Live Report: Jethro Tull a Riolo Terme (RA)

Di Riccardo Angelini - 7 Settembre 2009 - 19:01
Live Report: Jethro Tull a Riolo Terme (RA)

Una piccola cittadina dell’Appennino, un festival locale all’insegna della buona cucina di paese, un parchetto disseminato di chioschi colorati e luminose baracchine. Non è esattamente lo scenario in cui ci si aspetta di trovare una band di fama internazionale, con decine di album e un seguito di milioni di fan alle spalle. Ma questo è proprio il Frogstock 2009 e quelli sul palco sono proprio i Jethro Tull. Ian Anderson e soci sfidano l’anagrafe, le trafficate strade emiliano-romagnole di fine agosto e il meteo sfavorevole, per calcare spavaldi i palchi di Riolo Terme. Tanto spavaldi da fermare persino gli dei delle tempeste, che nel frattempo scatenano pioggia e fulmini a volontà sui paesi limitrofi, ma si astengono dal bersagliare gli aedi inglesi e il loro pubblico. Un pubblico che magari non potrà competere con le distese di fan che in passato hanno accolto e ancora accolgono i Jethro Tull durante le loro date più importanti, ma che compensa più che abbondantemente in calore e passione. Considerando la collocazione geografica e temporale, per il Frogstock il successo si può considerare completo. Ma veniamo alla musica…

Dopo l’apertura affidata ai volonterosi Mamamicarburo – band emiliana di rock anni ’90 con cantato in italiano – il menestrello scozzese sale sul palco, salutato da applausi scroscianti, insieme ai veterani Martin Barre (chitarra) e Doane Perry (batteria), e ai più recenti acquisti David Goodier (basso) e John O’Hara (tastiere): quest’ultimo pressoché un ragazzino se confrontato al resto della band. L’età media dei musicisti supera di quel po’ la sessantina, ma almeno Ian Anderson sembra non accorgersene. Bando alle ciance, c’è un anniversario da festeggiare: quarant’anni tondi tondi fa usciva ‘Stand Up’, secondo stantuffo degli allora giovani Jethro Tull e primo grande successo della band. Allora nessuno parlava ancora di progressive: tutto era blues, jazz, rock e, naturalmente, folk. Tocca così al classicone ‘Nothing Is Easy’ aprire le danze con la classe dei vecchi tempi. Gli ingranaggi della band sono ben oliati, ma gli occhi sono tutti per lui: come sale sul palco Anderson prende subito il possesso della scena e detta i tempi dei pezzi a venire. Il dominio dei primi due album, ‘This Was’ e ‘Stand Up’, resta pressoché incontrastato fino a un altro pezzo forte degli anni verdi: ‘Bourée’, celeberrimo riadattamento della Suite in Mi Minore per liuto di Bach – uno dei momenti più alti del concerto, senza dubbio. In mezzo molti dei primi esperimenti rock/blues/folk – una rimaneggiata ‘A New Day Yesterday’, ‘Beggar’s Farm’, la ridanciana ‘Jeffrey Goes To Leicester Square’ (introdotta da un simpatico siparietto di Anderson) – e un po’ di jazz, con la cover di ‘Serenade To A Cockoon’ di Roland Kirk. La mosca bianca è un’inattesa ‘Rocks On The Road’ più carica della versione registrata su ‘Catfish Rising’.

Si arriva al giro di boa con quello che Ian Anderson definisce orgogliosamente “il peggior pezzo che io abbia mai scritto”, con tanto di “hippie vegetarian freakout guitar solo” dell’inossidabile Martin Barre. Ammesso e non concesso che la presentazione fosse condivisibile, qualcuno potrebbe chiedersi: perché mai includere un pezzo simile in una scaletta già sacrificata se davvero è così scarso? “Semplice” risponde Ian sornione “perché in confronto a questa, tutte le altre vi sembreranno bellissime!”. E vien da dire che forse non ce n’era nemmeno bisogno, perché di qui in avanti questi cinque vecchietti stenderanno tutti con un pletora di classici e straclassici. Dopo la già citata ‘Bourée’ i toni restano stellari con ‘Mother Goose’, perfetta nelle ritmiche, e la magnifica ‘Heavy Horses’, una delle rare concessioni alla trilogia folk del ‘77-‘79. Fulmineo ritorno al futuro con ‘Farm On The Freeway’, uno dei fiori all’occhiello di ‘Crest Of A Knave’, l’album che ormai vent’anni orsono strappò il Grammy del hard n’ heavy ai Metallica di ‘…And Justice For All’. Breve pausa. Anderson presenta l’antesignana ‘Dharma For One’ annunciando rassegnato che non sarà possibile impedire a Doane Perry di prodursi in un assolo di batteria non richiesto. “Fortunatamente non durerà ore come negli anni settanta: solo pochi minuti, anzi, secondi” insiste Ian “ma a voi sembreranno ore lo stesso”. La gente ride, ma l’ilarità s’interrompe non appena il buon vecchio Doane inizia a pestare le pelli. Basta l’espressione sbigottita di un ragazzino con la maglietta dei Napalm Death a spiegare tutto. Perry è in forma. Feeling, potenza e tecnica: i fanciulli sono pregati di prendere appunti, qui c’è solo da imparare.

Dopo gli ottimi interventi solisti del nuovo acquisto Godier (uno che sembra suonare nei Jethro Tull da sempre) e Barre (poco spettacolare, ma con un tocco sopraffino) il finale si avvicina. Si prepara l’escalation, aperta dall’irrinunciabile ‘Thick As A Brick’ – non tutta, ovviamente – salutata dal pubblico con gran calore. La voce di Anderson, si capisce, non è più la stessa di una volta, ma il folletto scozzese compensa ampiamente con il suo repertorio di sguardi, balzelli e giravolte. Non male, per un arzillo sessantaduenne. Il brano concepito per farsi beffe degli stereotipi progressive e del progressive diventato esso stesso simbolo imperituro, incanta con le sue melodie d’altri tempi, chiudendosi in una nota di letizia. A spazzarla via ci pensa ‘My God’: uno dei pezzi più oscuri, violenti e angoscianti che la storia del rock abbia mai concepito. Infrangibile la catena d’acciaio stretta con ‘Aqualung’, vero manifesto della band, che in un cuore parimenti oscuro inietta una potentissima scarica di adrenalina. Ian Anderson urla la sua rabbia direttamente nel flauto, dimostrando che gli anni avranno portato le rughe e qualche acciacco, ma la classe non gliela porterà mai via nessuno. Si spengono le luci e qualche incauto già si prepara a levar le tende: ma c’è spazio ancora per un breve encore, con la strepitosa ‘Locomotive Breath’ a completare la triade estratta dal capolavoro del ’71. Ora è finita davvero. Applausi, ci mancherebbe altro.

Riccardo Angelini

Setlist:

Nothing is Easy
A New Day Yesterday
Beggar’s Farm
Serenade to a Cuckoo
Rocks on the Road
Jeffrey Goes to Leicester Square
Back to the Family
Bourée
Mother Goose
Heavy Horses
Farm on the Freeway
Dharma for One (incl. Count the Chickens)
Thick as a Brick
My God
Aqualung

Encore:

Locomotive Breath