Live Report: Metalcamp 2009 a Tolmino (Slo) [Parte II]
Introduzione
(a cura di Pier Tomasinsig)
Domenica: se nel giorno precedente il tempo atmosferico era stato ancora relativamente clemente, a partire da oggi una pioggia pressochè costante (e molto fastidiosa) è destinata ad accompagnare le nostre giornate fino alla fine del festival. Ciò, se pure non ha impedito alle esibizioni in programma di tenersi più o meno regolarmente, di certo ha un po’ inficiato la possibilità di godere appieno di tutte le possibilità che un evento come questo, unico nel suo genere, offre. Ricordiamo infatti che uno dei principali punti di forza del Metalcamp è costituito dalla sua splendida collocazione geografica, in una verde vallata tra i monti attraverso cui scorre il fiume Isonzo, agevolmente raggiungibile in pochi minuti per godersi (tempo permettendo, appunto) una rinfrescante birra sulle rive, rilassarsi al sole o, per i più temerari, fare un tuffo tra i gelidi flutti.
Il running order di oggi, quasi del tutto orientato ai generi estremi, sulla carta è senz’altro meritevole di interesse, con Amon Amarth e Dimmu Borgir a dividersi il ruolo di gruppo di punta (almeno secondo il programma iniziale, in realtà i norvegesi sono slittati a fine serata). Anche il resto della bill presenta nomi di tutto rispetto quali Graveworm, Legion Of The Damned, Lamb Of God e Deathstars; peccato solo per la defezione dei rumeni Negura Bunget, il cui concerto, originariamente previsto per domenica, verrà spostato all’inizio del giorno successivo.
Pare doveroso tuttavia segnalare, pur nel contesto di un evento complessivamente molto ben organizzato ed attento alla tutela dell’ambiente qual’è il Metalcamp, che il problema pioggia, peraltro del tutto prevedibile considerate le caratteristiche climatiche della zona, non è forse stato gestito in modo ottimale. Ci si riferisce in particolare all’insidioso mare di fango in cui l’intero festival si è trasformato dopo un paio di giornate piovose. Se il suddetto fango poteva già di per sè rappresentare un problema nella zona concerti (tardiva e insufficiente la posatura di paglia per rendere almeno un po’ più camminabile la zona in questione), la situazione nell’area adibita a camping è diventata presto insostenibile.
Il problema principale ha riguardato le “vie di fuga” dal campeggio: impossibile percorrerle con l’automobile per chiunque si trovasse nella necessità di lasciare il Metalcamp, salvo voler affondare nel fango per trenta e più centimetri ed ivi rimanere bloccati. Per la verità, a partire da lunedì, l’organizzazione ha provveduto a chiamare un privato munito di fuoristrada, per trainare a forza fuori dalla melma i veicoli dei malcapitati metalheads; malcapitati in quanto a costoro sarebbe poi stato richiesto di pagare per tale servizio (certamente già remunerato dall’organizzazione stessa), non potendosi, data la situazione, che fare buon viso a cattivo gioco.
A prescindere da simili rilievi, resta il fatto che il Metalcamp si è confermato anche quest’anno come uno degli eventi più interessanti, peculiari e divertenti che la stagione concertistica abbia da offrire; non dubito che anche quelli che erano alla loro prima esperienza a Tolmino, nonostante i disagi causati dal maltempo, saranno lieti di tornare per le prossime edizioni.
Domenica 5 luglio 2009
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Hatred
Graveworm
Just Swallow (2° stage)
Sonic Syndicate
Legion Of The Damned
Lamb Of God
Amon Amarth
Deathstars
Dimmu Borgir
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Hatred
(report a cura di Nicola Furlan)
(foto a cura di Daniele Peluso)
Thrash contaminato di bay area alla Testament per i tedeschi Hatred, opener di giornata con l’arduo compito di distogliere i presenti dalla fastidiosa pioggia che inizia a umidificare nuovamente il già paludoso pit del main stage.
Grazie a degli ottimi suoni, potenti e puliti, il combo coinvolge i pochi spettatori accorsi con una setlist improntata sui brani tratti dall’ultimo full-length del 2008 “Madhouse Symphonies”, di cui colpiscono in particolare la title track e Follow The Leader. Bravo il cantante, ma non in grado di sopperire alla mancanza di identità della proposta fatta di sole sezioni ritmiche, devastanti quanto si vuole, ma prive del riff magico in grando di rendere alchemica la prestazione.
Se poi si constata la totale mancanza di soli allora il giudizio non può che fermarsi alla mera sufficienza. Certo la proposta è orientata unicamente far scatenare il pogo dei presenti, ma non riuscirà mai a gratificare la sete di qualità di chi cerca, nei songwriting, quel quid in più in grado di andare oltre l’ordinario headbanging. Non dozzinali, ma molto molto ordinari.
Graveworm
(report a cura di Roberto “Strangel” Cavicchi)
(foto a cura di Daniele Peluso)
La band sud-tirolese, a causa dei ritardi accumulati per il maltempo, sale sul palco subito dopo gli Hatred, quando invece avrebbero dovuto suonare i Negura Bunget (e non sarà l’ultimo stravolgimento della giornata). Forte dell’ultimo album “Diabolical Figures”, uscito a giugno, il gruppo dopo una breve intro sinfonica inizia la sua performance con suoni mediocri (la voce in particolare si sente davvero poco) ma che verranno corretti durante il concerto.
La loro proposta di black sinfonico/gotico ha un buon impatto ed i nostri suonano con grinta, ma la loro presenza sul palco si riduce all’headbanging e nulla di più, col solo frontman Stefano Fiori che se la cava davvero bene, parlando col pubblico ed incitandolo ad un pogo finalizzato all’uccisione del “blue fish”, pallone da spiaggia a forma di delfino portato da alcuni spettatori e fatto volare sopra la folla, invero uno dei momenti più divertenti del concerto.
Purtroppo il pubblico, discretamente numeroso, non si dimostra molto reattivo alle incitazioni del simpatico frontman, scatenandosi solo quando quest’ultimo chiede a gran voce un “wall of death” ben riuscito ma non di enormi dimensioni. In definitiva un buon concerto ma nulla di più, la giornata riserverà esibizioni più interessanti.
Just Swallow (2nd Stage)
(report a cura di Nicola Furlan)
(foto a cura di Daniele Peluso)
Particolare attenzione ha destato la discreta presenza di pubblico davanti al second stage in occasione dell’esibizione dei “padroni di casa” Just Swallow. Sebbene oberati di lavoro, fradici di pioggia come non mai, ci siamo così recati ad assistere alla loro esibizione.
La band slovena ha suonato brani che saranno contenuti nel primo full-length attualmente in lavorazione. Lo show, valido dal punto di vista dell’interazione coi presenti, ha messo in luce la doppia faccia della medaglia con cui si vende la loro proposta. Dal punto di vista delle melodie non c’è nulla da dire: i ritornelli sono catchy al punto giusto e l’armonia di base è assai godibile.
Anche le sezioni soliste sono un punto forte del songwriting degli sloveni, ma le ritmiche non sono sufficientemente incalzanti per indurre il movimento nel mosh-pit. La band è quindi sulla strada giusta per far bene, ma la conferma dovrà avvenire ascoltando i restanti nuovi brani. I pezzi ascoltati queta sera, ahimè, ancora non convincono del tutto.
Sonic Syndicate
(report a cura di Nicola Furlan)
(foto a cura di Daniele Peluso)
Avevo iniziato a seguirli nel 2005, anno di uscita del debutto “Eden Fire” e non mi avevano particolarmente colpito. Ci ho riprovato due anni dopo con il tanto acclamato e pubblicizzato “Only Inhuman”, ma ho avuto la conferma che non valeva la pena perder più di tanti Euro e tempo dietro ai Sonic Syndicate, autori di un genere che, oltre a cavalcare la melodic/death-wave del momento, si è andato sempre più uniformando a standard d’immagine più che alla sana competizione qualitativa con i grandi maestri del melodic death metal scandinavo.
Ma è il palco il giudice supremo che nel caso in questione ha espresso una più che palese condanna. Le canzoni non hanno coinvolto e sono state prive di mordente, così come su disco, anche on-stage; nulla è stato lasciato a quel briciolo di interpretazione in grado di rivalutare la proposta musicale della combriccola capitanata da un Richard Sjunnesson ben poco convincente.
Aggiungiamoci anche pochissimi assoli e di bassa qualità, batteria ripetitiva, melodie ammuffite dal tempo e qui rivisitate con un mielato retrogusto ‘pop’… insomma proprio non ci siamo. Una giustificazione per chi ha presenziato sotto il palco forse c’è. Vedere da vicino i paraurti della bella bassista Karin Axelsson, poco utilizzati a dir il vero…movimento e colpi da assorbire là sotto, nel fangoso mosh-pit, ce ne sono stati davvero pochi.
Setlist: Encaged, Jailbreak, Flashback, Denied, Aftermath, Power Shift, Contradiction, Prelude to Extinction, Jack of diamonds, Blue Eyed Friend.
Legion Of The Damned
(report a cura di Nicola Furlan)
(foto a cura di Daniele Peluso)
Gli olandesi Legion of the Damned sul palco sono delle vere macchine da guerra. Per restare in tema: una legione di incontrollabili pazzi! Suonano bene, si muovono anche meglio e sono supportati da uno staff di fonici in grado di amplificare le già potenti onde sonore che erompono da un songwriting fatto di death metal moderno intriso di groove, accelerazioni stile neo-thrash e graffianti linee vocali.
La setlist ha pescato un po’ da tutto il repertorio (quattro full-length all’attivo dal 2005 ad oggi) toccando alcuni tra i pezzi più significativi dell’intera discografica quali Son Of The Jackal, Bleed for me, immancabile must d’ogni show, fino a Legion of the Damned, classico posto ad inizio setlist per scaldare i fan. Unica ombra sulla luminosa deflagrazione messa in atto dai nostri è la monotonia che questo tipo di sound induce. Alla lunga può infatti risultare impegnativo farsi investire da un costante e violento fiume di musica.
Il concerto ha quindi deliziato gli avezzi a quel massacro fatto di pogo e assordante violenza fatta musica estrema. Per gli altri un ottimo accompagnamento musicale all’abbuffata di birre in riva al fiume, brillante di quel sole che ben poche volte in questi giorni ha fatto capolino nei cieli della vallata di Tolmino.
Setlist: Sermon of Sacrilege, Legion Of The Damned, Son Of The Jackal, Enslaver of Souls, Taste of the Whip, Bleed For Me, House of Possession, The Final Godsend.
Lamb Of God
(report a cura di Daniele Peluso)
(foto a cura di Daniele Peluso)
Adrenalina allo stato liquido, fatta di sudore e di una esagitazione senza limiti; questo in buona sostanza il condensato della performance dei Lamb of God. La band di Richmond ha raso al suolo il parterre del Metalcamp in un’ora circa di spettacolo tutto energia e ritmo, nel quale il tarantolato frontman Randy Blythe ha condiviso con il pubblico acclamante e completamente immerso nello spettacolo, una carriera musicale di quasi vent’anni.
Acclamati prima dell’inizio, applauditi alla fine dello show, inframmezzati da un continuo mosh-pit che ha reso la zona di fronte al palco un campo di battaglia fatto di tonnellate di fango, “sangue” ed eccitamento. I Lamb of God non si esimono dal dare al pubblico quello che chiede, e lo martellano a cento all’ora, fornendo il giusto accompagnamento alla gente che veniva letteralmente fatta a pezzi all’interno del magico circolo.
Mark Morton e Willie Adler si sono spartiti il lavoro in maniera eccellente, mentre alle pelli Chris Adler ha dato davvero il massimo, preciso e puntuale in ogni momento dello spettacolo. Non c’è che dire, quando il festival inizia a calare i pezzi da novanta, il risultato si vede e si sente subito…
Amon Amarth
(report a cura di Pier Tomasinsig)
(foto a cura di Daniele Peluso)
Dire che gli Amon Amarth sono ormai dei veterani del Metalcamp, con la bellezza di tre presenze sul main stage nell’arco delle ultime quattro edizioni, sarebbe indulgere ad un eufemismo. A quanto pare gli organizzatori ripongono non poca fiducia nel combo svedese, evidentemente ben consapevoli della loro bravura dal vivo e del loro seguito, che diventa sempre più nutrito di album in album. Fiducia assolutamente ben riposta, perchè anche quest’anno Johan Hegg e soci hanno dato vita ad uno show di prim’ordine.
Il concerto inizia sotto una pioggia che, dopo aver battuto la vallata per quasi tutto il pomeriggio, non sembra ancora intenzionata a cessare. Il pubblico è tuttavia molto numeroso e resiste stoicamente, senza mostrare particolari segni di insofferenza. Si parte sulle note di Twilight Of The Tunder God, opener dell’omonimo ultimo album, che scatena da subito l’entusiasmo dei presenti. I suoni, forse anche a causa dell’elevato tasso di umidità, sono un po’ovattati e impastati nelle retrovie, mentre risultano più puliti e nel complesso molto più soddisfacenti nella zona compresa tra palco e mixer, corroborati da volumi elevati quanto basta per un concerto di questo tipo, indubbiamente votato alla potenza e all’impatto.
Si prosegue sulle note di Free Will Sacrifice e Asator, che confermano l’ottima impressione iniziale: la band è precisa, compatta ed affiatata in tutti i reparti. Mikkonen e Söderberg, convincenti sia in fase ritmica che nei soli, creano un vero e proprio muro di chitarre, ben supportati dal drumming martellante dell’affidabile Fredrik Andersson, mentre Hegg, imponente e carismatico condottiero dell’orda del Monte Fato, tiene il palco con maestria, forte della sua indubbia presenza fisica e del suo vocione profondo e brutale. Insomma, i cinque di Stoccolma confermano ancora una volta on stage di essere la macchina da guerra che tutti abbiamo imparato ad amare, offrendo una prestazione dinamica e muscolosa, all’insegna dell’headbanging, che non manca di riscuotere il giusto apprezzamento da un pubblico nutrito e bellicoso.
La scaletta proposta è chiaramente pensata per non permettere mai al tasso di adrenalina di scemare, tra Varyags of Miklagaard, Runes To My Memory, Thousand Years Of Oppression e la tamarrissima quanto deflagrante Guardians Of Asgard. Vengono privilegiati gli album più recenti, i cui pezzi, per la verità davvero convincenti in sede live, si adattano maggiormente all’attuale timbro vocale di Hegg -molto più cavernoso che in passato- rispetto ai classici. La pioggia sembra aver deciso di concedere un po’ di tregua e si passa ad un altro estratto da “Twilight Of The Thunder God” con Live for the Kill, seguita da Fate Of Norns e dalla sempre apprezzatissima e trascinante Victorious March, purtroppo unica concessione allo storico album d’esordio, per poi concludere con un trittico finale di sicuro effetto: Pursuit Of Vikings, Cry Of The Blackbirds e l’immancabile Death in fire, dove gli svedesi scatenano fuoco e fiamme. Letteralmente, visto che il palco è bombardato da ogni parte da vampate ed esplosioni di sorta, secondo il copione dello show pirotecnico cui i nostri ci hanno ormai abituato. Per tornare alle considerazioni iniziali, gli Amon Amarth saranno forse un po’ inflazionati sul palco del Metalcamp, ma finchè continueranno a regalare esibizioni come quella di stasera non sarà certo il sottoscritto a dolersene. Tra i migliori in assoluto.
Deathstars
(report a cura di Roberto “Strangel” Cavicchi)
(foto a cura di Daniele Peluso)
In seguito ad un’altalena di ritardi il concerto degli svedesi inizia quando ormai è notte inoltrata, dopo un soundcheck veramente breve. I Deathstars Si presentano sul palco col loro classico look che ricorda più che vagamente le vecchie divise dell’era nazista e con movenze coordinate chiaramente provate e riprovate prima del concerto. Un aspetto esteriore così marcato sarebbe del tutto inutile, anzi fastidioso, se proposta ed esecuzione non fossero all’altezza del nome che il gruppo si è fatto negli anni; fortunatamente non è stato così ed i Deathstars hanno dato vita ad un concerto davvero notevole.
La loro proposta di industrial/gothic/metal porta un’atmosfera inquietante e perversa tra il pubblico fortunato (ma poco numeroso) accorso a vedere la band. Dopo un inizio concerto davvero poco impressionante gli svedesi ingranano la marcia giusta e propongono sia pezzi presi dal nuovo studio album uscito proprio quest’anno “Night Electric Night”, come Chertograd e Death Dies Hard, che altre loro più famose hit quali Tongues, Blitzkrieg, New Dead Nation ed altre ancora.
La band, nonostante -come già detto- sia molto impostata, sul palco si comporta davvero bene, con una menzione speciale per il bassista e seconda voce Jonas Kangur, davvero inquietante e carismatico, mentre il frontman Andreas Bergh, che porta quasi all’eccesso i suoi atteggiamenti effeminati anche parlando col pubblico, durante le canzoni con la sua voce particolarissima e molto profonda è più incisivo ed efficace che mai, sia nei frangenti cantati con voce pulita che in quelli in scream.
Il pubblico, ben affiatato, risponde a tutto ciò con un buon entusiasmo anche se la stanchezza comincia a farsi sentire per tutti. Un concerto davvero efficace che conferma i Deathstars come una delle nuove leve più promettenti della scena metal.
Dimmu Borgir
(report a cura di Roberto “Strangel” Cavicchi)
(foto a cura di Daniele Peluso)
Sono le 2.30 del mattino ed il ritardo sulla tabella di marcia è ormai mostruoso quando, dopo un soundcheck velocissimo proprio a causa dell’orario, una voce femminile ci annuncia che il motivo di tanti disagi è da riscontrarsi nello smarrimento dei bagagli della band, finiti in un altro aeroporto, per cui gran parte dell’equipaggiamento si trova da tutt’altra parte, ma ci rassicura dicendoci che nonostante tutto la leggendaria band di Oslo è pronta a prendere a calci nel sedere tutti coloro che hanno pazientato così a lungo per vederli; la speaker non mente, infatti preannuncio che, nonostante tutto, i Dimmu Borgir hanno proposto un concerto davvero coinvolgente ed intenso.
I difetti principali sono solo due: la durata troppo breve, poco meno di un’ora (invece di un’ora e mezza come avrebbe dovuto essere secondo i programmi), ed i suoni, definibili semplicemente come “travolgenti”: il volume era così alto che il concerto è stato ascoltato comodamente anche dall’area campeggio. Allorchè Shagrath e soci salgono sul palco possiamo notare subito la mancanza del loro materiale: le tastiere di Mustis sono incredibilmente spoglie, e gli unici ad essere dotati di un costume di scena sono lo stesso Shagrath e Galder, mentre gli altri si presentano con blue jeans e t-shirt del Metalcamp. A vederli sembrano quasi una band di debuttanti, mentre il palco è privo di tutti gli orpelli scenici e dei figuranti a cui siamo stati abituati, e a parere di chi scrive questo è sicuramente un vantaggio: priva di qualsiasi coreografia la band ha puntato tutto sulla musica, dando vita ad un concerto grintoso e feroce.
I Dimmu Borgir attaccano proponendo fin da subito Spellbound (by the devil), veramente insolita come opener, a cui seguono The Serpentine Offering e The Chosen Legacy, tratte dall’ultimo album “In Sorte Diaboli”. Proprio in The Serpentine Offering è chiaro quella che è la maggior pecca nei suoni: la voce di Vortex è ad un volume drammaticamente basso rispetto al resto degli strumenti e si sente a stento, veramente un peccato. La band suona con grinta e passione, probabilmente per farsi perdonare di tutti i disagi causati, e continua a snocciolare classici come Progenies of The Great Apocalypse, Puritania, The Sacrilegious Scorn, Mourning Palace, mentre uno Shagrath insolitamente simpatico ed energico gioca e scherza col pubblico, incitandolo e facendolo cantare insieme a lui, con un’ottimo riscontro da parte degli spettatori che si scatenano, cantano e pogano in risposta a tanta energia ed entusiasmo.
Purtroppo a causa della breve durata del concerto molti classici vengono tagliati dalla scaletta, e questa è forse l’unica cosa che lascia davvero l’amaro in bocca, ma nonostante i pochi difetti ai presenti resterà il ricordo di un concerto davvero straordinario ed unico, a chiusura di una giornata lunga e faticosa a causa del maltempo.
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