonare ogni ritornello ed a sostenere i propri beniamini, come da consolidata abitudine per un evento dei Bardi. Devo essere sincero: nonostante tutto ho cantato e saltato anch’io, perché in fondo questa è una band a cui sono molto legato, date tutte le emozioni che mi ha regalato in passato.
Setlist: Time Stands Still (At The Iron Hill), Another Holy War, Traveler In Time, Turn The Page, The Script Of My Requiem, Sacred, Lord Of The Rings, Punishment Divine, Imaginations From The Other Side, The Bard’s Song (In The Forest), Mirror Mirror.
HEAVEN & HELL
(a cura di Luigi Murciano e Flavio Pian)
Alle 21:20 sul Main Stage inizia lo spettacolo del gruppo più atteso: i Black Sabbath… no, scusate gli Heaven & Hell. Eh, si, perchè se a suo tempo l’innesto nel combo di Birmingham del folletto Ronnie James Dio contribuì a dare nuova linfa ai Sabbath fuoriusciti malconci e forse artisticamente spompati dall’era Ozzy, oggi che la storia si è cristallizzata probabilmente l’uso di un altro monicker rende maggiore giustizia a una band che ha una sua fortissima identità. L’oscurità della sera non è ancora scesa del tutto sulla spianata di Dessel, e questo contribuisce a rendere particolare la loro esibizione. L’atmosfera non si sposa perfettamente con l’aura dei quattro mostri sacri, e anche il pubblico sembra in parte risentirne: affettuoso, caloroso, ma non caldo e “fisico” come ci si sarebbe aspettati. Le lamentele, sia chiaro, vengono spazzate via senza colpo ferire dalla musica. I quattro partono subito con il botto, con una Mob Rules eseguita in modo esemplare: c’è veramente da dire che questi “vecchietti” spaccano ancora il culo a molti gruppi di giovani leve.
Dio, classe 1942, sfodera una prova vocale da pelle d’oca, variando sul tema di quelle stesse canzoni alle quali ha dato un timbro inconfondibile e che oggi continua a colorare a proprio piacimento con estro e fantasia. Tony Iommi macina riff e soli con cura maniacale e classe sopraffina, rimanendo sempre ancorato nel suo angolo di palco, dal quale non si muoverà mai eccettuate un paio di (per lui) estemporanee corna al cielo (gesto che la leggenda vuole reso immortale proprio dal suo collega Dio), simpaticamente rivolte al pubblico. Geezer Butler pare “l’uomo dalle dita più veloci del mondo”, suona le corde del suo basso a velocità fuori dalla norma con suoni e volumi che rappresentano l’essenza di questo strumento nella musica heavy: un motore inarrestabile, il “cuore” delle canzoni, capace di far muovere chiunque con i suoi giri avvolgenti.
Degna infine di menzione anche la prova di Vinnie Apice, metronomo che non sbaglia un colpo. La resa sonora è nel complesso buona: voce e batteria sono ben bilanciate, mentre durante l’esecuzione delle canzoni il suono del basso copre a volte quello della chitarra, tranne durante gli assoli dove il volume di Iommi viene sistematicamente alzato. Children of the Sea scalda subito i cuori, la nuova Bible Black pare già ben assimilata dal pubblico, ma è il quartetto finale (Falling Off the Edge of the World, Die Young, Heaven & Hell e Neon Knights) a far capire a tutti i convenuti che i padri di certe sonorità saranno sempre e soltanto loro. In grandissima forma.
Setlist: 5150, The Mob Rules, Children Of The Sea I, Blible Black, Time Machine Fear, Falling Off The Edge Of The World, Die Young, Heaven & Hell, Neon Knights.
DREAM THEATER
(a cura di Flavio Pian)
Rapidissimo trasferimento al Marquee 1 per assistere all’ultimo concerto della giornata. La band statunitense è appena uscita nei negozi con l’ultima fatica intitolata “Black Clouds & Silver Linings” ma da questo album verrà estratto solo il singolo A Rite Of Passage. Il tendone è stracolmo ed il pubblico palpabilmente non vede l’ora che lo spettacolo inizi. Il set comincia con In The Presence Of Enemies Part 1, eseguita nella versione strumentale e si nota subito come il gruppo sia in grandissima forma.
Si prosegue senza sosta con Beyond This Life da “Metropolis” e Constant Motion da “Systhematic Chaos”. La prestazione dei singoli componenti è impeccabile, ottima in tutte le sfumature. Portnoy suona la sua astronave-batteria con classe e precisione chirurgica, riuscendo anche ad incitare il pubblico oltre ai consueti cori e seconde voci durante le varie canzoni; Myung svolge la sua prova senza dare troppo nell’occhio, bravo e disciplinato come sempre, mentre gli istrionici Rudess e Petrucci si sfidano a suon di soli durante tutta l’esibizione, senza però aver nessun vinto e nessun vincitore. La Brie, infine, come il buon vino migliora invecchiando: la sua tenuta vocale si mantiene ottima in tutti i pezzi e riesce a raggiungere in modo egregio gli acuti presenti nella canzone che è stata un po’ la sorpresa del concerto, ovvero Voices. Eseguito in immediata successione ad un altro brano culto quale Erotomania, come sul full leght “Awake”, lo storico pezzo, un ripescaggio d’annata (data la ricorrenza del 15esimo anniversario della sua pubblicazione), regala più di un brivido lungo la schiena ai presenti.
Come sempre i newyorkesi nei loro concerti regalano qualche gradita sorpresa a tutti i fan e questa ne è la tipica testimonianza. Per chiudere l’esibizione il gruppo sceglie due classici che il pubblico ama e non smetterà mai di richiedere ed ascoltare, ovvero Pull Me Under e Metropolis Pt.1; l’adrenalina è alle stelle, con tutti i presenti che cantano a squarciagola i testi delle canzoni. Molto interessante, nel contesto del pezzo conclusivo, la battaglia di soli tra Petrucci e Rudess (armato di tastiere portatili).
L’esibizione si conclude dopo 75 minuti di musica suonata con classe e bravura, a dimostrazione di quanto i Dream Theater siano amati, influenti e trasversali. I veri headliner della giornata, come ci dimostrerà poco dopo la fiacca performance dei Motley Crue e in particolare di un gallinaceo Vince Neil, che complice la stanchezza (ma anche il confronto impietoso con le band precedenti) abbiamo seguito da lontano preferendo rifocillarci in uno delle decine di stand multietnici disseminati nella spianata di Dessel.
Setlist: In The Presence Of Enemies Part 1, Beyond This Life, Constant Motion, A Rite Of Passage, Erotomania, Voices, Pull Me Under, Metropolis Pt.1
Qualche considerazione finale…
In conclusione si è trattato di una maratona esaltante, nella quale materialmente non abbiamo avuto non solo il tempo di seguire tutte le band, ma neppure di rifiatare un attimo, visto che le performance si sono seguite senza soluzione di continuità. Il paragone con la realtà del Belpaese viene quasi inevitabile. Vero è che per allestire un carrozzone di queste dimensioni servono tante cose: in primis i soldi (qui c’erano due main sponsor non da poco come la Coca Cola e un energy drink che sta spopolando in Benelux), quindi la manodopera, infine il supporto di istituzioni varie. Il problema è che da queste parti, come anche a Wacken e in Svezia, hanno compreso come il metal sia a tutti gli effetti un fenomeno musicale, sociale e di costume che riesce a muovere dei numeri importanti in un’epoca in cui la musica – altra musica – vive momenti di crisi nera. La fedeltà, la passione e la competenza dei fan di questo genere invece non conoscono flessioni. All’estero l’hanno compreso e hanno investito. Siccome non di solo pane vive l’uomo, hanno puntato forte su un evento che ha avuto anzitutto una sua ricaduta turistica ed economica per la cittadina di Dessel, oltre che un ritorno per gli organizzatori; insomma, si è fatto gioco di squadra. In Italia invece i grandi festival spesso sembrano essere ancora osteggiati dalle istituzioni (prova ne sia che il Gods ha cambiato casa mille volte) e chi li organizza, anche comprensibilmente frustrato, non può che “rivalersi” sull’ultimo anello della catena, noi fan, proponendo prezzi non accessibili a tutti e servizi (se ci sono) che paragonati a quelli di realtà quali il Graspop fanno arrossire dalla vergogna. Una cosa è certa: a Dessel ci torneremo.