Live Report: Hellfest Meets Knotfest 2019 20/06/2019
Report a cura di Davide Sciaky e Marino Tarabocchia
Foto a cura di Davide Sciaky
Il Knotfest nasce nel 2012, come suggerisce il nome fondato dagli Slipknot.
Il festival è un successo quasi immediato e, dopo aver saltato il 2013, diventa un appuntamento annuale che si espande anche in Giappone e Messico.
Nel 2016 il festival si allarga ancora diventando “Ozzfest Meets Knotfest”: il festival degli americani si unisce a quello di Ozzy Osbourne e gli headliner sono Slipknot e Black Sabbath.
Dopo anni di successi al festival non rimane che conquistare il nostro continente e lo fa con una formula molto furba, “Knotfest Meets Hellfest”: il festival si tiene il giorno prima del Hellfest nello stesso spazio del festival francese.
In questo modo il Knotfest può utilizzare una struttura già esistente e abbondantemente testata, attirando il pubblico che sarebbe andato al Hellfest, e probabilmente anche risparmiando parecchi soldi che permettono di vendere i biglietti per un evento con tanti gruppi di livello ad un prezzo contenuto (circa 60€).
Sui due Main Stage di Clisson si alternano cinque gruppi americani (sul Main Stage 1) e cinque europei (sul Main Stage 2) che con le loro ottime performance inaugurano quattro giorni di grande musica.
Ministry:
Il concerto comincia, quasi a sorpresa, nel sole cocente della metà pomeriggio: in un momento il logo del festival scompare dai megaschermi per essere sostituto dal nome della band, che sale subito senza cerimonie e dopo un cenno di saluto al pubblico già carico, comincia a suonare. Si inizia subito con una doppietta classica del 1988, ‘The Missing’ e ‘Deity’, impostando subito il ritmo incalzante e travolgente che, unito alla calura, scatena il pubblico: ovunque ci si giri, l’arena dell’Hellfest è coperta da teste in movimento. Il ritmo poi non accenna a rallentare: anche con il ristrettissimo tempo a loro disposizione e il palco ridotto a causa dello spazio occupato da tutta l’attrezzatura degli headliner, il quintetto americano riesce a giostrarsi e a dare agli spettatori 45 minuti di fuoco. Con visibile gioia e gratitudine del frontman Al Jourgensen, nel giro di soli sette pezzi il pubblico diventa esplosivo.
Il livello alto avviato dalle band precedenti viene mantenuto e la giornata si pone subito come l’ottimo inizio di quattro giorni da ricordare.
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Behemoth:
Un concerto dei Behemoth non delude mai: la band di Nergal è una macchina da guerra che negli ultimi anni è cresciuta a dismisura, concerti sempre più grossi, coreografie sempre più spettacolari.
Il concerto si apre con una registrazione di voci di bambini, ‘Solve’, l’opener dell’ultimo album, che precede l’arrivo dei polacchi che arrivano mascherati e partono cattivissimi con ‘Wolves of Siberia’. La setlist è abbastanza “standard” – i Behemoth non sono una band che cambia molto le scalette nell’arco di un tour – ma breve dato che il concerto dura solo 45 minuti. La durata dello show e la posizione nella giornata sono gli unici punti deboli dell’esibizione visto che Nergal e soci sono decisamente più spettacolari al buio. Per il resto grande energia e ottima scenografia – tra fuochi e maschere – che confermano ancora una volta quantoi Behemoth siano abili a mettere su un grande show.
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Papa Roach:
Quello dei Papa Roach è uno dei concerti che ci ha più stupito in questo festival.
Non avevamo alcuna aspettativa per la band americana, un po’ di stupore nel vederli inseriti tra Powerwolf e Amon Amarth, e generalmente l’idea che fossero un gruppo che aveva motivo di esistere solo quando il loro genere andava di moda una quindicina di anni fa. Questa opinione probabilmente era dovuta alla nostra scarsa conoscenza del gruppo, facciamo ammenda, ma vedendoli dal vivo abbiamo avuto modo di ricrederci. La musica dei Papa Roach è divertente, spensierata e perfetta in un pomeriggio in cui si sono esibite band dei generi più svariati. Jacoby Shaddix, il cantante, con i suoi più di 25 anni di esperienza sui palchi è abilissimo a portare dalla sua il pubblico e a far saltare a tempo tutti i presenti. Anche se il tempo a disposizione non è tanto, anche loro hanno 45 minuti sul palco, riescono a suonare ben 13 canzoni tra cui anche una cover (ben riuscita) di ‘Firestarter’ dei The Prodigy, ovviamente dedicata al recentemente scomparso Keith Flint.
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Powerwolf:
I Powerwolf hanno conquistato sempre più consensi negli ultimi anni, e basta vedere qualche minuto di un loro concerto per capire il perché. Grandi cori, fuochi, costumi di scena sono un’ottima ricetta per un concerto coinvolgente; l’ingrediente segreto è il cantante, Attila Dorn, che dirige abilmente il pubblico e, anche grazie al francese con cui parla tra una canzone e l’altra, conquista facilmente tutti i presenti. Anche il tastierista, Falk Maria Schlegel, ci mette del suo lasciando spesso lo strumento per correre su e giù per il palco a richiamare il pubblico. Il tempo a disposizione è di nuovo abbastanza breve, e i tedeschi si concentrano sull’ultimo album “The Sacrament of Sin” da cui suonano tre pezzi, per poi lasciare spazio a canzoni dei quattro album precedenti. ‘We Drink Your Blood’, ormai un classico per i Powerwolf, chiude il concerto ed è accolta con gran calore dal pubblico.
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Rob Zombie:
Il concerto di Rob Zombie, uno di quelli più attesi della giornata per molti, si presenta all’inizio un po’ lento. Complice forse lo spazio limitato sul palco, forse il caldo che si fa sentire sul pubblico dopo le prime cinque e più ore di concerti, sia la band che gli spettatori sembrano rallentati. La prima ‘Meet the Creeper’ non scatena la reazione che ci si aspetterebbe da una figura del calibro di Mr. Zombie. La situazione ovviamente non dura molto: seguono una raffica di classici quali ‘Superbeast’, ‘Dead City Radio’ e ‘House of a 1000 Corpses’, intervallate da un paio di cover – ‘Helter Skelter’ dei Beatles e un paio dei “suoi” White Zombie – e un assolo di chitarra degno del suo nome del maestro John 5, che in poco tempo riportano il clima della serata sul binario giusto. Ogni pezzo viene coadiuvato da scenografie psichedeliche sui molteplici schermi presenti sul palco, che donano profondità allo show facendo quasi sparire la sensazione opprimente del palco ridotto. Il frontman, nonostante sembri stanco – forse per il sole implacabile – intrattiene il pubblico e si muove senza sosta, fino ad arrivare ad abbracciare – letteralmente – la folla: scende dal palco e si alza sulle transenne, stringendo mani e cantando assieme al pubblico sull’orlo del delirio.La chiusura, poi, con la nota cover ‘Blitzkrieg Bop’ e, dopo un breve intermezzo, con la punta di diamante ‘Dragula’ lascia il pubblico pronto e scattante per la seconda metà della giornata.
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Amon Amarth:
Alcuni anni fa Johan Hegg usava dire durante i concerti “Urlate! Tanto è Death Metal, anche se non sapete i testi nessuno capirà niente comunque!”. Oggi non ce n’è bisogno, gli Amon Amarth hanno ormai un seguito enorme e il pubblico canta a memoria intere canzoni, nonostante il cantato gutturale possa renderne difficile la comprensione. Purtroppo all’aumento della popolarità è corrisposto, almeno per chi scrive, un appiattimento della musica degli svedesi che è sempre ascoltabile, anche piacevole, ma non particolarmente esaltante o memorabile da alcuni dischi a questa parte. Sul palco del Knotfest gli Amarth aprono con un classicone, ‘The Pursuit of Vikings’ che esalta tutti i presenti, e procedono a portare un po’ di violenza vichinga sul suolo francese. La setlist pesca a piene mani dagli ultimi dischi, ma i pezzi non memorabili di cui sopra acquistano una marcia in più grazie all’enorme energia di Hegg, e anche grazie ai fuochi che, sparati nei momenti giusti, esaltano il pubblico. Insieme ai pezzi più recenti gli svedesi sfoderano qualche classico come ‘Death in Fire e ‘Guardians of Asgaard’, e vediamo anche l’ormai immancabile Mjolnir gigante impugnato dal vocalist mentre canta ‘Twilight of the Thunder Gods’, ultima canzone dello show di questa sera.
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Slipknot:
Finalmente, gli headliner della serata: già dalla fine del concerto di Rob Zombie viene issato un telone col logo della band, a nascondere la preparazione del palco, che comincia ad esaltare i fan trepidanti. Il concerto comincia potentissimo da subito con ‘People = Sh*t’ e continua allo stesso modo. 17 pezzi più intro ed outro, tutti i grandi classici quali ‘Before I Forget’, ‘Vermilion’ e ‘Duality’ ma anche i singoli del nuovo disco ‘Unsainted’ e ‘All Out Life’, non danno nemmeno un momento di tregua. I membri sono attivi sul palco, corrono e saltano e si dimenano in uno spettacolo di luci e immagini frenetiche. Su tutti colpisce Clown, Shawn Crahan, che a solo un mese dalla terribile tragedia della morte della figlia è energico come sempre: un grande professionista e grande performer. La nuova scenografia è grossa, stravagante e coadiuvata da abbondanti fuochi fa un ottimo effetto; abbiamo modo di vedere le nuove maschere della band, tra cui quella tanto discussa di Corey Taylor che effettivamente non ci convince troppo, ma questo toglie poco alla performance. Parlando di performance, notevole anche l’esibizione di Taylor che recentemente era stato operato alle ginocchia, cosa che però non lo rallenta minimamente ed il frontman è inarrestabile sul palco. Nell’insieme il concerto tiene fede alla fama del gruppo, con un livello qualitativo alto e capace di intrattenere anche chi non è un fan sfegatato degli Slipknot.
Sabaton:
La chiusura della serata, seguendo lo schema scelto per il festival (un alternarsi tra band europee sul secondo palco e band americane sul primo), tocca al quinto gruppo europeo, un gruppo che si è visto negli ultimi anni crescere esponenzialmente grazie a uno stile personale e un tema dalle mille sfaccettature : i Sabaton portano la guerra sul palco del Knotfest con il loro ormai noto miscuglio di luci, effetti pirotecnici e scenografie in tema (tipo il carro armato in grandezza naturale su cui è sistemata la batteria). Il concerto sembra presentarsi subito bene: ritmi serrati, fuoco e fiamme e la band in piena forma che salta tra filo spinato e sacchi di sabbia. Ci vuole poco però perché si comincino a notare alcune pecche: il palco alto, unito alla scenografia rappresentante i muri di una trincea, rende difficile vedere il gruppo durante lo show a chi è più vicino al palco; inoltre, sembra ci sia qualche problema alla voce, che nelle prime due canzoni si sente a malapena. Finiti i due pezzi iniziali, però, viene svelato il problema della voce: il cantante e cabarettista Joakim Brodén ha problemi di salute e non riesce a cantare al massimo delle sue capacità. Chiede scusa al pubblico, rammaricandosi anche un po’ per la posizione di “titolo di coda del festival”, a detta sua, e dice che ce la metterà tutta, facendosi anche aiutare dai suoi fedeli compagni di squadra. Questa situazione crea un concerto molto diverso dal solito: la quasi assenza del frontman, che di solito ruba senza fatica l’attenzione del pubblico, concede ai vari membri del gruppo l’occasione di brillare ed essere apprezzati come dovrebbero nei vari momenti del concerto. Inoltre al terzo pezzo sale sul palco un coro militare, facendo dimenticare un po’ la mancanza di Brodén, con ogni membro a rappresentanza di una diversa armata che combatté la Grande Guerra: essendo vicina la pubblicazione del nuovo album “The Great War“, gli svedesi portano sul palco tutti i tre singoli tratti dal nuovo record, ‘Bismarck’, ‘Fields of Verdun’ e ‘The Red Baron’. Queste novità fanno capire quanto sia seguito il gruppo dalla sua fanbase – nonostante l’ultima sia uscita da poco più di una settimana, l’intera arena canta senza esitazione. Nonostante la presenza parziale del frontman e l’evidente stanchezza della folla, il fresco della notte e l’abilità degli artisti mantengono alto il morale; un equilibrato miscuglio di pezzi vecchi e nuovi, lo spettacolo pirotecnico rinnovato e il buon uso dei megaschermi suppliscono alle varie problematiche insorte nella serata.
Una buona chiusura della serata, il primo Knotfest europeo si può dire un successo.
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