Live Report: Metalcamp 2009 a Tolmino (Slo) [Parte III]
Introduzione
(a cura di Pier Tomasinsig e Daniele Peluso)
Che altro resta da dire su questo festival che già non sia stato detto nei report delle giornate precedenti? Collocazione geografica peculiare ed evocativa, prezzi abbordabili, buona quantità (e qualità) di merchandising, partecipazione entusiasta da parte di ragazzi e ragazze provenienti da tutta Europa, che giungevano singolarmente o in grandi comitive, organizzazione attenta e nel complesso efficiente… tutte caratteristiche che rendono il Metalcamp un’esperienza meritevole di essere vissuta.
Sopravvissuti a una notte di umidità e reumatismi, sfiancati dai continui mutamenti d’umore del tempo, assetati di buona musica e di ettolitri di birra bionda e schiumosa, ci addentriamo nei meandri del quarto giorno di un Metalcamp ormai irrecuperabilmente fangoso e fradicio fino alle ossa.
Lunedì 6 luglio 2009
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Negura Bunget
Vader
Destruction
Napalm Death
Dragonforce
Hatebreed
Down
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Negura Bunget
(report a cura di Pier Tomasinsig)
(foto a cura di Daniele Peluso)
In apertura di giornata troviamo i Negura Bunget, una delle realtà più interessanti dell’attuale panorama estremo dell’est Europa. Inizialmente prevista per domenica, l’esibizione dei Rumeni è stata spostata al giorno successivo per vari problemi di runnig order. Certamente la posizione in scaletta e lo scarso tempo a disposizione non hanno giovato alla resa live dei nostri, che comunque si è attestata su livelli ben più che decorosi.
La formazione con cui i Negura Bunget si presentano oggi sul palco del Metalcamp è ampiamente rimaneggiata rispetto all’ultima volta che il sottoscritto aveva avuto il piacere di vederli in quel di Lubiana; in seguito a divergenze di vedute tra i tre membri “storici” della band, il drummer Negru, il frontman Hupogrammo’s Disciple e il bassista/chitarrista Sol Faur (Sporcatu) , questi ultimi hanno deciso di lasciare la band, dedicandosi al progetto Dordeduh, mentre Negru ha proseguito il percorso con nuovi innesti. Per ovvie ragioni c’era pertanto una certa curiosità di assistere all’esibizione dei “nuovi” Negura Bunget da parte degli estimatori del loro pagan-black progressivo e dai forti connotati etnici (non molti per la verità rispetto al pubblico presente, per la maggior parte ignaro della proposta dei nostri).
Il concerto, incentrato su brani tratti dagli ultimi due full-length “N’crugu Bradului” e “OM”, attira da subito l’attenzione degli intervenuti grazie ad una sapiente miscela di atmosfere ipnotiche e sognanti e passaggi black metal freddi e feroci, nonchè alla presenza di tutta quella folkloristica strumentazione di contorno cui i nostri ricorrono in sede live per riproporre fedelmente i contenuti degli studio album: xilofono, flauto di pan, tamburi, una sorta di tavola in legno percossa con dei martelletti e un impressionante quanto voluminoso corno di bambù. L’esecuzione è precisa e convincente in tutti i reparti, supportata da suoni più che discreti: i “Negura Bunget 2.0” dimostrano capacità tecniche di tutto rispetto offrendo nel complesso una buona prova, pur se forse le tinte oscure ed introspettive della loro musica mal si attagliano al contesto di un grande festival all’aperto e all’orario pomeridiano. L’unico che non mi ha convinto del tutto è stato proprio il nuovo cantante/chitarrista Corb, il quale, pur autore di una performance onesta e molto professionale, è apparso un po’ troppo introverso e privo del carisma e della personalità che caratterizzavano invece il precedente frontman Hupogrammo’s, dotato ad avviso di chi scrive di maggiore capacità espressiva.
Vader
(report a cura di Pier Tomasinsig)
(foto a cura di Daniele Peluso)
Dopo la parentesi atmosferica dei Negura Bunget, si passa a sonorità ben più dirette e violente con un’altra band dell’est Europa, gli storici deathster polacchi Vader. sacrificati dall’ingrata posizione nel running order, i nostri tuttavia danno vita ad uno show estremamente concreto ed aggressivo, com’era lecito aspettarsi da una rinomata macchina di distruzione quale sono.
Il combo capitanato da Piotr “Peter” Wiwczarek non si perde in tergiversazioni di sorta e scatena da subito un incondizionato assalto frontale: devastante il lavoro della sezione ritmica guidata dal drumming incalzante di Pawe “Paul” Jaroszewicz, mentre Wiwczarek e Vogg macinano tonnellate di riff serrati e pesanti come macigni, inframezzati da assoli al fulmicotone. Buona dunque l’esecuzione collettiva, corroborata da una resa sonora più che adeguata; i suoni non saranno forse stati perfettamente nitidi e cristallini, ma hanno compensato ampiamente in potenza.
Certo, l’immobilismo stilistico che ha caratterizzato il percorso musicale della band, tanto prolifica quanto poco originale, non giova alla varietà e alla lunga l’esibizione dei Vader finisce per risultare un po’ monocorde; cionondimeno il pubblico, particolarmente recettivo sui pezzi storici quali Silent Empires, Black To The Blind e Wings, si dedica vivacemente all’headbanging e al pogo furioso, ripagando i Polacchi per la buona prova offerta.
Dopo poco più di mezz’ora i Vader lasciano il palco, in anticipo rispetto alla durata prevista per la loro esibizione, ma, acclamati a gran voce dal pubblico sottostante, non ancora pago di violenza, tornano per offrire il bis, chiudendo con una terrificante This Is The War. I nostri si congedano dopo circa quaranta minuti di feroce ed intransigente death metal, tra i meritati applausi dei presenti.
Destruction
(report a cura di Roberto “Strangel” Cavicchi)
(foto a cura di Daniele Peluso)
Giusto il tempo di riprendersi dal concerto precedente che, dopo un veloce soundcheck, una voce ci annuncia l’imminente salita sul palco della leggendaria band tedesca. I Destruction, si sa, dal vivo sono una garanzia di grande concerto, e quello di oggi non è stato un’eccezione.
I tre tedeschi scatenano sul pubblico sottostante tre quarti d’ora di puro thrash teutonico, carico di violenza e grondante sangue, con tutta la professionalità e la ferocia a cui ci hanno abituati negli anni. La band di Schmier non perde tempo in convenevoli, riversando sugli astanti autentiche bordate di metallo con molti dei loro classici in scaletta, tra cui Mad Butcher, Metal Discharge, l’autentico inno Thrash till death (accolta con un boato dal pubblico), Nailed to the cross, e la title track dell’ultimo full lenght “D.E.V.O.L.U.T.I.O.N.”.
L’esibizione è baciata anche dal bel tempo e da suoni all’altezza della situazione, ed il pubblico non può che reagire come ci si aspetta da cotanta grandezza, esprimendo il suo entusiasmo con un pogo massacrante ed ovazioni ad ogni canzone annunciata. L’ennesimo concerto riuscito per i Destruction, che anche questa volta confermano la loro fama di autentica macchina da guerra live.
Napalm Death
(report a cura di Roberto “Strangel” Cavicchi)
(foto a cura di Daniele Peluso)
La giornata per ora concede clemenza, e quando gli inglesi padri del grind-core salgono sul palco il tempo è mite. La band inizia a sputare la sua rabbia sul pubblico, forte dei suoi pezzi veloci, violenti e suonati con precisione chirurgica (in particolare la sezione ritmica ci fornisce un Herrera in gran forma) da dei Napalm Death più convincenti che mai.
I 4 di Birmingham pescano da tutta la loro carriera, dal primordiale “Scum” (da cui vengono proposte alcune tracce compresa la title track) fino all’ultima grandiosa fatica “Time Waits for no Slave”, uscita quest’anno, con autentiche chicche come From Enslavement to Obliteration, la classica cover dei Dead Kennedys Nazi Punks Fuck Off, The code is red… Long Live The Code e molte altre.
Il frontman Barney Greenway sul palco è veramente instancabile e non sta fermo un attimo, dimenandosi per tutta l’ampiezza dello stage durante l’intera esibizione, a parte nei momenti tra un pezzo e l’altro in cui parla col pubblico diffondendo i valori di anti razzismo e libertà espressi dalla band, puntualmente applauditi dagli spettatori che dimostrano tutto il loro affetto, scatenandosi come il genere proposto e la grandezza del gruppo meritano. I suoni sono a coronamento di un’esibizione semplicemente perfetta, potenti e nitidi ma non privi di quella “ruvidità” richiesta dalla proposta musicale in questione. In definitiva un’esibizione di valore assoluto, da annoverare come una delle migliori dell’intero festival. Promossi con lode.
Dragonforce
(report a cura di Daniele Peluso)
(foto a cura di Daniele Peluso)
È il momento del power anglosassone. Devo essere onesto: non capisco proprio questo genere di runnig order: sono conscio del fatto che l’ organizzazione voglia cercare di mantenere ogni singola giornata il più eterogenea possibile, ma a questo punto dello spettacolo mi sarei aspettato di vedere i Sodom, non di certo i Dragonforce!
La band ad ogni modo offre una buona prova, sia chiaro, e devo dire che anche il pubblico risulta essere coinvolto dall’esibizione dei londinesi, che da dimostrazione di una grandissima capacità nel toccare “le giuste corde” nel cuore di chi ascolta. Una presenza scenica che li rende dei veri e propri padroni del palco dimostra che aver suonato con gruppi del calibro degli Stratovarius e degli Edguy ha dato alla band capitanata dal cantante ZP Theart quell’invidiabile attitudine on stage che a molti manca.
Da censurare nella maniera più assoluta l’abbigliamento a dir poco imbarazzante del tastierista Vadym Pružanov, in pantaloni verde acido e camicia a sfarzi rosa e bianchi, un vero e proprio calcio nei denti per i numerosi uruk-hai assetati di violenza, “sangue” e birra assiepati nelle prime file.
Hatebreed
(report a cura di Daniele Peluso)
(foto a cura di Daniele Peluso)
Voglio essere sincero fino in fondo: non ho mai avuto un grande interesse per la band metalcore di Bridgeport, anche alla luce di un precedente concerto di supporto agli Slayer anni fa, che non mi impressionò più di tanto.
Ma è giusto non privarsi della possibilità di rivedere le proprie opinioni, soprattutto quando si giudica una band in sede live, e devo ammettere che il combo capitanato dal cantante Jamey Jasta ha davvero fatto molta strada da quel lontano concerto milanese.
Suoni perfetti, luci molto ben calibrate e tanta violenza core, al punto da creare il più grande circle-pit che io avessi visto finora in questo festival. Un impressionante circolo di più o meno centocinquanta metri di diametro (dal palco alla zona ristoro, tenendo il mixer come punto centrale) fatto di centinaia di persone che correvano come tori inferociti, tra gli schizzi dell’onnipresente fanghiglia viscida che hanno ben presto finito per ricoprire corpi e volti.
Il concerto è davvero coinvolgente e il pubblico si scatena tra mosh-pit e wall of death. Una carneficina che devo ammettere ha saputo coinvolgere anche il sottoscritto, sorpreso a cantare il ritornello “destroy everything” con una foga da ragazzino! Potenza della musica…
Down
(report a cura di Daniele Peluso)
(foto a cura di Daniele Peluso)
Un po’ di Nola nel mezzo di una piovosa valle slovena… nel boato che accoglie l’arrivo dei Down c’è una molteplicità di ragioni e significati davvero difficili da spiegare e razionalizzare. Per quanto concerne il sottoscritto, un pezzo di gioventù che non tornerà mai più mi è passata davanti gli occhi e l’obiettivo della macchina fotografica si è leggermente appannato, forse a causa di un paio di lacrime insensate e testarde.
Vedere Phil e Rex, fianco a fianco sullo stesso palco, ha spedito a forza il mio pensiero a tempi lontani, a quando tutti noi eravamo più giovani ma non meno “Fucking Hostile” rispetto ad oggi.
Dicono che un uomo senza passato non conti nulla, e secondo me è una sacrosanta verità. Phil sembra uscito da una macchina del tempo, tanto che i suoi lineamenti sembrano non aver subito nessun mutamento da quando saltava dal bancone di un saloon, ed è in lui che risiede tutta l’energia della creatura Down.
Perfetto il lavoro esecutivo e interpretativo di Pepper Keenan e Kirk Windstein alle chitarre, supportati egregiamente da una sezione ritmica di indubbio spessore come quella dell’accoppiata Rex Brown/Jimmy Bower. Un concerto davvero fantastico, tratto per buona parte dall’album “Nola” targato 1995. Inutile disquisire di quale sia stato il punto più alto dello show offerto da Phil Anselmo e soci: un’esibizione del genere andava vissuta con trasporto nella sua interezza. Grandi Down, grande il cuore del Metalcamp!
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