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Live Report: Hellfest 2017 16-18/06/2017

Di Davide Sciaky - 13 Agosto 2017 - 12:30
Live Report: Hellfest 2017 16-18/06/2017

While She Sleeps

Per iniziare l’ultimo giorno di festival ci dirigiamo verso il Warzone che si appresta ad ospitare i While She Sleeps; arrivando completamente a digiuno della band inglese, rimaniamo sorpresi dall’incredibile energia e cattiveria sprigionata dallo show (e dagli spettatori).
Il concerto è visto attraverso una coltre di polvere, simile a quella vista con i D.R.I. il giorno prima ma molto più spessa, sollevata dalle numerosissime persone nel mosh.
I pochi brani suonati sono principalmente estratti dall’ultimo album You Are We, e dimostrano una grande abilità della band a coinvolgere gli spettatori; i musicisti saltano su e giù inarrestabili, mentre il cantante Loz Taylor spesso scende dal palco a cantare affacciandosi dalla transenna sul pubblico.
Taylor, su tutti i membri della band, non si risparmia un secondo e sulla penultima canzone della setlist, “Silence Speaks”, lo perdiamo di vista per pochi secondi; ricompare arrampicato sulla torre davanti al palco da dove il tecnico del suono regola i volumi.
Com’è arrivato lì così in fretta?
Non lo sappiamo, ma certamente il cantante riesce nel suo intento di galvanizzare la folla e, dopo averla caricata per bene, si lancia sugli spettatori che lo riportano sul palco facendogli dare crowdsurfing.
Concerto notevole e un cantante che si lancia da vari metri di altezza sul pubblico non l’avevamo ancora visto, promossi a pieni voti.

Hirax

È ora il turno degli Hirax terremotante formazione Thrash americana guidata dal cantante Katon De Pena.
Questi non si risparmia un secondo e correndo da un lato all’altro del palco, il tutto mentre canta con grande energia; la sua voce non cede un secondo mentre alterna grandi acuti a potenti urla.
La band è compatta e gli undici pezzi suonati volano; siamo sul finale quando la band suona “El Diablo Nero”, soprannome con cui il chitarrista Lance Harrison aveva introdotto De Pena poco prima.
Chitarrista, bassista e cantante si muovono sincronizzati a tempo con la musica, ma Katon schizza subito via ad incitare nuovamente il pubblico.
Quando lo show finisce il pubblico è decisamente soddisfatto da un concerto estremamente coinvolgente e divertente, soprattutto grazie alla grande abilità del frontman americano.

 

Alter Bridge

Gli Alter Bridge salgono su un assolatissimo primo Main Stage davanti ad una folla piuttosto imponente che si è radunata già da parecchi minuti prima dell’inizio del concerto.
Nell’ora che hanno a disposizione gli americani dimostrano di essere una delle realtà Rock più convincenti degli ultimi anni: il loro Hard Rock moderno è potente e ben scritto, la loro performance è coinvolgente e i membri della band si muovono come un’unica entità perfettamente coesa.
Il cantante e chitarrista Myles Kennedy, forse complice l’esperienza guadagnata con il suo lavoro degli ultimi anni insieme a Slash, è capace di ammaestrare il pubblico e di portarlo dalla sua parte con un semplice sguardo e poche parole.
Il concerto si apre con “Come to Life” che riscalda per bene il pubblico, segue poi una ben studiata alternanza di pezzi provenienti da tutta la carriera degli Alter Bridge; forse sorprende un po’ la scelta di suonare solo due pezzi dall’ultimo album, ma è con uno di questi, “Show Me a Leader”, che vediamo forse la più grande partecipazione del pubblico che la canta per intero a gran voce.
Per il resto, comunque, c’è sempre una gran esaltazione, concentrata soprattutto sui pezzi più noti quali “Isolation” e la meravigliosa “Blackbird”.
Come ci è capitato di pensare altre volte durante il festival l’unico difetto del concerto è che non sia durato di più.

Blue Öyster Cult

Ci spostiamo ancora una volta davanti al Valley dove si apprestano a suonare i Blue Öyster Cult, vecchie glorie dell’Hard Rock.
La zona è gremita ed è difficile anche solo entrare sotto al tendone, figuriamoci avvicinarsi; per qualche motivo, però, dopo poche canzoni molti si allontanano permettendo a chi è più lontano di raggiungere una posizione migliore.
Le note della sigla di Game of Thrones aprono il concerto, una scelta particolare ed inaspettata (almeno per chi scrive che non aveva mai visto prima la band), che lascia il posto a “The Red and the Black”, brano che ci riporta immediatamente indietro di 40 anni.
Un’ora è sicuramente poca per rappresentare una carriera quasi cinquantenaria come quella del Culto della Ostrica Blu, e la setlist si concentra prevedibilmente sui classici.
Il pubblico è catturato dalla performance e risponde bene ai cinque musicisti che dal palco somministrano la loro dose di sano Rock N’ Roll; gli inni si inseguono e pezzi come “Burnin’ for You” e “Then Came the Last Days of May” non possono non riscaldare il cuore dei presenti.
Proprio su quest’ultima canzone l’assolo si dilata, l’esecuzione supera i 10 minuti, e ipnotizza il pubblico che risponde con un commosso entusiasmo alla fine del brano.
Ovviamente è su “(Don’t Fear) The Reaper”, celeberrimo pezzo noto anche chi non conosce la band, che si ottiene la più grande partecipazione del pubblico, ma il concerto non è finito qui.
La band prosegue con un encore lungo altri due brani e dopo “Cities on Flame With Rock and Roll” si congeda tra gli applausi del pubblico.

 

Scour

Chi sono gli Scour che hanno un posto così in alto nel running order?
Non si tratta di altro che dell’ennesimo progetto di Phil Anselmo, qui accompagnato da Derek Engemann dei Cattle Decapitation alla chitarra, che questa volta propone un grezzo e classico Black Metal.
Anselmo si presenta sul palco come sempre da quasi 30 anni, pantaloncini corti e birra in mano, impossibile aspettarsi qualcosa di diverso (chi ha detto facepainting, pensando al genere proposto?).
Al centro del palco lo aspetta un leggio con i testi delle canzoni, alcune appena pubblicate, altre ancora inedite, che il cantante esegue in un growl dignitoso.
L’esecuzione dei musicisti che lo accompagnano è ottima e insieme all’incredibile carisma di Anselmo, che spreca poche parole tra una canzone e l’altra e si concentra sulla performance, portano ad un risultato che soddisfa sicuramente tutti i presenti.
Dopo dieci canzoni targate Scour, poi, la band regala una sorpresa finale a chi è accorso sotto al palco, “Chi ha più di 40 anni ed è cresciuto con la scena, dovreste conoscere questa canzone come i vostri genitali, per i giovani hipster che credono di sapere dov’è nato il Black Metal, farete meglio a conoscere questa canzone”.
Con queste parole Phil introduce “Massacre” dei Bathory a cui segue “Strenght Beyond Strength” dei Pantera.
Concerto bello e convincente, ma in particolare Phil Anselmo che canta i Bathory è qualcosa che nessuno si sarebbe mai neanche sognato.
Da annali.

Emperor

Ormai è buio, siamo a serata inoltrata, la coreografia presente sul palco dell’Altar è minimale e la nebbia artificiale è illuminata da delle sinistre luci verdi.
L’intro “Alsvartr (The Oath)” esce dagli altoparlanti, accompagna l’ingresso della band, e il pubblico la segue tuonando “I am the Emperor!”; a questo punto inizia “Ye Entrancemperium” che apre la celebrazione di “Anthems to the Welkin at Dusk”.
L’album, giunto quest’anno al suo ventesimo anniversario, viene infatti suonato per intero dai norvegesi e seguono quindi “Thus Spake the Nightspirit”, “Ensorcelled by Khaos” ed il resto delle tracce nell’ordine in cui appaiono sull’album.
Ihsahn ormai si è gettato alle spalle il look da blackster duro e puro ma, pur sembrando quasi un po’ fuori luogo affiancato da Samoth, il suo talento è immutato e le canzoni si succedono eseguite magnificamente.
Con “With Strength I Burn”, la canzone più lunga dell’album, si raggiunge uno dei picchi del concerto; segue poi “The Wanderer” che fa temere a molti che la fine dello show sia già arrivata.
Fortunatamente la band ha ancora del tempo a disposizione e si lancia in un encore con “Curse You All Men!”; seguono poi “I Am the Black Wizards” e “Inno a Satana”, due tra le canzoni più note e amate della band, che ricevono l’acclamazione più grande sentita questa sera dall’Imperatore.
Concerto superbo che incorona ancora una volta gli Emperor come uno dei miglior gruppi Black Metal in circolazione.
 

Hawkwind

Giunge così la fine del nostro Hellfest, sulle note spaziali dei leggendari Hawkwind.
La band inglese, quasi cinquant’anni di carriera alle spalle, ormai non suona più molti concerti, e questi sono per lo più in Inghilterra, quindi vederli fuori dalla patria è un evento degno di nota.
Come in ogni concerto degli Hawkwind un telone bianco è tutta la scenografia che serve: su di questo, e sulla band stessa, vengono proiettati motivi psichedelici in continuo movimento e trasformazione.
I musicisti salgono sul palco e si inizia con un’incredibile “Earth Calling” seguita da “Born to Go” che ci catapultano immediatamente negli anni ’70 impregnati di acidi che la band ha vissuto; queste due canzoni sono le stesse che aprono “Space Ritual”, leggendario album live degli Hawkwind su cui figura anche un giovane Lemmy al basso.
Lo show prosegue con Mr. Dibs e Dave Brock che si alternano alla voce tra le ipnotizzanti parti di tastiera o theremin di Tim Blake (misteriosamente ricomparso nella band per questa data) e gli psichedelici assoli dello stesso Brock.
Insieme ai pezzi più noti e datati vengono anche eseguiti alcuni pezzi nuovi estratti dell’ultimo album, Into the Woods, come la title-track che funziona benissimo dal vivo e conquista la folla.
Il pubblico passa il concerto in una sorta di trance psichedelica indotta dallo Space Rock degli Hawkwind che dominano il palco con il leader della band, Dave Brock, che, nonostante l’età (ben 75 anni!), non molla un colpo.

Il concerto finisce in un tempo indefinibile, le lancette sono girate sull’orologio ma sembra che non sia passato un secondo, e che sia passata un’eternità.
Si chiude così un concerto memorabile che, su una nota non positiva, di più, conclude anche il nostro Hellfest 2017.