Live Report: Metaldays 2013 a Tolmino (Slovenia) 1/2
METALDAYS 2013 – TOLMIN, SLOVENIA
Parte 1/2
(Photo Report a fondo pagina a cura di Daniele Peluso)
(a cura di Daniele Balestrieri)
Come ormai consuetudine delle estati metalliche europee, la Slovenia offre per la decima volta l’accesso alle proprie valli boscose per ospitare il MetalCamp, ora chiamato MetalDays a seguito di burrascose contese tra gli organizzatori originali per il possesso del nome e del festival. Addirittura l’anno scorso sembrava non si dovesse più disputare (o che se ne dovessero disputare due (!), nello stesso posto (!) e nelle stesse date (!!), ma per fortuna così non è avvenuto.
Tecnicamente, la gestione dell’intero festival è stata affidata a un network tedesco di organizzatori di eventi che chiameremo CMM e che tra le sue file ha anche un nome di prim’ordine come il Wacken Open Air.
Ed effettivamente il cambio si è visto: passato il terrore del raid di furti, di pezze imbevute di cloroformio e addirittura dello stupro che avevano gettato un’ombra di inquietitudine sull’ultimo metal camp, quest’anno si è viaggiati in tutta tranquillità, tra security sempre presente ma non soffocante e zone ben controllate ovunque.
Prima grande novità, forse scaturita dall’ombra dei furti dell’anno passato, è stata l’abolizione dei contanti in tutta l’area del festival. Quest’anno si acquistavano carte prepagate che potevano essere riempite con quanti euro si voleva e sfruttate in tutte le zone “ufficiali” del festival (mercato quindi escluso). Soluzione ottima per chi non voleva maneggiare il denaro continuamente e ottima per gli organizzatori che certamente avranno guadagnato “gratis” quelle migliaia di euro che saranno sicuramente rimaste inutilizzate in in numero inquantificabile di carte acquistate… al costo di 5 euro di deposito che probabilmente nemmeno il 50% degli avventori avrà ritirato alla fine del festival.
Sottotono, purtroppo, la varietà dei rinfreschi presenti al campo. È vero che una birra bionda basta e avanza per il 99% dei metalhead ma, per chi ama anche nutrirsi di cibo solido, nell’area del festival si poteva scegliere tra poca roba (pollo fritto, patatine, kebab e poco altro). Il menu originale, molto esteso, è stato praticamente decimato al finire del primo giorno. Per fortuna il vicino paese di Tolmino offriva diversi supermercati dove ognuno poteva comprare ciò che più desiderava a prezzi davvero contenuti.
L’area del festival si snoda lungo una vallata circondata da monti ricoperti di boschi: il verde è dominante, così come l’azzurro intenso del fiume Isonzo che scorre nell’alveo a est della valle e forma spiagge ghiaiose tra le sue anse, ricovero per i metalhead bruciati dal sole spietato di agosto: l’acqua a un 8-10 gradi fissi è un vero paradiso e la gestione del MetalDays ha pensato bene di creare un vero e proprio stabilimento balneare con tanto di musica (ogni tanto di dubbio gusto), intrattenimento (spesso di dubbio gusto), banco della birra e campetto da beach volley. Il camping principale segue il verso della valle dal principio fino alla zona dei palchi, e un campo separato è adibito alla zona stampa, con tanto di bagni separati e docce separate. L’intera zona è off-limits per chiunque non sia dotato di bracciale, di diversi colori a seconda della classe di pubblico, e di eventuale pass.
La zona campeggio non è mai particolarmente iperpopolata, a differenza di molte zone del camping del Wacken, e i bagni, sia chimici che fissi, si dimostrano non solo sempre adeguati, ma anche costantemente puliti – nonostante la calura diurna (e notturna), non hanno mai emanato i fetori pestilenziali tipici di queste soluzioni temporanee.
E parlando di calura non si può fare a meno di citare le due grandi costanti dei festival europei, quest’anno ripresentatisi con regolarità disarmante: la tempesta e il sole imperante. La tempesta è arrivata senza farsi aspettare durante il secondo giorno, dopo una breve avvisaglia il primo giorno: concerto di fulmini e tuoni, acqua a valanghe e colpi di vento che hanno smantellato i gazebo e le tende costruite con più negligenza. Apparse subito le idrovore appena le nubi si sono diradate, il campo ha recuperato presto la sua funzione pristina senza che si formassero gli oceani di fango tipici dei festival mitteleuropei e nordeuropei come Roskilde o Sweden Rock.
A partire dal terzo giorno il clima si è fatto sempre più incandescente, sfiorando l’ordine dei 40 gradi durante il primo pomeriggio di venerdì: il colore dominante della pelle del 99% degli astanti si è fatto di un rosa-graticola che nessuna protezione solare è riuscito a deflettere.
Come era già mia personale opinione nel precedente festival a cui avevo assistito, quest’anno ho avuto la conferma di quanto sia “europeo” questo festival. Pochi partecipanti provenivano da zone esterne all’Europa e tutti i comportamenti, sia comunitari che “di pubblico” sono stati squisitamente europei. Alcuni grandi classici della cultura da festival americana come il wall of death o il circle pit non hanno attecchito nonostante le continue incitazioni di alcune band e in generale il pubblico è stato civile, moderato e dalla bizzarria decisamente contenuta – uno spettacolo che mi piace definire “nobile” e che ha lasciato un piacevole retrogusto alla fine dell’evento.
Pochi contrattempi – il peggiore forse è stato il grande blackout di venerdì sera – e afflussi e deflussi di gente sempre facilmente gestibili, esclusa qualche ressa inguistificata nell’area pit dovuta a un inspiegabile surplus di fotografi – hanno reso quest’edizione del MetalDays un’edizione da ricordare per efficienza e meriti musicali, che andiamo immediatamente a snocciolare:
1° GIORNATA – 22 luglio 2013
NOTE DI GIORNATA E SECOND STAGE
(a cura di Nicola Furlan)
La giornata inizia con il solito caldo afoso in pieno stile Tolmino. E’ il sole stesso a dare la sveglia al camp, generando temperature nelle tende di 35°. La prima mattina passa tra colazione, birrette e poi il Festival ha inizio! Sul second stage ci apprestiamo a seguire una band in particolare: i thrash metaller greci Chronsphere. Autori di un metal in stile Municipal Waste e dalla grande attitudine hardcore, la band ha saputo enfatizzare anche bene la storia dello stile bay Area e s’è dimostrata abile nell’esecuzione sebbene molto fredda nell’interazione col pubblico. L’elemento che colpisce rispetto alle edizioni precedenti è un perfetto parco suoni che caratterizza il sound dell’impianto del second stage.
(a cura di Daniele Balestrieri)
Ho sempre avuto un “soft spot” per i deathster britannici Benediction fin dai tempi del liceo. Mai visti live, per cui era grande l’aspettativa per chi nel corso di quasi 25 (!) anni ha affiancato “nomignoli” del calibro di Atheist, Bolt Thrower, Napalm Death, Dismember e tanti altri. Purtroppo l’ora non era un granché e nel palco principale ruggivano gli Overkill con il loro folto seguito, tuttavia nel secondo stage si era già aggregata una certa folla di deathster/grindster attempati e non e di molti fan degli Anaal Nathrakh desiderosi di ascoltare Hunt in prima persona. Un quarto d’ora di ritardo e il palco è ancora buio e immobile. Allo scoccare dei 20 minuti di ritardo (che purtroppo mutileranno in parte la loro esibizione) riecheggia un’intro infinita che conduce a The Dreams you Dread, title track dell’omonimo album del 1995 che segnò in parte la loro uscita dall’eterno “substream” in cui si erano incagliati fin dai tempi di “Subconscious Terror”, che infatti seguirà a ruota e che elettrizzerà la folla con un raro esempio di puro death dei primissimi anni ’90.
La band prende subito contatto con il pubblico, raccontando come fossero tra amici di essersi svegliati alle 4 di mattina per arrivare dal Regno Unito fino alla Slovenia e decantando le bellezze di quell’angolo di Balcani. Finalmente un po’ di vigore scuote il pubblico, che centellinato headbanga furioso sulle note di They Must Die Screaming, dell’ultimo album del 2008, e su Suffering Feeds Me di “Organised Chaos”, dedicato ironicamente alle (pochissime) fanciulle presenti. A dire il vero non hanno fatto il pienone, ma questo ha aumentato la complicità tra pubblico e band. Non molti probabilmente li conoscevano eppure, al pari di mostri sacri come King Diamond o Metal Church, hanno a loro modo presenziato alla scena estrema europea fin da un’epoca in cui buona parte delle band presenti erano probabilmente ancora alle scuole medie. Perla della serata l’ottima Jumping at Shadows, decisamente calzante nell’oscurità impenetrabile degli alberi che coprivano il secondo stage.
MAIN STAGE
(a cura di Nicola Furlan)
L’onore di aprire il primo concerto sul main stage di questa edizione del Metaldays spetta agli italiani ArseA. Poco il pubblico presente e partenza in sordina a causa di problemi ai suoni, la band, però, ci sa fare e con lo scorrer dei brani cresce ancora di più, dimostrando di avere tutte le carte in regola per competere a livello professionistico. Il pubblico aumenta proporzionalmente alla qualità dell’esibizione. Su tutte, è da citare la prestazione del cantante Matteo Peluffo, grande interprete della personalità della band, nonchè in grado di esprimere una prestazione vocale di tutto rispetto. Peccato solo sia coinciso con una delle ore più calde della giornata e, quindi, con la maggior parte della gente ammollo nel turchese fiume Isonzo, piuttosto che nell’arena polverosa davanti al palco.
(a cura di Antonio Saracino)
I Soilwork sono la prima “grossa” band di questo festival. Un tempo parte della scena death melodica svedese assieme ai fratelli maggiori In Flames, Dark Tranquillity e At the Gates, hanno a quanto pare negli ultimi anni seguito le orme dei primi, spostandosi verso il metalcore. Strid cerca di coinvolgere il pubblico con canzoni come Weapon of Vanity e Stabbing the Drama incitando addirittura al wall of death (altro elemento tipico del metalcore) senza però avere un gran successo. Il pubblico li accoglie tiepidamente, nonostante le chitarre acustiche e le improvvise sfuriate.
(a cura di Daniele Balestrieri)
A differenza di Wacken, dove l’atmosfera più circense spinge la gente ogni anno a sfoggiare, esagerare e far vedere, qui al MetalDays è tutto senza dubbio più rigoroso, più austero e più sincero: solo una bandiera finlandese garriva tra gli ultimi raggi di sole, laddove altrove il palco sarebbe stato quasi invisibile per lo sventolìo sfrenato. Sul palco gli Ensiferum. Cornice ideale per una band che ha da sempre suonato fiera e a testa alta, senza gli eccessi di molti loro compatrioti. Nel primo refrigerio serale, dopo il tramonto della palla di fuoco, irrompe l’intro di From Afar e ovviamente la grande cavalcata di In My Sword I Trust. Il gioiello della corona di Unsung Heroes ha sempre avuto la capacità di far sentire gli ascoltatori a casa propria, sia nel disco e sia durante le performance live – equilibrio, dinamismo e invito alla partecipazione. E questa è stata esattamente la magia lanciata sul pubblico, che si è via via riscaldato attraverso From Afar, Burning Leaves e uno strano mesh-up tra One More Magic Potion (dai toni decisamente retro) e… For Whom the Bell Tolls, che ha incuriosito e riscaldato gli astanti fino all’esplosione di Lai Lai Hei, grande trascinafolla che hanno allungato considerevolmente (di quasi 1/3!) per sfruttare l’inerzia del chorus ultracatchy. Non può non seguire la furiosa Ahti che riesce a muovere braccia e teste fino a quasi la fine dell’area concerti. Durante la seguente Twilight Tavern, pensierosa filler di From Afar, una parte del pubblico pensa bene di scatenarsi in un limbo improvvisato tendendo le corde di plastica ancora targate Metal Camp 2012. Ormai il successo è confermato e consolidato da una conclusiva Iron che vede partecipazione fino ai tendoni della birra, in coda allo stage. Prestazione maiuscola del bassista e del tastierista che hanno praticamente monopolizzato i grandi schermi ai lati dello stage e che hanno abbandonato il palco sotto le note incalzanti del tema principale di Guerre Stellari. Esatto. Molti ubriachi si stanno ancora chiedendo se è successo per davvero o era un cicchetto di troppo.
(a cura di Nicola Furlan)
Ed è arrivato il momento degli Overkill, storica thrash metal band newyorkese, forse una delle band più in forma dell’intero panorama thrash mondiale. Si confermano i problemi tecnici all’impianto del palco principale, quando, all’entrata del frontman Blitz, pronto a far deflagrare la sua voce al microfono, questo stesso si stacca, lasciando il cantante a dover tener la scena, senza che la sua voce venga fuori dall’impianto. Lo show inizia dopo circa un minuto, dando tempo ai fonici di sistemare il tutto e la band, tra brani quali Who Tends the Fire, Elimination, Ironbound, Coma, Fuck You e molti altri, porta in fondo uno show straordinario, carico di energia e che evidenzia un fantastico stato di forma del quintetto.
(a cura di Antonio Saracino)
Tocca finalmente ai primi headliner del festival, gli svedesissimi In Flames! L’area concerti è completamente colma per uno show che promette tanto. La maggior parte delle canzoni eseguite proviene dall’ultimo album “Sounds of a Playground Fading”, che ci mostra una band molto diversa dai tempi di “Clayman”. La voce infatti è quasi completamente andata e Anders non dimostra una grande affinità con il pubblico, si passa infatti da una canzone all’altra senza tante presentazioni. Pinball Map, Embody the Invisible e Hive mi hanno però riportato ai fasti dei tempi pre-Reroute che avevo parecchio amato da ragazzo, per poi tornare ai più recenti classici Cloud Connected e Take this Life. Il pubblico è comunque monto coinvolto e con Only for the Weak si scatena con i consueti salti. My Sweet Shadow chiude il primo palco per stasera.
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2° GIORNATA – 23 luglio 2013
NOTE DI GIORNATA E SECOND STAGE
(a cura di Nicola Furlan)
Arriva il momento dei californiani Vicious Rumors, storica band statunitense che, ci possiamo permettere di affermare, nel corso della storia ha ottenuto molto meno di quanto meritasse. E il fatto che siano finiti sul second stage la dice lunga… La band parte promuovendo inediti del prossimo disco in lavorazione e dell’ultimo disco uscito, “Electric Punishment”. Passano poi in rassegna i tanto attesi brani di “Welcome to the Ball” ed è proprio sui vecchi pezzi che ci si rende conto dell’elevato livello qualitativo dei singoli: ottima la prova vocale del ‘neoassunto’ Brian Allen, perfetta l’esecuzione alle sei corde dei due chitarristi, straordinaria la martellante sezione ritmica basso/batteria, con lo storico Larry Howe autore di una prestazione dalla dinamica devastante, tra rim-shot e raffica di doppia cassa.
(a cura di Antonio Saracino)
Storici rappresentanti della scena sludge di New Orleans, gli Eyehategod arrivano ad allietarci la serata. Musicalmente ricordano i concittadini Down con un bel po’ di voce hardcore. Notando la folta schiera di blacksters, il cantante Mike Williams si presenta la propria musica come “black metal from the white trailer trash ghetto”. Canzoni lente e pesantissime come Sisterfucker ed accelerazioni improvvise caratterizzano la loro intera esibizione.
(a cura di Antonio Saracino)
La seconda giornata di questo MetalDays è quasi giunta alla fine, ma non prima di una sana ora di grindcore senza compromessi. Direttamente dalla California, gli Exhumed ci lanciano in uno spassoso mattatoio grind. È chiaro a tutti che l’intera band se la sta godendo, non mancano mai di salutare il pubblico e invitare tutti nel backstage alla fine dell’esibizione. Degna di nota la parte in cui il chitarrista, dopo un lunghissimo assolo, finge lo svenimento: un tizio travestito da clown arriva dal backstage con addosso camice bianco, mascherina e defibrillatore. Dopo aver tentato di rianimare Bud Burke (il batterista alzava un cartello con su scritto CLEAR!! ad ogni tentativo), il nostro clown riflette un attimo, raccoglie una cassa di birra e comincia a rovesciarne il contenuto nella bocca del chitarrista (il cartello del batterista stavolta annuncia gioiosamente BEER!!). A poco a poco si riprende, si tira su e continua il suo splendido assolo. A mio avviso quella degli Exhumed è stato uno dei concerti migliori di questo festival, vario nonostante il genere estremo e soprattutto divertente, capace di risvegliare il pubblico alle due di notte. I brani suonati vengono tutti dal nuovo “All Guts, No Glory” e da “Anatomy is Destiny”, mentre nell’encore troviamo una fantastica medley in chiave grind con Seek and Destroy, Black Magic e Creeping Death. E come se ciò non bastasse, mentre i roadies ripuliscono il palco il cantante torna ad intrattenere il pubblico con una serie di urletti a là Halford fino a notte fonda. Genio totale.
MAIN STAGE
(a cura di Daniele Peluso)
Il legame che lega gli Arkona e gli Alestorm al festival metal che si svolge ogni anno a Tolmino si rinsalda a suon di decibel anche sotto il nuovissimo moniker del MetalDays. Due gruppi, quelli capitanati da Masha e Christopher, che a loro modo hanno contribuito alla crescente popolarità di un festival che di anno in anno è stato capace di rinnovarsi senza perdere mai l’identità originaria e lo spirito che lo ha contraddistinto in tutti i DIECI anni do onorato servizio.
Ricordo ancora gli Alestorm dimenarsi come pazzi sul Second Stage al suono di un trascinante ed alcoolico “Captain Morgan’s Revenge”; ricordo con un sorriso forse un po’ amaro le corse ubriache e scapestrate di Bowes per tutta l’area concerti e le vistose ed inguardabili camicie Hawaiane. Ricordo le bevute fatte con Dani Evans e le su piccole mani sempre intente ad aprire qualche lattina di birra. Era una band, vista romanticamente col senno del poi, che mi piaceva. Mi piacevano la spontaneità, la voglia di divertirsi e di far casino, l’ubriaca sfrontatezza dei perfetti sconosciuti che si paragonano – fino quasi a sminuirli – ai Running Wild senza un minimo di buon senso né di pudore artistico.
Mi piacevano, appunto. Oggi, vederli dietro le quinte, convinti, spocchiosi, altezzosi, con quell’aurea di rockstar consumate mi ha fatto ridere più dei calzini blu e gialli di Titty e Gatto Silvestro del buon Bowes. Musicalmente sono cresciuti enormemente, grazie anche ad una valanga di verdi banconote che gli si sarà riversata addosso nel corso degli anni. E questo, checché se ne dica, non è una cosa negativa. Anzi. Trovo ben peggiore l’atteggiamento, sopratutto con i fan trattati (visto in prima persona), con un distacco degno dei peggiori prodotti musicali creati a tavolino. Il sound resta coinvolgente ed il pubblico apprezza. Continuano la promozione dell’ultima fatica “Back Though Time” senza dimenticare i brani che gli hanno concesso fama e gloria. Esibizione di tutto rispetto che diverte e non annoia quasi mai.
Per gli Arkona, invece, non ci sono più parole. Ogni esibizione del gruppo moscovita resta per me il meglio che il mondo del pagan/folk possa offrire al mercato oggigiorno. Precisi, adrenalinici, instancabili, si dannano l’anima su un palco finalmente assolato dopo l’abbondante pioggia del pomeriggio e lo fanno con la solita, ennesima prova maiuscola. Masha è il vero cuore pulsante della band. Ammalia la folla con la sua voce dalle mille sfaccettatura, corre, salta, si contorce e si dimena come posseduta da qualche antico spirito mentre perquote l’inseparabile tamburo sciamanico. La troppa foga la fa goffamente cadere. Si rialza, un po’ imbarazzata, giusto in tempo per l’ennesimo graffiante ruggito. Brani come “Goi, Rode, Goi!”, “Slav’sja Rus’!”, “Slovo” e “Yarilo” sono eccezionali cavalcate che hanno portato la band moscovita ad una sfavillante ribalta nel vasto panorama del metal europeo.
Ruslan e Vladimir si fanno spesso da parte per lasciare il palco a disposizione dei tarantolati Masha e Lazar che ne percorrono correndo e saltando ogni centimetro quadrato.
Ogni ulteriore superlativo sarebbe fuori luogo. Unici Arkona: peccato davvero che, anche questa volta, la posizione nel running order li penalizzi un po’. Questo è un gruppo che meriterebbe ben altri tempi, ben altre luci.
“se le giovani band mettessero un quarto della passione e dell’impegno che gli Arkona mettono in ogni minimo dettaglio del loro lavoro, il mondo del metal sarebbe un mondo infinitamente migliore” (auto-cit.).
(a cura di Daniele Balestrieri)
Linee pulite e decine di riflettori puntati sulle teste pelate dei Samael di Vorph e Xy – pronti all’ennesimo show distruttivo di una delle band più sperimentali e avanguardistiche degli ultimi tempi. Non hanno badato a spese e già durante il sound check hanno voluto lasciare il segno: il canale dei bassi (basso, ma anche percussioni) era talmente esplosivo da far letteralmente (e intendo letteralmente) drizzare i peli delle braccia e i capelli. Ci è voluto poco perché luci di ogni genere illuminassero a giorno la notte incipiente, con un My Savior che ha immediatamente messo in primo piano quel genio di Xy, ancora una volta autore di una performance da togliere il respiro, tra la ormai trademarkata batteria elettronica e i pezzi di batteria comune: un’energia infinita che ha attraversato Sol Invictus, Into the Pentagram e la catastrofica, apocalittica Jupiterian Vibe che manda il pubblico in una trance pressoché immediata. Non molti gli astanti – l’onda di piena era già passata con Arkona e Alestorm – ma la parte di pubblico coinvolta era in percentuale molto maggiore, anche per un clima leggermente più respirabile che invitava a muoversi senza fondersi sotto i raggi del sole via via sempre più brutali man mano che progrediva la settimana.
Continua l’opera di ipnosi collettiva con Slavocracy e la martellante Reign of Light. Magistrale l’uso di pause centellinate ad hoc per aumentare la tensione tra il pubblico, che si trova a tratti spaesato tra i continui cambi di tempo, mood e suoni. Romantica la dedica – a quasi un’ora di spettacolo – a tutti gli innamorati della sera con Moonskin, incantesimo spezzato dalla voce robotica di In Gold We Trust, marchio di fabbrica di Lux Mundi che manda in visibilio i neo-fan con il suo misto di asincronie vocali e assoli tormentati, prima di discendere al fantastico encore di Cerimony of the Opposites (la lacrimuccia è d’obbligo) e la conclusiva The Truth is Marcing On. Chi è andato ai Samael aspettandosi i Samael, beh, ha trovato i Samael. Una garanzia spettacolo per occhi, orecchie e… pelle (d’oca).
(a cura di Daniele Balestrieri)
Nessun bisogno di presentare una delle poche band che possono blasonarsi di aver codificato il black metal come lo ricordiamo oggi; band senza la quale probabilmente nomi altisonanti non sarebbero mai nati oppure non avrebbero la forma che hanno ora: i Mayhem. Luci tenebrose e scenografia oppressiva: torna a prestare l’ugola ai Norvegesi nientemeno che Attila Csihar, sulla cui sola figura si potrebbero già scrivere un paio di libri. Misterioso, teatrale, con un teschio perennemente incastrato tra le dita e un volto infernale, il singer ungherese esplode nella bestiale Deathcrush, catapultando il pubblico intero al 1987, tra i primi vagiti di quel black metal che avrebbe diviso l’opinione pubblica norvegese per i seguenti 10 anni. Necrobutcher, infernalmente delicato sorseggia da una coppa di champagne mentre martella il basso tra Ancient Skin e Illuminate/Eliminate.
La folla è obiettivamente smisurata ma il coinvolgimento fatica – non che il black metal sia una musica particolarmente adatta ai live più festosi, specialmente quello più gretto, eppure è bastato il primo giro di Freezing Moon a risvegliare chiunque abbia avuto a che fare con il black metal negli ultimi 30 anni. Il black metal è vivo, e non è una frase da poco nel 2013. Bombe del calibro di De Mysteriis Dom Sathanas e Pure Fucking Armageddon hanno risuonato per le valli slovene per diversi minuti, prima di morire definitivamente insieme al secondo giorno del MetalDays.
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3° GIORNATA – 24 luglio 2013
NOTE DI GIORNATA E SECOND STAGE
(a cura di Nicola Furlan)
Doveva arrivare. Il solito e atteso diluvio universale che mai è mancato nelle edizioni precedenti e che qualcuno ha sperato di non rivedere, si è fatto avanti verso le due di pomeriggio, esplodendo in tutta la sua violenza. Un mare di acqua che ha rischiato di rovinare molti concerti così come accaduto per i Behemoth nel 2008.
E’ il momento dei Coma, thrash metal band sarda, autrice, nell’anno in corso, dell’ottimo “Mindless”. È incredibile constatare come, ancora una volta, il second stage sappia proporre un rendimento fonico di elevatissimo livello. E, paradossalmente, sono proprio queste band che calcano il palco più piccolo, a goderne. La band prende il via in orario, non appena l’ultima goccia del diluvio è caduta. Ottima la prestazione. La band ha dimostrato un’attitudine notevole ed ha saputo coinvolgere i presenti brano per brano, convincendo e lasciando presagire un futuro di tutto rispetto. Un concerto che si voleva durasse sicuramente di più. Band da seguire.
(a cura di Nicola Furlan)
Sono le 22.15 e l’attesa è grande, per i deathster nordamericani Dying Fetus. Il pubblico è sempre più numeroso, sia per la qualità delle band che calcano il palco secondario, sia per l’ormai certificata qualità dei suoni. Ottimo lo show, diciamolo fin da subito. Il trio suona come fosse un quintetto: precisi dal punto di vista tecnico, puliti nei suoni, efficaci nell’interazione coi presenti. Passano in rassegna: Killing on Adrenaline, ‘One Shot, One Kill’, Beaten Into Submission, ma l’apice viene toccato quando il gruppo fa partire l’opener di “Destroy the Opposition”, Praise the Lord (Opium of the Masses), oramai considerato un classico del death metal statunitense. Prestazione 10 e lode!
MAIN STAGE
(a cura di Nicola Furlan)
Mi fiondo sotto il bus a due piani, quello che quest’anno l’organizzazione ha dedicato alla Stampa, e seguo, protetto dal diluvio universale, l’esecuzione dei Dickless Tracy (un nome una garanzia!). I grinder di casa possono anche godere di un certo pubblico, pubblico che si rotola nel lago di fango fronte al Main Stage. In pieno delirio alcolico venti folli partono in un pogo scatenato, uno di loro vomita per terra, un altro urina, mentre, tra una spallata e l’altra, c’è pure chi ha coraggio di lanciarsi in una scivolata di pancia sul liquame appena descritto. La temperatura è gelida e la pioggia cade scrosciante, ma lo show, con la sua energia, è in grado di attirare ulteriori ragazzi, che non mollano dal primo all’ultimo secondo dell’esecuzione, capitanata dal cantante Tzeppo. “Straordinario” esordio di giornata.
(a cura di Antonio Saracino)
Un pomeriggio di pioggia breve ma intensa ha purtroppo ridotto di molto l’affluenza all’area concerti principale. Si è creato un lago di fango proprio di fronte al palco dove quattro immancabili hanno cominciato a rotolarsi. Questo spettacolo accompagna l’entrata in scena degli Orange Goblin, famosa stoner band da Londra. L’incalzante Scorpionica riscalda i cuori bagnati dalla pioggia, seguita da The Filthy & the Few dal nuovo “Eulogy for the Damned”. A questo punto il buon cantante Ben Ward nota che la pozzanghera si è riempita di gente e li benedice tutti. Appena uno spietato combattimento a furia di peni gonfiabili i goblin riprendono con Your World Will Hate This, Cities of Frost. Red Tide Rising chiude in bellezza la loro esibizione.
(a cura di Nicola Furlan)
Altra realtà grind a calcare il palco principale. Si tratta questa volta di uno dei più grandi maestri del genere: i Brutal Truth, capitanati dal carismatico Kevin Sharpe e dallo storico ed immortale bassista della scena newyorkese, Danny Lilker. I quattro esaltano i presenti. Partono a raffica brani come Ill-Neglect, Postulate Then Liberate, Evolution Through Revolution, Collateral Damage, KAP, Time, quindi i grandi classici attesi da tutti. Ma c’è pure tempo per due brani inediti che saranno probabilmente contenuti nel prossimo album. Da citare il siparietto di un fan in costume che si fa lanciare sopra la folla fino alle transenne della security che, nel raccoglierlo, lo lascia culo all’aria. Il ragazzo, con una corsa a piedi nudi nel fango, torna tra la folla e comincia a rotolarsi nel fango, con lo stupore della band che lo cita come eroe della giornata…
(a cura di Daniele Balestrieri)
Ah, i Turisas.
Se ci fosse un premio per la band più arrogante degli ultimi 10 anni probabilmente lo vincerebbero a mano bassa, con tutto che di band che “se la sentono calda”, alla Alestorm per intenderci, ultimamente non ne mancano di certo. Probabilmente il contratto fulmineo con Nuclear Blast e l’aver cavalcato l’onda del folk al suo apice più estremo deve aver dato alla testa di molti, primo tra tutti il prode Mathias Nygård, dall’arrogante narcisismo ampiamente smascherato nel corso dei contenuti speciali di A Finnish Summer with Turisas, una vasta carrellata di tuttologia e di traboccante amore per sé stesso e per la sua figura. Peccato perché la musica è ottima, ma il concerto si è rivelato ancora una volta uno spettacolo costruito a tavolino fino all’ultimo passo. La spontaneità è nascosta dietro due dita di cerone rossonero e la spocchia gronda come il sudore che imperla i volti dei musicisti ricoperti di pelliccia nella spietata umidità della notte estiva mediterranea.
Le prime linee del pubblico improvvisamente si popolano di ragazze splendide tirate a punto, con make-up rossonero e volti immacolati, eterei, mai visti fino a quel momento. L’orda di groupie (chiamate per l’occasione?) alimenta l’ego smisurato del cantante che, con gli opportuni 20 minuti di ritardo (evidentemente non era tutto più che perfetto) rovescia sul pubblico, con perfezione indubbiamente trascinante, l’ottima The March of the Varangian Guard e la coinvolgente To Holmgard and Beyond, reduci forse dell’album obiettivamente più riuscito della breve discografia dei pitturatissimi finnici. Interessante, se non prevedibile, la confusionaria One More e la promettente Into the Free, unreleased che farà parte dell’ormai imminante nuovo album, “Turisas2013”.
Eccellente la prestazione del violinista Olli Vänskä, l’unico violinista metal che agita violino e archetto con il piglio (e l’effetto) di una chitarra elettrica.
A questo punto giunge la canonica interruzione, con il cantante che – innamoratissimo della propria immagine (ha passato il 95% del tempo a fissare la telecamera, ignaro del pubblico) – decide di fare due chiacchiere con gli astanti sventolando una bottiglia di Lasko, la birra nazionale slovena. E se ne avesse iniziate a tessere lodi sarebbe probabilmente stato un insperato cenno di empatia nei confronti del resto dell’umanità e dei suoi sforzi collettivi per rendersi degna di lui, ma il “grande” Nygård, fedele al suo io di proporzioni cosmiche, inizia invece a inveire in modo del tutto gratuito e offensivo contro la birra sorella della Lasko, quella Union che era uno degli sponsor del festival e probabilmente anche congrua responsabile del suo cachet di fine serata.
Mi sono vergognato al posto suo, e per fortuna non sono stato il solo – visti i fischi partiti dal fondo. Arrivato a chiedersi “che senso ha una birra come la Union che sa solo di piscio”, c’è da chiedersi perché non l’abbiano cacciato a pedate. Qui non si parla di goliardia alla Tom Angelripper – lo sguardo spiritato di Nygård fa pensare che, oltre alle groupie artificiali, non abbia anche avuto anche qualche altra strana soffiata. In realtà tutto è solo arroganza e mancanza di rispetto. Se vuole costruire un personaggio alla Axl Rose, probabilmente è sulla strada giusta… ma ne ha di strada da macinare, e il The Messenger che ha seguito questa vergognosa boutade non è riuscito a sollevare particolarmente gli animi, tranne forse di quelli che hanno passato le 3 ore precedenti al concerto a pitturarsi il corpo e a montarsi sulle spalle pellicce d’orso e di pecora. Concludono un concerto prevedibile, e stavolta anche irritante, l’ottima Stand Up and Fight e l’immancabile Battle Metal – una setlist indubbiamente a prova di bomba che sarebbe ora di variare un po’ – magari con brani ugualmente d’impatto come Rasputin o The Dneiper Rapids.
(a cura di Nicola Furlan)
Arriva uno dei momenti più attesi della giornata. A salire sul main stage, circondati da una splendida scenografia, sia sul palco, sia nell’arena davanti, ormai piena di gente, ecco i Meshuggah, una delle più rilevanti ed innnovative band del thrash metal contemporaneo. Gli svedesi di Umeå partono, scanditi dalla solita inumana perfezione, con brani tratti dagli ultimi album e proseguono puntellando la setlist toccando quasi tutta la loro discografia. Il loro effetto è, come sempre, devastante, a livello di una montagna di granito che si sgretola sul pubblico. E, per loro fortuna, è la prima volta che si ascoltano suoni di alta qualità dall’impianto del palco principale. Alla fine la gente si allontana certa di aver assistito ad un’esibizione di quelle che lasciano il segno.