Live Report: Metaldays 2014 a Tolmin (Slo) – Part II
METALDAYS FESTIVAL 2014
TOLMIN (SLO)
20-26 LUGLIO 2014
PARTE II – 22 e 23 LUGLIO
Live Report a cura di:
Antonio Saracino, Daniele Balestrieri, Francesco Gabaglio, Nicola Furlan
Photo Report a cura di:
Daniele Peluso
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INTRODUZIONE ALLA SECONDA GIORNATA
a cura di Nicola Furlan
Come poteva mancare il classico temporale? Dalla mattina si alterna un sole ustionante, iper-riflesso dalla densa umidità presente nell’aria, a dei nuvoloni che lasciano ben intendere cosa accadrà da lì a poco… ed ecco infatti che arriva. Ci stiamo scolando delle innocenti birrette vicino ad un supermercato quando arrivano i primi tuoni. Ed alle 16 parte il disastro. Per la felicità di alcuni, che surfano a petto nudo nel fango e per la disperazione di altri che speravano di godersi il sole alla sorgente dell’Isonzo. Poco conta. Le band si susseguono senza problemi di sorta… tanto ci siamo tutti abituati. Che Metaldays sarebbe senza una tonnellata di acqua?
[Le prime band ad esibirsi tra sprazzi di sole e diluvi…]
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2° GIORNATA – 22 LUGLIO 2014
MAIN STAGE
Ad inaugurare il main stage della seconda giornatasono gli sloveni Within Destruction. Il loro brutal death metal, dalla marcatissima connotazione death classico, sbatta in faccia ai pochi presenti dato che la maggior parte delle persone sono ancora a far gligliate o raggiungono posti sicuri dato l’imminente temporale visibile all’orizzonte. Ciò non toglie che il quintetto fa bella figura. In particolare, il frontman Rok Rupnik è uno che tiene il palco con piglio, mantenendo solidanei propri headbanging la poca gente presente. Non c’è di che lamentarsi. Birretta alla mano ci godiamo il concerto in attesa dei pezzi da novanta.
Siamo circa alle sette e tre quarti ed ecco che parte il riff di Stinkupuss. Gli Obituary danno così inizio alla loro performance. Una performance devastante che mette in mostra quanto questi gruppi abbiano attitudine ed abilità. Incredibile il growl lacerante di John Tardy, così come è incredibile la setlist composta praticamente da classici. Si eseguono tra le altre Intoxicated, Infected, Chopped in Half, Turned Inside Out, Back to One, Killing Time più un’anticipazione del nuovo disco, “Inked in Blood”, in uscita sul mercato entro fine ottobre di quest’anno. Perfetti tutti. E, per chi non lo sapesse, come già accaduto in passato condividendo lo show con amici, al basso presenziava un certo Terry Butler, già nei compianti Death e nei Massacre. La percezione era aver davanti la storia del death metal floridiano, in ogni suo componente, in ogni loro nota. Immensi!
Il cielo di questo MetalDays è spesso annuvolato e la pioggia sorprende il pubblico nei momenti peggiori. Questo non impedisce alla maggior parte della gente di riversarsi nel main stage dove gli Obituary stanno per iniziare a suonare. La performance non risente delle condizioni ambientali anche se i suoni sono un po’ impastati. La setlist di oggi non delude neanche un po’ e gli Obituary rispolverano i grandi classici di Cause of Death e Slowly we Rot. Concerto a parer mio nettamente superiore a quello del Metal Days 2010.
[Donald Tardy degli Obituary in azione]
Sorriso sulle labbra, disponibilità a parlare e farsi foto con chiunque e discorsi costantemente in equilibrio tra l’universale e il faceto: nonostante le grandi personalità nel clamoroso roster, i Borknagar restano una delle band più umili del panorama pagan scandinavo.
Dopo un improvviso e sorprendente “recital” di un paio di passi tratti dal celebre (perlomeno in Scandinavia) Emil i Lönneberga di Astrid Lindgren (zampino dell’eclettismo di Lazare?), le mani si sono alzate all’unisono alle prime note dell’apocalittica Genuine Pulse, nonostante le nubi gravide di pioggia. Prestazione fulminante che ha segnato il passo per tutto il resto della performance. Presente al posto di Vintersorg l’ottimo Pål ‘Athera’ Mathiesen e ovviamente, star della serata un ICS Vortex in forma smagliante e un fenomenale Bård Kolstad, meritevole di una prestazione alle pelli davvero maiuscola cementata da un assolo spiazzante al termine di “Dauden”. Nonostante la pioggia, il pubblico ha iniziato a riempire l’arena e a gridare al ritmo di una fenomenale “Ruins of the Future” e di una eccezionale “Universal”. L’attesa dei fan non è stata vana e la conclusione di “Colossus” e dell’outro “Ved Steingaard” hanno chiuso l’ennesima prestazione magistrale di questo Metaldays 2014.
[Borknagar]
Tardi nella sera, ma in quell’unico momento privilegiato in cui non c’è un’altra band a suonare nel secondo stage, giungono Frost e Satyr a sottolineare il significato di Norwegian Black Metal tra le folle degli astanti in delirio dopo una lunga e frustrante nottata di pioggia. Sul palco i Satyricon! Come si addice alle grandi band, anche con loro lo spazio per gli errori è stato minimo e un lungo, lunghissimo soundcheck ha dissipato ogni dubbio: l’esplosione iniziale di “Now, Diabolical” ha rapito le folle, trascinandole in un viaggio tra l’oscura Forhekset e tracce meno osannate come “Our World, it Rumbles Tonight” e “Die By My Hands”.
Prestazione “come da CD”, per così dire, non senza un paio di intermezzi di Satyr volti a coinvolgere il pubblico prima di immensi cavalli di battaglia come “To the Mountains” e l’immarcescibile “Mother North”, storica conclusione di pressoché ogni concerto ripetuta con religiosa dedizione e tumultuoso coinvolgimento del pubblico.
[Satyr, cantante della band]
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SECOND STAGE
La prima band a calcare un palco in questa seconda giornata sono i Zaria, folk metal band locale che, per fortuna, riesce a trovarsi davanti quattro gatti. Almeno un po’ di pubblico dato che da lì a poco si scatenerà un acquazzone mica da ridere! I ragazzi ce la mettono tutta, ma la carenza di esperienza e di maturità si fa sentire. Per prima cosa è molto forzato il ‘contatto’ con il pubblico, in seconda battuta la proposta del sestetto è ancora poco strutturata. Mancano gli arrangiamenti necessari a compattare il brano, a garantirgli impatto ed efficacia. Bravo il chitarrista solista. Da premiare la volontà.
Come da tradizione, i Vader saltano sul palco e fanno il loro sporco lavoro. Nonostante siano le due di notte, i Polacchi mettono su la consueta distruzione sonora. Degna di nota la setlist piena di classici come Sothis, Halleluyah!! (God is dead) e per concludere This is the War.
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INTRODUZIONE ALLA TERZA GIORNATA
a cura di Francesco Gabaglio
La giornata inizia poco dopo le 8.30: il sole splende impietoso sul campo e obbliga a strisciare fuori dall’umidità soffocante delle tende. Su di noi nemmeno una nuvola: le temperature del fiume sono una favola (artica), e in molti ne approfittano. Insieme ai concerti inizierà la pioggia; fortunatamente ci darà tregua al tramonto, permettendoci di godere appieno dei maggiori concerti in programma: Amorphis, Asphyx, Volbeat e Possessed su tutti. Anche se con i Volbeat le cose non andranno esattamente come previsto…
3° GIORNATA – 23 LUGLIO 2014
MAIN STAGE
Il bello dei festival in stile Metaldays è che non sai mai cosa trovi… Hai una scaletta di nomi conosciuti alternati a cose mai sentite prima che, molto spesso, celano veri talenti. Alla terza giornata trovi sul calendario degli eventi gli Space Unicorn of Fire! E ti dici: cazzo, sarà mai possibile che mi perda una band con un nome così? Metti in conto di farti due risate o di restar colpito… nel nostro caso è valsa la seconda opzione. La band suona un power metal ispirato agli Helloween e lo fa con grande disinvoltura dato il notevole bagaglio tecnico a disposizione. Il fatto di avere una sola chitarra apre un dubbio fin da subito. Saranno in grado di garantire continuità esecutiva sulle parti soliste senza che venga meno l’impatto? Possiamo affermare con soddisfazione che la band ce l’ha fatta. È stata davvero grandiosa. Pezzi friubili, canticchiabili e convincenti. I ragazzi poi, presentatisi vestiti di tutto punto, hanno anche fatto una bella figura sul palco, alla pari dei più navigati colleghi di giornata. Banda da tenere sotto occhio!
[Matjaž Li?ar, tastierista degli Space Unicorn on Fire]
Band di vecchietti direbbe qualcuno. Ed avrebbe anche ragione. Gli Artillery non sono più tanto giovani, anche se il cantante e il batterista non sono quelli della line-up storica. Poco cambia, la band ha sempre avuto grande stile. Il loro speed-thrash metal di matrice europea è sempre ascoltabile con immenso piacere, sopratutto quando ad essere proposte sono le canzoni dei capolavori “Terror Squad” e “By Inheritance”, giusto per citare i più significativi. Lo show scivola via velocemente senza particolari momenti di punta, con una band puntuale e professionale che evita smancerie e particolari slanci di entuasiasmo. Un lavoro fatto bene da gente di mestiere.
[Morten Stützer, storico chitarrista degli Artillery]
Grande lo show dei finlandesi Amoprhis (pure da noi intervistati in queste pagine). La band capitanata dal talentuoso Esa Holopainen, sempre iper attiva sul mercato (quattro full-length negli ultimi cinque anni) e on the road con una moltitudine di tour mondiali, conferma ciò che questi numeri esprimono: grandissima professionalità e capacità fuori dall’ordinario. Grande partenza di scaletta. Tra i grani pezzi proposti arrivano uno dietro l’altro: ‘Shades of Gray’, ‘Narrow Path’, ‘Silver Bride’, ‘Sky Is Mine’, il tutto supportato da un attento operato fonico e da un parco suoni del main stage finalmente all’altezza della situazione. Tomi Joutsen, sempre attivo sul palco e grande interprete delle linee vocali, questa volta, forse è un po’ in sordina nel rapporto con il pubblico. Da questo punto di vista, gli Amoprhis si confermano una band in grando di esprimersi meglio in location ‘contenute’ (per personale esperienza). Dopo una brevissima pausa ecco il sestetto tornare on-stage e proporre nientemeno che ‘My Kantele’ e ‘Thousand Lakes’ con una breve puntata all’ultimo disco del 2013 “Circle” grazie ‘Nightbird’s Song’ ed ‘Hopeless Days’. Atteso l’encore che, oltre a ‘The Smoke’, impatta sul buio cielo sloveno le note di ‘Black Winter Day’. Capolavoro atteso da tutti come da tradizione. Un concerto di grande qualità. Una delle migliori esibizioni del main stage di questa edizione 2014.
Giudicata da molti l’esibizione migliore dell’intero festival, il concerto degli Amorphis si e’ rivelato atteso, ricercato e senza dubbio un gran successo, strappando con forza la corona ai supposti “headliner” Volbeat. La flemma di una band navigata da quasi 25 anni si riconosce e il palco è ancora una volta popolato con fermezza e carica a non finire. Joutsen dimostra di essere un animale da palco come sempre è stato suo sogno e lo dimostra “sbrigando le formalità” in prima e seconda battuta, con una doppietta “Shades of Gray” e “Narrow Path” direttamente presa da Circle. Parlo di formalità perché noto è il suo grande amore per i primi Amorphis, che ben mettono in mostra la sua abilità nel growl – e infatti inizia a questo punto il viaggio a ritroso con Silver Bride, il vero punto di contatto tra tutta l’arena, ormai stracolma di fan in delirio, e con quella Sky is Mine in grado di trascinare le folle grazie al suo incedere orecchiabile e turbolento.
Il discorso inizia a farsi serio con un intermezzo che ha portato qualche lacrima agli occhi delle volpi più vecchie, quel solenne Thousand Lakes che apre le cataratte verso Into Hiding, perla di Tales from the Thousand Lakes, e diritto verso Vulgar Necrolatry.
Volumi come al solito non proprio eccezionali per chi si trovava tra le primissime file: le casse orientate verso l’esterno creavano un campo di vuoto che consentiva persino alle persone schiacciate sulle transenne del pit di parlare tra di loro senza urlare; in compenso il mix degli strumenti si è rivelato sufficiente, a discapito delle tastiere spesso sacrificate sotto il muro delle chitarre.
Ottimo encore a sorpresa con “The Smoke” – tratto da uno degli album più amati dalle nuove generazioni di fan degli Amorphis – e ovviamente con l’immancabile Black Winter Day, cesura e consacrazione del concerto come da venti anni a questa parte. Nulla di particolare da specificare perchè nulla di particolare è emerso dal concerto: l’enorme esperienza della band ha ancora una volta realizzato un prodotto perfetto, solido e per lo più prevedibile, il che può essere un bene… e volendo anche un male.
[Il cantante degli Amorphis, Tomi Joutsen]
Consci del loro status di rivendicatori del patrimonio rock ‘n’ roll europeo, i Volbeat fanno il loro ingresso in magna pompa davanti a un’arena gremita e pronta a osannare quell'”Outlaw Gentlemen and Shady Ladies” particolarmente osannato nella loro madrepatria Danimarca e che gli è quasi valso un Grammy per la miglior performance Metal.
L’attesa giunge al termine con l’intro di Doc Holliday che ha saputo trascinare le folle al modo di Megadeth o Sabaton – grazie anche a un cospicuo aumento di volume e a un soundcheck rifinito all’inverosimile. L’atmosfera quasi rockabilly è stata ben palpabile con una breve apparizione della celeberrima Ring of Fire che ha lasciato il posto a Sad Man’s Tongue e a un Poulsen sempre più assomigliante a un neo-Hetfield del rock-heavy metal, ma allo scoccare del venticinquesimo minuto cala un inspiegabile silenzio di tomba. Prima Michael Poulsen e poi i membri della band abbandonano lo stage senza alcuna spiegazione. Passano i minuti e la band non torna – iniziano a rimbombare i fischi e gli ululati della folla. Dopo poco tempo gli strumenti iniziano a essere smontati di fronte a una folla attonita.
Solo dopo diverso tempo si viene a sapere – tramite terzi – che Poulsen ha avuto dei problemi alla voce e non ha terminato il concerto.
I problemi sono legittimi; tuttavia il negare una spiegazione, o una scusa, nemmeno da parte di uno dei membri della band, non è certamente segno di rispetto nei confronti dei fan. Sono a volte le piccole cose che rendono grandi gli uomini, e una frase sottovoce da parte del cantante avrebbe risparmiato la valanga di insulti uditi da parte di chi, invano, attendeva il loro ritorno.
[Rob Caggiano dei Volbeat]
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SECOND STAGE
Il thrash attira sempre e quando senti partire dei riffoni arroganti, allora passi a prenderti una birra e ti dirigi zampettando verso il second stage del Metaldays, spesso fucina di veri campioni del metal. Ahimé, questa volta non è così. Sembravano partiti bene, ma invece, alla lunga, i thrasher svizzeri Total Annihilation hanno deluso. Poca capacità tecnica (molti errori!), pochi soli a firma delle canzoni, poca melodia e riff che partono bene e si ripetono senza la minima variazione fino a conclusione del brano. Idee davvero poche, attitudine ancora di meno. Peccato…
Ora si che si ragiona! Quando si parla di thrash metal non è possibile non ammirare gli statunitensi Havok, devastante esamble capace di mandare il delirio il pubblico presente. Bravi, dal primo all’ultimo. Capaci a sostenere un pubblico in delirio con una mitragliata di brani dal potenziale elevatissimo. Un thrash metal puro che non sa di vecchio, unito alla capacità innata a tenere il palco, ha reso l’esibizione del quartetto di Denver una delle più devastanti che il second stage abbia proposto in questa edizione. Lo dimostra anche la mega affluenza davanti alle transenne e gli straordinari fatti dalla crew-security nel sfrondare orde di metalheads lanciati in stage diving dal primo all’ultimo minuto. Band da seguire! Sopratutto live…
Il cielo ha da poco smesso di piangere; e ciò è ironico, se pensiamo che sul second stage stanno per esibirsi i Forgotten Tomb. Inizialmente la band non era prevista nel bill del festival, ma la defezione all’ultimo minuto di alcune band ha provocato, tra le altre, questa (graditissima) aggiunta. L’inizio del concerto avviene un po’ in anticipo, con i Nostri che attaccano sulle note di Reject existence. Il pubblico non è ancora particolarmente folto e i suoni (soprattutto quelli di voce e prima chitarra) sono leggermente impastati. Tuttavia già dai brani iniziali la band dimostra un’ottima tenuta di palco, sul quale spicca un Herr Morbid particolarmente coinvolto accanto ad un Algol-Joey DeMaio altrettanto in forma. Completamente statuario invece il primo chitarrista A., che non si muoverà quasi per tutto il concerto. Arrivati al terzo brano, Shutter, il suono è migliorato; la voce di Herr Morbid non è troppo effettata, ma questo non risulta essere un grosso problema né sui brani vecchi né su quelli nuovi.
Pure il pubblico si è decisamente infoltito e si dimostra molto coinvolto. Dopo aver abbozzato il riff di Iron Man, ruffiano tributo ai Black Sabbath, la band esegue una devastante Daylight obsession, che si evidenzia come una delle punte del concerto: è infatti col materiale datato (non a caso generalmente giudicato migliore) che i Forgotten Tomb convincono maggiormente. L’intesa tra i membri del gruppo si fa particolarmente evidente verso la fine del concerto, quando anche il chitarrista A. si scioglie un poco. I quattro emiliani terminano il concerto rivolti verso Asher, autore di una performance alle pelli di tutto rispetto. Il pubblico è galvanizzato e accenna ad un «we want more» ma purtroppo il tempo è scaduto; la band deve perciò ritirarsi, visibilmente soddisfatta tra le acclamazioni degli astanti.
[Herr Morbid, carismatico frontman dei Forgotten Tomb]
Come il second stage sembra ormai averci abituati, anche i Possessed iniziano il loro concerto con qualche minuto di anticipo; tuttavia il pubblico è già numeroso sin dalla prima canzone, Pentagram. Il volume è incredibilmente alto, tanto da risultare involontariamente distorto: il secondo palco non è probabilmente adatto a sopportare certi livelli sonori e anche le interferenze sono perciò inevitabili, benché non troppo numerose. Gli spettatori sono coinvolti e con Tribulation qualcuno si dà al crowd surfing, cosa che qui al second stage non è troppo frequente. La band è illuminata da un impianto luci prevalentemente rosso e l’atmosfera è a dir poco sulfurea. L’esecuzione è grezza e violenta e gli assoli di Mike Pardi sono impressionanti, ma la band pare statica e fredda; e ciò non dipende certo dalla ridotta mobilità di Jeff Becerra, il quale è anzi attivo e coinvolto. Le interferenze sonore sono nel frattempo sparite e dopo Twisted Minds il vocalist presenta la band, chiedendo applausi al pubblico per l’ospite speciale alla batteria, il devastante Nicholas Barker. La scarsa alchimia sul palco è probabilmente dovuta anche al fatto che a suonare ci siano ben due session musician (i citati Pardi e Barker, per l’appunto); del resto, quello della lineup è un problema che attraversa tutta la storia della band statunitense. Dal lato prettamente esecutivo non le si può tuttavia rimproverare nulla, e quindi ecco che sulle note di pezzi come My belief e Swing of the axe il pubblico non riesce a star fermo. Becerra annuncia poi un brano scritto recentemente ma inedito: si tratta di The crimson spike, entrata a far parte delle setlist della band dal 2013 e che non tutti apprezzano. L’attacco di The exorcist manda invece in delirio proprio tutti, nonostante l’esecuzione non sia totalmente perfetta. Dopo Satan’s curse il pubblico sembra ormai stanco e qualcuno se ne va nonostante le vigorose esortazioni di Becerra. Il finale del concerto non può che essere Death metal: sul finire della canzone Martin van Drunen (esibitosi con gli Asphyx poco prima) compare sul palco e, dopo aver abbracciato Becerra, canta le ultime parole del brano con lui. Il pubblico urla a gran voce di volerne ancora; dal canto suo il quartetto americano temporeggia indeciso sul da farsi finché Becerra, visibilmente stanco, decide di ritirarsi ringraziando affettuosamente il pubblico, che applaude soddisfatto. Sordo, certo; ma soddisfatto.
…e domani l’ultima parte del mega report!!!