Live Report: Hellfest – 21/22/23 Giugno 2013 – DAY 3
LIVE REPORT – HELLFEST – CLISSON (FRANCIA) – 21/22/23 GIUGNO 2013
Report a cura di Orso Comellini
Domenica 23 Giugno
Dei tre giorni di festival la domenica è quello un po’ meno caotico, vuoi perché vi sono meno nomi altisonanti condensati senza un attimo di respiro, vuoi perché rispetto ai giorni precedenti (Def Leppard il primo e Kiss/ZZ Top il secondo) non c’è un gruppo in grado da solo di attirare folle oceaniche. Non me ne vogliano i Volbeat, ma forse per ripetere le folti presenze del venerdì e soprattutto del sabato era necessario un moniker di maggior richiamo. Tant’è che al risveglio notiamo che alcune tende nelle vicinanze sono state smontate. In compenso, sebbene in generale la giornata veda avvicendarsi band un po’ meno consistenti dal punto di vista delle vendite (non sempre però dell’importanza storica), il programma giornaliero prevede delle vere e proprie chicche, imperdibili per chi nell’heavy metal, in senso ampio, ricerca costantemente la qualità delle composizioni al di là del successo ottenuto e possibilmente anche qualche gruppo innovativo o comunque dotato di una certa personalità.
Locandina alternativa
La prima in ordine cronologico è l’esibizione dei progster norvegesi LEPROUS sullo stage Temple. Strana la scelta di inserirli come primo gruppo di giornata alle dieci e mezzo di mattina, dato che il combo di Notodden è già al terzo album (l’ultimo dei quali “Coal” di questo anno) ed ha ottenuto ottimi riscontri dalla critica e dai fan, specie con il precedente “Bilateral”. Probabilmente si è voluto dare la possibilità al gruppo di tirare il fiato prima di tornare sul palco nel pomeriggio assieme a IHSAHN, del quale, tutti loro, sono la live-band. Fatto sta che il devastante giorno precedente e le poche ore di sonno potrebbero influire sulla capacità di attenzione del pubblico, in considerazione anche della proposta piuttosto ostica, e quindi minare la riuscita dello show stesso. L’attenzione maggiore ricade inevitabilmente sul cantante (e tastierista) Einar Solberg proprio per la difficoltà a riproporre certi vocalizzi impegnativi, così presto. Il gruppo sale poco alla volta sul palco, dove sono stati già disposti gli strumenti, a partire proprio da Solberg, il quale dà inizio al concerto sulle note di tastiera di “The Valley”, poi è la volta del batterista ed a turno tutti gli altri. Tutti e cinque appaiono in ottima forma, tanto per smentire ogni possibile elucubrazione, e anche se la parte centrale appare leggermente troppo dilatata peccando di un pizzico di ripetitività, l’esecuzione è impeccabile. Proseguono poi con alcuni dei brani migliori dell’ultimo album, nella fattispecie “Chronic” e “The Cloak”, che mettono in mostra tutto il loro indiscusso potenziale. Chiusa la parentesi “Coal”, concludono in crescendo il loro show sulle note di “Restless” e “Thorn” dall’acclamato album precedente, mentre i fedelissimi del gruppo paiono quasi in estasi, attoniti tenendo costantemente incollati gli occhi al palco. Peccato per l’orario, ma in ogni caso la loro è stato un’esibizione impegnativa, ma senz’altro appagante. Approfittiamo di alcuni show che destano minor interesse per recarci finalmente in quel luogo di tentazione e perdizione che è l’Extreme Market per portare a casa alcuni souvenir. Notiamo che anche quest’anno sono presenti diversi stand di etichette italiane e straniere, vari mailorder, banchetti di prodotti artigianali e quant’altro, così da riempire ogni metro quadrato del grande tendone appositamente dedicato, più un ulteriore spazio esterno. Insomma, ce n’è per tutti i gusti, senza contare che molti venditori fanno notare di non aver abbastanza spazio per esporre tutta la merce portata e quindi se si cerca qualcosa in particolare conviene chiedere perché potrebbero averlo anche tra gli imballi sui vari camioncini. Infine, dato che l’ora di pranzo si avvicina scegliamo uno tra gli innumerevoli stand alimentari disponibili e ci avviciniamo verso il prato del secondo mainstage per degustare la pietanza in tutta tranquillità mentre osserviamo lo show degli statunitensi PRONG. Band attiva sin dagli anni Ottanta, inizialmente sul versante hardcore, forse poco conosciuta, ma che rientra nel novero dei pionieri di un certo tipo di musica moderna che prenderà piede durante i Novanta. Ben pochi conoscono e riconoscono i meriti e l’influenza che il combo newyorkese ha avuto ai tempi, nonostante abbiano prodotto alcuni album che hanno avuto una discreta fama, tra cui “Prove You Wrong” e “Beg To Differ” (la cui copertina sovrasta i tre musicisti sul palco), arrivando a sfiorare un successo su larga scala che però non arriverà mai. Della formazione originale è rimasto solo il cantante chitarrista e leader indiscusso Tommy Victor (che più tardi ritroveremo come chitarrista di Danzig), ma l’attitudine del gruppo non è cambiata di una virgola ed i loro ultimi lavori sono stati generalmente accolti piuttosto bene dalla critica. Che il gruppo sia piuttosto in forma traspare da un’esibizione davvero godibile ed energetica, che parte con una certa intensità con il thrashcore di “For Dear Life” e il thrash dalle vaghe tinte funky di “Unconditional”, proprio dai due album cui facevo riferimento prima. I Nostri possono attingere da un’ampia discografia, all’interno della quale hanno saputo spaziare tra una miriade di generi, ma per lo show odierno hanno deciso di puntare su pezzi più compatti e duri ed è così che sfoderano un paio di brani da “Cleansing”, altro disco uscito nel fortunato periodo sotto contratto con la Epic, come “Whose Fist Is This Anyway?” e “Snap Your Fingers, Snap Your Neck”. Il loro è complessivamente un valido concerto, anche perché va detto che certi brani rendono forse più dal vivo che su disco e da parte loro i Prong non sembrano proprio volersi risparmiare.
Ci spostiamo sotto il tendone del Valley dove si esibiranno i talentuosi GRAVEYARD, nati anch’essi, come i Witchcraft, da una costola dei Norrsken. Il combo svedese, rispetto ai “cugini” provenienti da Örebro, sono meno orientati verso il doom delle origini e propongono una miscela esplosiva di hard rock dalle forti tinte blues, che non disdegna affatto la psichedelica e certe atmosfere settantiane di gruppi come gli Hawkwind, tra gli altri. Forti di uno dei migliori cantanti del genere, Joakim Nilsson, che su un pezzo emozionante come “Slow Motion Countdown” riporta più volte alla mente il compianto Jeff Buckley, puntano a promuovere “Lights Out”, album uscito sul finire del 2012, specie nella prima parte dello show. Nella seconda parte, invece, ripescano episodi tratti dai due precedenti album, come l’acclamato singolo “Hisingen Blues”, “Thin Line”, “Ain’t Fit To Live Here” e “Evil Ways” che confermano inequivocabilmente tutto il talento di una band che si rifà indubbiamente a certe “vecchie” sonorità, ma che fa della freschezza e dinamicità compositiva la propria arma migliore. Merito senz’altro anche di un batterista davvero energico e infaticabile come Axel Sjöberg, in grado di fare la differenza con le sue sferzanti rullate, un po’ come nel caso di Jon Kleiman ai tempi dei Monster Magnet, il cui stile sembra “rivivere” nel drumming di Sjöberg. Perciò promossi a pieni voti, con la speranza di rivederli in un futuro prossimo in uno show da headliner. Facciamo poi rotta verso il Mainstage, dove si esibirà DANKO JONES, con il suo (hard) rock energetico e accattivante e allo stesso tempo ruffiano e ammiccante, come il rapporto che il singer canadese tesse continuamente con il pubblico tra espliciti riferimenti di carattere sessuale (“Lovercall”), continui ringraziamenti e saluti ad artisti scomparsi e alle varie band che si sono alternate sui palchi di questa edizione dell’Hellfest. La sua proposta è un po’ un compendio di varie sonorità e musicisti sparsi per il globo, come testimonia per esempio “First Date” che sembra strizzare l’occhio contemporaneamente a AC/DC e Foo Fighters, oppure il suo stile canoro che talvolta ricorda il più melodico James Hetfield, come su “Just A Beautiful Day”. Per fortuna è riuscito comunque a definire un proprio stile, per cui non si può parlare di plagio spudorato e in ogni caso, inserito in un contesto del genere con un clima generale di festa, il suo show finisce per farsi apprezzare e coinvolgere i molti presenti accorsi, pur non facendo gridare al miracolo, che si ritrovano ad urlare in coro il ritornello di facile presa di “Legs”, per citarne una su tutte. Concluso lo show torniamo al Valley per rendere omaggio a Micheal Amott ed a quello che potrebbe essere definito una sorta di supergruppo come gli SPIRITUAL BEGGARS, che vede tra le proprie file artisti del calibro di Sharlee D’Angelo, Apollo Papathanasio, Per Wiberg e Ludwig Witt. La band pare molto amata, per merito probabilmente anche degli ottimi riscontri ottenuti con “Earth Blues” di quest’anno, tant’è che il tendone è davvero straripante. La scaletta del combo svedese (molto simile a quella del live-album uscito due anni fa) è ottimamente bilanciata tra passato e presente, lasciando fuori solo “Return To Zero” delle ultime produzioni. L’esecuzione poi è da manuale, del resto il gruppo ha raggiunto ormai una maturità artistica, un’esperienza invidiabile e può sfoggiare un grande affiatamento, dato che la formazione negli ultimi anni è rimasta sostanzialmente invariata. Buona la prova di Apollo Papathanasio, cantante all’altezza della situazione e ormai perfettamente integrato nel gruppo, nonostante rimpiazzare due cantanti dotati di grande carisma come JB e soprattutto Spice non sia affatto facile e probabilmente ci sarà sempre qualcuno che rimpiangerà almeno uno dei due e le loro voci mascoline ed abrasive. Lo show raggiunge il culmine proprio in chiusura, quando i Nostri ripescano “Blind Mountain”, con quel finale incandescente enfatizzato dal solo di Amott eseguito alla perfezione, tratto da quello che a gusto personale continuo a considerare il loro miglior lavoro, “Another Way To Shine” (1996), e “Euphoria” da “Mantra III” (1998) forte di un riff in grado di scoperchiare il tendone ed un ritornello che fornisce un’ottima valvola di sfogo per il pubblico, che lo canta a gran voce.
Ci spostiamo verso l’arena principale per assistere allo show di NEWSTED, avvicinandoci però al secondo Mainstage dove successivamente andranno di scena i Voivod. Stiamo parlando ovviamente dell’ex bassista di Flotsam And Jetsam e Metallica, tra gli altri, il quale dopo aver reclutato i membri mancanti si è lanciato in questo nuovo progetto solista che lo vede anche dietro al microfono. Avendo pubblicato per il momento solo l’EP “Metal” (eseguito per intero), il buon Newsted ha presentato in anteprima diversi brani che finiranno sul primo album vero e proprio, “Heavy Metal Music”, in uscita ad Agosto. Pur mancando forse quel quid in più per fare davvero la differenza, la sua proposta è senz’altro onesta e genuina, cercando di distaccarsi dalle passate produzioni cui ha partecipato con un buon mix di tipico heavy metal a stelle e strisce e thrash, ricercando composizioni variegate, ma tendenzialmente più rocciose che veloci. Componente, quella della velocità, che comunque non manca a brani come “Soldierhead” e “Long Time Dead”. Il suo modo di cantare, che in qualche modo paga pegno alla ruvidità di Snake (Voivod), sembra una versione più sporca e decisamente meno melodica della timbrica di Ricky Warwick (The Almighty, Thin Lizzy). Lo show scorre senza mai annoiare veramente e s’infiamma in un paio di occasioni, aspettate a gloria evidentemente, come in occasione del bridge di “Creeping Death”, inserito all’interno di “King Of The Underdogs”, cantato all’unisono dal pubblico, e soprattutto con la conclusiva “Whiplash”, eseguita per intero, che scatena inevitabilmente il pogo nelle prime file. Arriva poi il momento più atteso della giornata, ma potrei dire di tutto il festival – almeno per chi vi scrive – con l’esibizione dei VOIVOD che si preannuncia particolarmente calda, mentre Away, intento a sistemare il drum kit, si presta ben volentieri (corna al cielo) ad alcune fotografie da parte del pubblico. Essendoci avvicinati al palco durante l’esibizione di Newsted, ci ritroviamo nelle primissime file, quando ci accorgiamo che i Vektor quasi al completo sono accanto a noi in fibrillante attesa come dei normalissimi fan. I quattro canadesi non si fanno attendere molto e quando Snake, Away, Chewy e Blacky fanno il loro ingresso sul palco vengono accolti da un boato del pubblico. Snake, con indosso una t-shirt dei Motörhead, tiene fede al suo nome muovendosi sinuosamente come un serpente da una parte all’altra del palco. Away è la dimostrazione vivente che non occorre una batteria composta da chissà quanti elementi per essere straripanti e al contempo molto vari e imprevedibili, contribuendo in maniera determinante a caratterizzare la loro musica. Blacky, rientrato di recente dopo aver mollato all’indomani di “Angel Rat”, è un animale da palco infaticabile, sempre pronto a duettare con un Chewy (aka Daniel Mongrain, fondatore dei Martyr dai trascorsi nei Gorguts e Cryptopsy) visibilmente emozionato, avendo costantemente un sorriso di compiacimento stampato sulla faccia. Quest’ultimo ha sulle spalle il compito più arduo nel dover sostituire il mai dimenticato Piggy e le sue geniali partiture di chitarra. Dal vivo comunque se la cava alla grande, i suoi soli sono nitidi e impeccabili e le sue composizioni su “Target Earth” (dal quale estraggono la title-track, “Mechanical Mind” e “Kluskap O’Kom”) non distano anni luce da quelle del suo inimitabile predecessore, che evidentemente conosce per filo e per segno. Da standing ovation la prestazione su classici del gruppo quali “Psychic Vacuum”, “Tribal Convictions“, “Forgotten in Space” e continue scariche di adrenalina sulla sferragliante “Ripping Headaches”, tratta dal devastante “Rrröööaaarrr”. Nel frattempo notiamo a lato del palco un Phil Anselmo letteralmente in estasi da adorazione e Jason Newsted, basso alla mano, che si tiene caldo. Il primo sale sul palco per cantare assieme a Snake una versione da brividi di una delle cover più riuscite di tutti i tempi, quella “Astronomy Domine” che i Voivod hanno praticamente trasformato in un loro brano pur non snaturandola del tutto. Il secondo si presta invece per una riproposizione micidiale di “Voivod”, resa particolarmente vibrante e vischiosa anche per la presenza di due bassi Il pubblico non si risparmia un attimo scatenando più volte il pogo e urlando un ritornello che continuerà per giorni a riecheggiare nella mente dei presenti, facendo riaffiorare il ricordo di uno show tra i più esaltanti e memorabili di questa spettacolare edizione dell’Hellfest. Tanto che sorge spontanea la sensazione che il festival si sia per certi versi concluso con un senso di totale soddisfazione, spingendoci quasi a tornare in campeggio per smontare la tenda e preparare le valigie, tale è il grado di appagamento. La giornata, però, è tutt’altro che conclusa e rispettando al secondo il programma ufficiale, sul Mainstage salgono i GOJIRA, i quali, giocando in casa, possono contare su una foltissima schiera di sostenitori che li accolgono come se fossero gli headliner. Il combo di Bayonne ha dato più volte prova di essere uno dei gruppi più talentuosi del panorama francese e non solo, confezionando cinque album acclamati da pubblico e addetti ai lavori e dando vita a uno stile personale, anche se da brani come “The Heaviest Matter Of The Universe”, “Remembrance” o “Flying Whales” si capisce l’influenza che hanno avuto i Morbid Angel su certi riff, in primo luogo quelli lenti ed asfissianti. Così come in misura minore lo stile di Joe Duplantier talvolta può ricordare il cantato di David Vincent. Il loro stile innovativo consiste semplicemente nel reinterpretare a loro piacimento la lezione della “vecchia scuola” secondo canoni differenti, senza aggiungere in fondo niente di assolutamente moderno o mai sentito, piuttosto sfuggendo ai paletti di una rigida classificazione in un genere ben preciso. Specie ascoltandoli dal vivo ci si può rendere conto di quanto certi riff di chitarra (o passaggi di batteria) siano distanti da generi diciamo moderni come il nu metal o il metalcore. Come già detto la partecipazione del pubblico è totale, soprattutto per quanto riguarda i più giovani, tanto che vengono imbastiti vari wall of death, tra cui uno mastodontico su “Wisdom Comes”. Poco prima che lo show si concluda ne approfittiamo per spostarci agevolmente verso il Valley per assistere all’esibizione dei Clutch.
Arrivati in loco però troviamo sul palco (ancora!) Phil Anselmo con i Down, il quale spiega che per la scomparsa di un parente vicino al cantante dei CLUTCH lo show è annullato, perciò l’organizzazione ha chiesto loro di sostituirli in qualche modo. Quello che ne esce è una sorta di jam session nella quale i musicisti si scambiano gli strumenti per proporre versioni alternative di alcuni brani e cover, con l’intervento anche di amici (tra cui Jason Newsted), fidanzate, roadie ecc. La curiosità è molta e praticamente nessuno delle tante persone intervenute per assistere ai Clutch lascia il tendone. Alla fine propongono due brani dei Down (“Rehab” e “Swan Song”), due degli Eyehategod, da cui proviene il batterista (Jimmy Bower), due dei Crowbar (gruppo del chitarrista e del bassista) e infine due dei Corrosion Of Conformity, “Clean My Wounds” (con Jason Newsted) e “Albatross”, che mandano letteralmente in delirio un pubblico un po’ deluso dalla mancata esibizione dei Clutch, ma assolutamente su di giri per uno show fuori dall’ordinario. La scaletta poi prosegue con alcune cover, tra cui l’immancabile ritornello di “Walk” dei Pantera, prima dei saluti di rito. Ancora un po’ euforici ci spostiamo con leggero anticipo allo stage Altar dove stanno per andare in scena i MOONSPELL e troviamo sul Temple i DARK FUNERAL che stanno chiudendo il proprio show con la recente “My Funeral” dopo l’esecuzione al fulmicotone del classico “The Secrets Of The Black Arts”. È il turno poi del combo lusitano capitanato dal frontman Fernando Ribeiro, venuto alla ribalta nel corso dei Novanta con il debutto “Wolfheart” ed il successivo “Irreligious”, che tuttavia con alcuni degli album successivi sembrava avesse un po’ smarrito la via, non tanto dal punto di vista qualitativo, quanto per il genere di proposta, mai del tutto definita, tra black, folk, gothic, doom, elettronica e quant’altro. In questa occasione comunque promuovono il nuovo “Alpha Noir” dal quale estraggono buona parte della setlist odierna, donando alla loro esibizione (specie la prima parte) una certa uniformità. Tuttavia quando si cimentano con brani dai primi album, peraltro tra i più acclamati ovviamente, lo stacco è netto. Considerazione che appare evidente per esempio quando propongono la celebre e gotica “Opium”, oppure sul convincente finale del concerto con il folk di “Atægina”, la darkeggiante “Vampiria”. In ogni caso concludono in bellezza con “Alma Mater” e la suggestiva “Full Moon Madness”, per la gioia dei presenti, uno show un po’ troppo discontinuo per i motivi evidenziati, anche se, considerati gli ultimi brani in scaletta, ben pochi dei fan irriducibili escono dal tendone delusi. Stando al programma ufficiale sarebbe il turno dei Ghost allo stage Valley, tuttavia veniamo informati del fatto che DANZIG, in programma come secondo headliner di giornata, ha chiesto scambiare il posto proprio con loro, anticipando l’esibizione. Chi ha avuto recentemente l’occasione di vedere dal vivo il cantante statunitense ha certamente avuto di che lamentarsi per le sue prestazioni non all’altezza delle aspettative per quella che, almeno in passato, era una delle voci più riconoscibili del genere. In questo caso però l’occasione è di quelle imperdibili data la presenza annunciata dello storico chitarrista dei Misfits, Doyle (Wolfgang Von Frankenstein), fratello minore del bassista Jerry Only (membro fondatore del celebre gruppo horror punk, assieme a Danzig), per uno show speciale, come vedremo. La prima parte di concerto, che vede protagonista l’attuale formazione del gruppo, è incentrata sui primi tre album dei Danzig, ad eccezione dell’opener “Skin Carver” tratta da “Circle Of Snakes” del 2004 ( unico brano recente proposto in questa occasione). Il pubblico reagisce con grande partecipazione a veri e propri cavalla di battaglia come “Twist Of Cain”, “Am I Demon”, “Blood And Tears”, “Do You Wear The Mark?” e l’acclamata “Dirty Black Summer”, merito di un’ottima prestazione della band (in primis di Tommy Victor, impegnato nel pomeriggio con i suoi Prong, perfettamente a suo agio con quei riff granitici) che riesce a ricreare quell’aura oscura e dannata che avvolgeva quei lavori. La differenza però la fa proprio Danzig cantando quasi come ai bei tempi, contro ogni più infausto pronostico. Arriva poi il momento anche per Doyle di fare il suo ingresso sul palco e rispolverare qualche classico dei MISFITS. Vedere il chitarrista dal vivo fa una certa impressione per la sua gigantesca mole (credetemi, vederlo in foto o video non rende l’idea…), tanto da non saper dire se sia più alto o muscoloso. Direi che mai nome d’arte fu più azzeccato, un po’ per la corporatura, un po’ per le movenze volutamente (?) goffe, sembra davvero il mostro di Frankenstein. Il suo modo di suonare la sei corde, poi, sembra quasi un’aggressione allo strumento e sui riff stoppati di “I Turned Into A Martian” sembra quasi prenderla a pugni. Tiene fede poi alla nomea di persona schiva e di non essere un gran parlatore e, infatti, ogni volta che porta a termine un brano scompare nel backstage fino all’inizio del successivo. Nel frattempo il gruppo ha snocciolato brani come “Vampira”, “Skulls” e la celebre “Last Caress” (proposta spesso anche dai Metallica dal vivo), che scatenano definitivamente un pubblico già più che adrenalinico. Arriva infine il momento dei saluti, ma pochi attimi dopo torna sul palco la band di Danzig per un encore particolarmente sentito con “Not Of This World” e soprattutto il classicone “Mother”. Il tempo a loro disposizione a quel punto è terminato, si riaccendono le luci e in molti cominciano a defluire dal tendone, quando a sorpresa tornano nuovamente con Doyle per un secondo encore devastante sulle note di “Bullet” e la sguaiata “Die, Die My Darling”, che suggellano uno show in un certo senso storico.
Un po’ stanchi, ma ancora su di giri, ci avviciniamo allo stage Altar dove sono appena saliti gli HYPOCRISY. La band capitanata dal cantante, chitarrista, tastierista e produttore Peter Tägtgren non ha bisogno di grandi presentazioni dato che ha saputo imporre nel corso degli anni il proprio moniker tra i gruppi fondamentali del death metal melodico scandinavo. Pur avendo commesso qualche mezzo passo falso nel corso della lunga e invidiabile carriera, dal vivo il combo svedese ha sempre offerto show incandescenti, anche a detta dei fan più esigenti. Il gruppo concentra buona parte dei propri sforzi sulla promozione del nuovo “End Of Disclosure”. Tra i brani presentati segnalo “Tales Of Thy Spineless”, con una sezione centrale da headbanging furioso, e “The Eye”, forte di un riffing work davvero poderoso, specie dal vivo. L’esibizione si mantiene in generale su livelli davvero confortanti (a parte qualche momento di stanca), anche grazie all’abilità del gruppo nell’inserire quei brani chiave proprio quando potrebbe calare l’attenzione, come “Necronomicon”, che, passatemi la battuta, risveglierebbe davvero i morti, la terremotante “Warpath” e il classico “Roswell 47”. Sul finire di uno show che ha senz’altro mantenuto fede alle aspettative, decidiamo di concederci un ultimo brindisi con un tipico vino rosso francese per tirare il fiato prima di recarci verso i due Mainstage per assistere all’ultima parte del concerto degli headliner di giornata: i VOLBEAT. Arriviamo quando il combo danese (non è un caso che il batterista sfoggi la maglietta di King Diamond) sta proponendo gli ultimi brani in scaletta (nella fattispecie “Doc Holliday”, “The Mirror And The Ripper” e “Pool Of Booze, Booze, Booza”) e notiamo subito una discreta partecipazione di pubblico, anche se non ai livelli dei giorni precedenti. Da questa manciata di tracce s’intuisce subito l’originalità della loro proposta, a cavallo tra thrash, heavy, rockabilly e riferimenti al far west e con buona probabilità la dimensione on stage è quella che più si addice ad un gruppo di questo tipo che fa anche dell’ironia una delle proprie armi migliori. Paradossalmente però il gruppo appare un po’ schiavo di se stesso e del genere creato e alla fine il rischio è quello di risultare ripetitivi sulla lunga distanza. Troppe poche però tre tracce per dare un giudizio definitivo, perciò mi auguro di poter rivedere presto e senza preconcetti un loro show per intero, anche perché non nascondo di essermi divertito e di aver apprezzato lo stravagante modo di cantare di Michael Poulsen ed i potenti riff che lui e Rob Caggiano (chitarrista statunitense che ha partecipato agli ultimi lavori degli Anthrax) macinano con una certa veemenza. A chiudere questa splendida tre giorni di concerti praticamente non stop ci pensano i GHOST, trovatisi un po’ fortunosamente sul secondo palco principale per lo scambio di posizione con Danzig di cui parlavamo prima. Gli spettatori che hanno assistito ai Volbeat si spostano in massa mossi da curiosità per un gruppo che al di là di ogni altra considerazione ha saputo far parlare di sé in tempi brevi, nel bene o nel male, anche per merito di un certo alone di mistero che avvolge l’identità di Papa Emeritus II ed i suoi Nameless Ghoul. Non sarà di certo un show del genere a sciogliere definitivamente il dubbio se si tratti di una band davvero talentuosa ed originale (pur con evidenti richiami a King Diamond/Mercyful Fate e gruppi come Blue Öyster Cult o Black Widow) oppure un gruppo di freddi calcolatori e volponi particolarmente esperti in marketing, più che geniali compositori. Quel che è certo è che il gruppo dimostra di saper maneggiare con grande professionalità i rispettivi strumenti, offrendo una prestazione persino più convincente e vigorosa che su disco. In occasione della loro esibizione nel corso dell’edizione del 2011, sempre all’Hellfest, durante la quale presentavano il debutto “Opus Eponymous”, avevano già dato conferme in tal senso. Da non sottovalutare, ovviamente, la tetra e magnetica figura di Emeritus II, nettamente in contrasto con il suo modo armonioso e leggiadro di cantare. Non si può non sottolineare, però, l’evidente differenza tra le composizioni più ruvide e tendenti al classico heavy metal, pur con ritornelli spesso ammiccanti, e le (talvolta) ruffiane tracce estratte dal nuovo “Infestissumam”, più tendenti al rock duro infarcito di melodie catchy che sembrano provenire direttamente dagli anni Sessanta/Settanta. Lasciamo l’ardua sentenza sulla bontà della loro proposta ai posteri, o perlomeno fino all’uscita del loro terzo album, che sempre con ragionevole dubbio potrà fornire una risposta definitiva e fare da spartiacque su quello che sarà il futuro del gruppo. In quell’occasione, in ogni caso, dovranno dimostrarsi più ambiziosi anche dal punto di vista compositivo, se non vorranno essere bollati come l’ennesimo gruppo furbo ed arrivista. Li attendiamo al varco, perciò.
Conclusioni
Dato che dei gruppi presenti nel bill di questa edizione dell’HELLFEST – che anche quest’anno conferma la sua unicità – abbiamo già parlato nel dettaglio, vorrei soffermarmi su alcuni aspetti collaterali, per tirare un bilancio di questo festival che ogni anno richiama pubblico da ogni angolo del globo, non solo dal continente europeo. Innanzitutto la forza di numeri da capogiro, che fanno trasparire l’efficienza (pur con qualche dettaglio ancora da mettere a posto) di una macchina organizzativa ormai ben rodata e consolidata nel corso degli anni. Più di 150 i gruppi scelti con cognizione di causa – tra reunion, show speciali e promettenti (o già affermati) giovani gruppi – per accontentare i gusti di tutti ed abbracciare un pubblico più ampio, riuscendo a far convivere tipi di audience in passato inconciliabili. Da questo punto di vista gioca senz’altro un ruolo importante la divisione degli stage in base al genere, caratteristica forse unica in ambito europeo. Circa 2000 il personale composto da cittadini o comunque dipendenti delle imprese locali che ad occhio e croce per almeno un mese è stato impiegato per mettere a punto la manifestazione in ogni singolo dettaglio, garantendosi una rendita fissa ogni anno. Superiori alle 110000 unità le singole presenze registrate complessivamente nei tre giorni di festival per il secondo anno consecutivo. Giusto in lievissimo calo rispetto alla passata edizione, forse per la minore presenza della domenica di cui abbiamo discusso in apertura. Una cifra impressionante che lascia pochi dubbi sulle enormi potenzialità economiche di un evento del genere, che la ridente e verdeggiante cittadina di Clisson, composta da 7019 abitanti (fonte Wikipedia), ha saputo cogliere e non vuole lasciarsi sfuggire, accogliendo sempre in maniera benevola una folla di metallari non facilmente gestibile, ma intenzionata più a divertirsi che a procurare danni e spesso rispettosa delle regole vigenti. Guardando alla realtà italica, oltre alle ricorrenti difficoltà gestionali, s’incapperebbe in migliaia di cavilli burocratici da fronteggiare, nella solita esigua minoranza che in qualche modo riuscirebbe a imporsi sulla maggioranza chiamando le forze dell’ordine alla minima avvisaglia, oppure perché (notare bene, per qualche giorno), apriti cielo, i suoni e il pubblico che affluirebbe nella relativa cittadina disturberebbero la quiete pubblica e quant’altro, perdendo di vista, a differenza dei “cugini” francesi, la straordinaria possibilità d’arricchimento per supermercati, botteghe artigiane, farmacie, fast food, benzinai (lo scorso anno, per esempio, tutte le pompe nei dintorni della città esaurirono le scorte, tale fu la richiesta), ristoranti e pizzerie, negozi di souvenir, birrerie, cantine, trasporti pubblici o privati ecc. e tutti i relativi dipendenti. Straordinaria poi la vetrina garantita ogni anno a tutte le band locali o più in generale nazionali (pur senza dover registrare particolari favoritismi), con la possibilità di farsi conoscere da un pubblico molto più ampio e di potersi confrontare con i mostri sacri del genere ed i propri beniamini (più o meno conosciuti), maturando un bagaglio d’esperienza impagabile. Infine vorrei mettere l’accento su una location suggestiva e funzionale il cui unico difetto è l’imprevedibilità meteorologica. Quasi maniacale, poi, e visivamente spettacolare la cura per ogni singolo ornamento all’interno dell’area concerti e del campeggio, con tutte le varie installazioni, le statue, i vari e giganteschi tendoni, i singoli palchi, l’attenzione nel mantenere efficienti ed asciutti i prati ed i camminamenti portando grandi quantità di ghiaione e fieno, posizionando nei punti strategici lunghissimi corrugati e fossetti per incanalare l’acqua e il grande lavoro di ruspe e schiacciasassi per creare una sorta di anfiteatro naturale così da permettere anche a chi si trovi ad una certa distanza dai palchi principali di vedere lo stesso il gruppo che si sta esibendo (oltre all’enorme schermo proprio nel mezzo dei due stage). Infine, suoni quasi sempre perfetti, anche per i gruppi minori della mattinata e puntualità quasi svizzera nel rispettare gli orari previsti. Tutti ingredienti che contribuiscono a rendere memorabile un evento a cui conviene partecipare almeno una volta nella vita.