Live Report: Metalcamp 2010 a Tolmino (09/07)
Quarta giornata
Venerdì 9 luglio 2010
MAIN STAGE
14:00 14:45 Abstinenz
15:05 15:50 Varg
16:10 17:10 Ensiferum
17:30 18:30 Obituary
18:55 19:55 Sonata Arctica
20:25 21:40 Paradise Lost
22:10 23:40 Hammerfall
00:00 01:00 Sabaton
14:00 14:45 Abstinenz
15:05 15:50 Varg
16:10 17:10 Ensiferum
17:30 18:30 Obituary
18:55 19:55 Sonata Arctica
20:25 21:40 Paradise Lost
22:10 23:40 Hammerfall
00:00 01:00 Sabaton
SECOND STAGE
16:40 17:10 As Memory Dies
21:40 22:10 Schwartzkristal
Servizio fotografico a cura di Daniele Peluso.
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Abstinenz
(a cura di Daniele Peluso)
(a cura di Daniele Peluso)
E per incominciare, un po’ di sano, violento black metal teutonico. Gli ingredienti ci sono tutti: blasfemia, odio, sangue tutto tenuto assieme da un bel po’ di filo spinato. Il grande crocefisso rovesciato e avvolto nel filo spinato non da spazio ad interpretazioni e, pur essendo il gruppo d’apertura, sotto il palco si forma da subito un nutrito gruppo di curiosi. C’era tanta voglia di black nell’aria, e gli Abstinenz sono pronti a soddisfare anche i palati più rudi ed intransigenti nella vasta platea del Metalcamp. “Altes Blut”, questo il nome del disco di debutto della band novesiana, è il protagonista assoluto dell’esibizione. Veloce, brutale. A completare un’iconografia fatta di marecati simbolismi, l’immancabile corno pieno di sangue fatto gocciolare sul corpo pallido del cantante Herjan. Tutti i canoni sono stati rispettati, gran bello spettacolo questi Abstinenz!
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Varg
(a cura di Daniele Balestrieri)
(a cura di Daniele Balestrieri)
Poveri Varg. Non dev’essere facile andare di pagan-black alle 3 di pomeriggio della giornata più calda in assoluto del metal camp eppure, fieramente pittati di rosso e nero come nemmeno i Turisas dei tempi migliori, i Varg sono scesi in campo per 40 minuti di sano pagan epico. Pubblico ovviamente alla spicciola, eppure particolarmente carico nonostante la maledizione delle prime band. La presentazione di Blutaar, ultima fatica della band tedesca, sembra riscuotere consensi grazie all’accoppiata Invictus – title track che riescono a smuovere le acque nonostante l’anticipazione per i seguenti Ensiferum. Concerto senza infamia e senza lode, nonostante la staticità della band probabilmente derivata dall’onnipresente caldo. Non è un caso che la band abbia esordito dicendo che questa sarebbe stata l'”esibizione più difficile della loro carriera”. E nonostante tutto, grazie a suoni adeguati e una carica non indifferente, direi che possono guardarsi alle spalle con soddisfazione.
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Ensiferum
(a cura di Daniele Balestrieri)
(a cura di Daniele Balestrieri)
Nobili come sempre, con quel modo tutto personale di unire il folk metal a un power tutt’altro che esplosivo, lontano dai fuochi d’artificio degli Equilibrium, arrivano on stage i finnici Ensiferum con il loro entourage di aficionados decennali. Anche loro reduci da un ottimo From Afar, una ventata di originalità rispetto all’accademico Victory Songs, i nostri si dimostrano maturati anche dal punto di vista scenico. In passato venivano spesso giudicati rigidi e impersonali sul palco, specie se paragonati alle neo band pagan della stessa corrente, come Finntroll o Korpiklaani per intenderci; quest’anno invece ho avuto modo di notare uno show più dinamico che si accoppia perfettamente alla varietà isterica dell’ultimo album la cui title track apre le danze in un pomeriggio soleggiato, bollente e umido – problema reiterato più volte da Petri. Interessante ma non particolarmente esaustiva la scaletta, interessante la scelta di Token of Time e con mio piacere/sgomento sono riusciti a infilare anche la westernissima Stone Cold Metal, purtroppo decisamente deludente in sede live a causa della mancanza di tutti quegli strumenti come il mandolino e il pianoforte che rendono unica la traccia più spettacolare (nel senso proprio grammaticale della parola) dell’ultimo disco. Imperdonabile l’assenza di Lai Lai Hei, specie dopo un’Ahti in grado di far scordare la calura e caricare il pubblico come non mai. Evidentemente, in un pomeriggio rovente e in lenta decadenza verso la sera, Iron è stata giudicata la conclusiva più atmosferica e adatta. Forse.
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Obituary
(a cura di Nicola Furlan)
(a cura di Nicola Furlan)
Chi non ha mai sentito parlare degli Obituary, straordinaria band floridiana autrice di uno dei più caratteristici death metal che il mercato abbia mai pubblicato dalle origini ad oggi? Ben pochi, ne sono certo. Il gruppo capitanato dai fratelli John e Donald Tardy se n’è andato dal palco con un’autentica ovazione, meritato tributo ad uno show brillante e ineccepibile sotto tutti i punti di vista. Come ipotizzare qualcosa di diverso? La band è in piena attività. Negli ultimi cinque anni ha pubblicato qualcosa come tre full-length, due live DVD, un EP e una compilation. L’attività live è frequente e l’entusiasmo alle stelle, sopratutto in virtù di una continua richiesta di band old-school sui palchi di tutto il mondo. Che dire, oltre alla scontata eccellente prestazione (particolarmente brillanti Santolla e John), i presenti hanno goduto per la coinvolgente List of Dead, per i tribalismi di Blood To Give e per i vinceti rimandi a brani come Final Thoughts, I’m in Pain. Interessante anche l’interpretazione di una Chopped in Half ‘versione doom’ mixata a dovere con Turned Inside Out. Scorre a gran velocità anche Cause Of Death e chiude in bellezza il set il capolavoro d’esordio carriera Slowly We Rot. Attesi con trepidazione, gli Obituary non hanno avuto un solo calo, né vocale (non si colgono praticamente differenze con la voce di gioventù!), né esecutivo. Una band immortale.
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Sonata Arctica
(a cura di Daniele Balestrieri)
(a cura di Daniele Balestrieri)
Neanche volendo si sarebbe potuto sfuggire alla trepidazione che accompagnava lo scorrere delle ore fino al tramonto, dominato da una delle band più attese dai fanatici del power metal accorsi a Tolmino. Le magliette dei Sonata Arctica non si facevano di certo desiderare, sia nei negozi che indosso agli astanti, e come biasimarli: la band di Kakko e soci ha letteralmente gettato luce sulla giornata nonostante le palesi difficoltà incontrate come il caldo onnipresente, il sound check particolarmente frettoloso e soprattutto il sole che tramontava direttamente in faccia alla band. Insieme a Leave’s Eyes, questa esibizione vantava le grida collettive di tonalità più alta, quasi al livello di un talk show americano, a sentenziare un pubblico femminile decisamente predominante rispetto a quello maschile.
Ma lo spettacolo non è mancato: sulle note di A Flag in the Ground, celebrato singolo dell’ultimo The Days of Grays, Kakko e Viljanen esplodono letteralmente sul palco, incitando la svenevole folla a ogni pié sospinto: uno spettacolo degno di una band del loro calibro. È però con The Last Amazing Grays che si percepisce nettamente il gran lavoro dei fonici che han reso il suono talmente cristallino, lontano dai livelli francamente deludenti di Obituary ed Exodus, da sentirsi distintamente anche a un buon centinaio di metri dal palco, all’interno dei tendoni della birra. Ed è proprio al centro dell’esibizione, prima di un breve intermezzo dialogico, che irrompe l’attesissima Full Moon, che abbatte ogni inibizione e unisce tutto il pubblico in un concitato “run away, run away, run away!” – performance pulita e di grande impatto. Ritorna quindi il lavoro promozionale per l’ultimo album con un’incantevole Juliet e una Black Sheep che rende senza dubbio più live che sull’a mio giudizio un po’ insipido Silence. Complimenti extra per non aver dimenticato nemmeno stavolta la tradizionale riproposizione di Hava Nagila, probabilmente uno dei brani folk più travolgenti mai scritti da mano d’uomo. Grande carica di energia e coinvolgimento totale del pubblico: ogni concerto dovrebbe essere così.
Ma lo spettacolo non è mancato: sulle note di A Flag in the Ground, celebrato singolo dell’ultimo The Days of Grays, Kakko e Viljanen esplodono letteralmente sul palco, incitando la svenevole folla a ogni pié sospinto: uno spettacolo degno di una band del loro calibro. È però con The Last Amazing Grays che si percepisce nettamente il gran lavoro dei fonici che han reso il suono talmente cristallino, lontano dai livelli francamente deludenti di Obituary ed Exodus, da sentirsi distintamente anche a un buon centinaio di metri dal palco, all’interno dei tendoni della birra. Ed è proprio al centro dell’esibizione, prima di un breve intermezzo dialogico, che irrompe l’attesissima Full Moon, che abbatte ogni inibizione e unisce tutto il pubblico in un concitato “run away, run away, run away!” – performance pulita e di grande impatto. Ritorna quindi il lavoro promozionale per l’ultimo album con un’incantevole Juliet e una Black Sheep che rende senza dubbio più live che sull’a mio giudizio un po’ insipido Silence. Complimenti extra per non aver dimenticato nemmeno stavolta la tradizionale riproposizione di Hava Nagila, probabilmente uno dei brani folk più travolgenti mai scritti da mano d’uomo. Grande carica di energia e coinvolgimento totale del pubblico: ogni concerto dovrebbe essere così.
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Paradise Lost
(a cura di Stefano Pastore)
(a cura di Stefano Pastore)
E finalmente arriva l’ora dello show che più ho atteso in questa settimana, Sul palco salgono i maestri del gothic doom inglese e non ce nè per nessuno, scaletta insuperabile, suoni quasi perfetti (qualche problema con la voce all’inizio e il cavo di Mackintosh che faceva le bizze) e uno show memorabile. Nick Holmes è un frontman nato e il pubblico ricambia a gran voce osannando la band di Halifax. La scaletta è molto varia e propone tra le altre: As We Die, Paradise Lost, Eternal, Embers Fire, Once Solemn, One Second, Say Just Words, Faith Divides Us – Death Unites Us e The Enemy. Uno show da pelle d’oca.
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Hammerfall
(a cura di Daniele Balestrieri)
(a cura di Daniele Balestrieri)
Una delle band più attese del Metal Camp 2010 è stata senza dubbio gli Hammerfall. Mai particolarmente schivi quando si tratta di suonare live, i nostri cinque svedesi sono ancora una volta riusciti nell’intento di regalare più di un’ora di emozioni lungo 17 anni di gloriosa carriera. La forma di Joacim Cans è al top nonostante i suoni non fossero all’altezza della sua celebrata ugola: questione di scarsezza di tempo dopo l’esibizione leggermente allungata dei Paradise Lost. Heeding the Call, Glory to the Brave e ovviamente Renegade fanno tutte parte del carico di metallo rovesciato su una folla radunata nella giornata forse musicalmente più schizofrenica dell’intero festival. L’energia è palpabile, al termine dell’ennesimo giorno di calura, e una piccola bacchettata ai pirati/downloader illegali scatena un’ululato di accondiscendenza da parte della folla assolutamente ben nutrita. Da “decano” dei concerti degli Hammerfall, direi che si è trattato di una performance abbastanza standard, ben collaudata, senza particolari ombre o luci. Peccato l’omissione di At the End of the Rainbow, ma in compenso eccellente la chiusura di Let the Hammer Fall, strascicata come suo solito e coinvolgente per il pubblico di ogni età e di ogni “estrazione musicale”.
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Sabaton
(a cura di Daniele Peluso)
(a cura di Daniele Peluso)
Dulcis in fundo: i Sabaton. A concludere l’ennesima giornata fatta di sole, metal e birra sono chiamati i “guerrafondai” svedesi capeggiati dal carismatico Joakim Brodén. Pirotecnico spettacolo fatto di fuochi e fiamme che rischiarano la notte slovena. Freschi di pubblicazione del full-lenght “Coat of Arms”, la band propone uno spettacolo frizzante e coinvolgente in cui il tarantolato Joakim è protagonista assoluto. Spesso si allunga tanto verso il pubblico quasi a volerlo toccare. Un carisma così marcato che davvero ho visto in poche esibizioni live. Per il resto, il power offerto dai Sabaton è un eccellente modo per concludere una giornata faticosa e ricca di emozioni. Dopo l’ennesima birra ci si appresta a tornare a letto, domani sarà ancora più dura…
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As Memory Dies
(a cura di Nicola Furlan)
(a cura di Nicola Furlan)
Ho avuto occasione di recensire l’esordio di questa giovane band vicentina e, dato l’investimento che l’organizzazione ha fatto nel portarli a Tolmino, anche di vederli sul second stage del MetalCamp. Impressioni di primo impatto: la band c’è, come si suol dire. Ha attitudine, impatto e il giusto piglio di professionalità in grado di garantire, ad ogni organizzatore, la presenza in scena di un gruppo serio e dotato. Non avendo in scaletta brani particolarmente frivoli o di puro impatto, il concerto è stato intenso, sopratutto se si considera che “Transmutate” (full-length di debutto) è costituito da sette pezzi di melodic death metal, tutto meno che cloni di quanto prodotto della scena svedese classica. Un concerto per ‘intenditori’ e per chi ha la pazienza di goder di sfumature ed arrangiamenti di tutto rispetto. Sebbene tutti i membri abbiamo portato dignitosamente a casa la pagnotta, c’è da evidenziare la prova sopra le righe del cantante Caruso, coinvolgente, anche nel caso di rarefatta presenza di fan (pochi ma buoni!).
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Schwartzkristal
(a cura di Nicola Furlan)
(a cura di Nicola Furlan)
Questa edizione del metalcamp ha davvero proposto un’ampia gamma di generi, dal rock all’industrial, dal thrash al death, dal folk al black, e via dicendo. Sia sul second stage, sia sul main stage, se ne sono sentite di tutti i colori. Colore decisamente nero per gli Schwartzkristal, quartetto alle prese con un raw black dalle classiche aperture alla Mayhem. Un concentrato di violenza notevole amplificato da un’immagine incorniciata da classici face-painting e latrati scream degli del più ispirato Abbath, cantante della storica black metal band norvegese Immortal, headliner il giorno successivo. I suoni si sono attestati deficitari nei primi brani della scaletta, ma con l’andare dello show il tutto è stato bilanciato alla perfezione dando la possibili agli Schwartzkristal di esprimersi al meglio. Ottima l’ora dell’esibizione: data l’assenza di grossi nomi sul palco principale, i blackster hanno goduto di una delle più considerevoli prensenze che si siano viste sul piccolo stage della manifestazione slovena. Aconti fatti, non è andata per nulla male!
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LA FOTO DEL GIORNO (Tre metallari, …ubriachi)
…tranquilli, non è ancora finita!!!