Live Report: Metaldays 2014 a Tolmin (Slo) – Part III

Di Daniele Peluso - 31 Agosto 2014 - 10:36
Live Report: Metaldays 2014 a Tolmin (Slo) – Part III

METALDAYS FESTIVAL 2014
TOLMIN (SLO)
20-26 LUGLIO 2014

PARTE III – 24 e 25 LUGLIO

Live Report a cura di:
Antonio Saracino, Daniele Balestrieri, Francesco Gabaglio, Nicola Furlan

Live Report Riot V a cura di
Marco Doné
 

Photo Report a cura di:
Daniele Peluso

— — — —

INTRODUZIONE ALLA QUARTA GIORNATA
a cura di Nicola Furlan

Ci si avvicina sempre di più alla fine di questo favoloso festival. Ancora una giornata nuvolosa accoglie i nostri sbadigli alcolici mattutini, ma per fortuna, oggi, la baracca regge. Prong, Moonsorrow e Megadeth sono i nomi eccellenti della giornata, ma pure il second stage attira (che ricordiamo attrae tantissimo per l’aurea scura che lo abbraccia e per dei suoni strepitosi!). Si attendono infatti gli storici Riot. Via alle danze quindi…

4° GIORNATA – 24 LUGLIO 2014

MAIN STAGE

Sarebbe mai potuto mancare un po’ di sano thrashcore di sponda newyorkese? Non sia mai! Ed ecco quindi i Prong, storica band nel circuto del metal da quasi trentanni. La domanda che sorge spontanea dopo il primo brano è: ma sono davvero in tre sul palco? Sì, perché credeteci, i Nostri sono davvero degli schiacciasassi. Fuoco quasi subito ai classici di inizio carriera. Nemmeno arrivati a metà set e già sono stati eseguiti ‘Beg To Differ’, ‘Lost And Found’, ‘Unconditional’, tanto per scaldare gli amini (come se ce ne fosse bisogno, dovevate vedere il massacro sotto il palco!). Spazio alla fine per gli ultimi dischi che, di fatto, hanno un impatto più morbido dati gli orientamenti compositivi che la band ha intrapreso negli anni Duemila. Anche se ‘Turnover’ è un brano che spacca da paura anche dal vivo! La band ha lasciato un segno profondo in questa giornata. Ha saputo attrarre, ha illuminato la già bruciante valle slovena con un concerto perfetto e pregno di attitudine fino al midollo osseo. Devastanti!

Dopo una lunga attesa durata ben undici anni riesco finalmente a rivedere i Prong! Thrash band per me semisconosciuta nel 2003, ho imparato ad apprezzarli  proprio dopo averli visti in quello storico Summer Day in Hell bolognese. Quello che ti colpisce subito dei Prong è la loro unicità e il groove contagioso in canzoni come Snap Your Fingers Snap Your Neck e Whose Fist is this Anyway? Per questo motivo risaltano notevolmente  basso e batteria. Sul palco risultano eccezionali, muovendosi di continuo e provocando il pubblico. Le canzoni suonate provengono sprattutto da Beg to Differ e Carved into Stone, chiudendo appunto con la loro famosissima Snap Your Fingers. Un pubblico energizzatissimo apprezza la prestazione della band, consacrando uno dei concerti più belli di questo Metal Days.


[Il bassista dei Prong, Jason Christopher]

L’aria è grave nei pochi minuti che precedono l’entrata dei Moonsorrow sul palco del Metaldays 2014, e come potrebbe essere altrimenti: votati all’apocalittico come non mai, i nostri finnici presentano sullo sfondo la tragica copertina di Varjoina kuljemme kuolleiden maassa e luci blu tenebrose sull’incalzare delle note di 1065 Aika, un inizio quantomai desueto per chi si aspetta che una band inizi celebrando l’ultimo album prodotto. Nonostante tutto, Suden Uni rimane uno degli album più facili da riprodurre dal vivo e in questo particolare concerto, i Moonsorrow hanno voluto giocare sul sicuro – mossa che personalmente condivido in pieno dopo le delusioni passate di arrangiamenti più o meno riusciti di epopee come V: Hävitetty o Verisakeet, che sono stati in più di un’occasione triturati e riproposti con tagli e rimaneggiamenti più o meno evidenti. E sì che è stato presentato anche Pimeä, certamente il grattacapo più grande in una setlist che è riuscita ad accontentare tutti, dai fan più antichi fino ai nuovi arrivati. Sublime l’incarnazione di Kivenkantaja (finalmente!) e della bellicosa Sankaritarina. Tuttavia è proprio nel brano conclusivo che la band ha sguainato l’arma più tagliente e ha trascinato la folla ormai in preda al delirio nei 15 minuti di Kuolleiden Maa, non solo l’unica canzone in grado di concludere degnamente il concerto, ma LA canzone conclusiva per eccellenza, un’esplosione di epos drammatico grazie al suo crescendo e al finale terribile, spietato e senza un filo di speranza. La sensazione di sgomento generale ha ceduto il passo all’epica ballad corale di Matkan Lopussa, in degradante fade-out mentre lo staff smontava gli strumenti. Il primo concerto dei Moonsorrow che posso dire di essermi goduto appieno dopo le prestazioni a Wacken e al tour di Havitetty decisamente sotto le righe; in questo caso, gran parte del merito è dovuto al loro suonare nel palco principale e a suoni finalmente degni di una band del loro calibro, anche se non perfetti.


[Ville Seponpoika Sorvali dei Moonsorrow]

I grandi attesi della giornata sono anticipati dal calo completo delle luce del main stage a mo’ di pathos adrenalinico. Nel frattempo cominciano a lampeggiare loghi e video sull’intro di ‘Prince of Darkness’ e qualche stridulo suono, come se l’impianto non funzionasse e tutto diventa confuso. Ad un certo punto il boato si scatenza. Boato che diradandosi lascia spazio ad ‘Hangar 18’, masterpiece tratto da uno dei dischi più belli della storia del metal di tutti i tempi “Rust in Peace”. È iniziato il concerto dei Megadeth! La band si presenta in grande forma. Date le notevoli doti tecniche, chi penserebbe mai il contrario? Perfette le esecuzioni dei brani d’una scaletta che lascia poco spazio i nuovi pezzi, concentrandosi più sul passato. Saltano pure magicamente fuori dal cilindro le inattese ‘Dawn Patrol’ e ‘Set the World Afire’, gioielli di una discografica con pochissimi punti bassi. Dicevamo, la setlist… Eccola qua, tanto per darvi idea della qualità proposta on-stage: Hangar 18, Wake Up Dead, In My Darkest Hour, Tornado of Souls, Sweating Bullets, Skin o’ My Teeth, Dawn Patrol, Poison Was the Cure, Set the World Afire, She-Wolf, Trust, A Tout Le Monde, Public Enemy No. 1, Kingmaker, Symphony of Destruction con i due bis finali del calibro di Peace Sells ed Holy Wars… The Punishment Due.
Come se non bastasse, il palco era strapieno di video giganti (gli stessi presenti in occasione del Big4) che rappresentavano il sottofondo visuale dei brani. Non sono mancati nemmeno i siparietti di Mustaine (diventa ogni giorno più teatrale!) ed alcuni video tra un brano e l’altro con spezzoni di film e battute divertenti. Ciliegina sulla torta? Mustaine migliora la sua prestazione vocale e la sua tenuta di concerto in concerto (sulla base di quanto visto in sede live negli ultimi cinque anni). Uno show indimenticabile!


[Il famigerato frontman dei Megadeth, Dave Mustaine]

— — — —

SECOND STAGE

Un po’ di brutal death metal ai festival non fa mai male. A chi piace l’estremo non dispiace mai una parentesi di puro massacro tra band che magari si destreggiano tra l’heavy, il power o l’hard rock. D’altronde ai festival di generi ce ne sono spesso parecchi, per cui saper di potersi dissetare ogni tanto col sangue del massacro di gruppi dediti alla brutalitò, male non fa! È stato il caso dei francesi Benighted. Un gruppo che si destreggia egregiamente tra un grindcore moderno ed un brutal death metal assai tirato. Setlist incentrata sui brani dell’ultimo full-length uscito quest’anno “Carnivore Sublime” anche se, non me ne vogliano i più fedeli fan, poco cambia tra questi pezzi ed altri di carriera. Il gusto che si prova da questa band sul palco è quasi indipendente dal pezzo proposto! Straordinari nella loro ordinarietà di genere, i francesi hanno avuto l’occasione di trovarsi davanti un gran numero di fan e simpatizzanti. Il buio del second stage (dislocato su una zona molto poco illuminata…) ha garantito la giusta cornice al massacro generato dai costanti circle pit. Un altro gran bel concerto!

Le aspettative per il concerto degli Inquisition erano, per quanto riguarda il sottoscritto, davvero alte. Forte del suo ultimo, ottimo album Obscure verses from the multiverse (e di una carriera quasi ventennale), il duo colombiano prometteva fuoco e fiamme. Una batteria, una chitarra e una voce. Facile mettere in piedi un concerto, no? Apparentemente no.
Le luci si spengono puntualmente alle 22.25, ma il soundcheck non è avvenuto; e infatti gli Inquisition non hanno ancora fatto capolino sul palco. Al suo posto i tecnici, che cominciano solo ora a testare il suono. Devono evidentemente esserci problemi con la chitarra e in particolare con un amplificatore, i quali vengono verificati, regolati e ri-regolati a più riprese senza che il suono cambi davvero. Il tutto avviene inspiegabilmente al buio e con l’aiuto di torce. Dopo un rapido check della batteria finalmente s’inizia con quasi un quarto d’ora di ritardo. I problemi iniziano non appena termina l’intro e il duo comincia a suonare davvero, con Force of the floating tomb. Il suono è piatto, la voce è troppo esposta, il suono della chitarra è a dir poco impastato e i kick della batteria sono inudibili: niente a  che vedere con il devastante sound dell’ultimo disco. È impossibile capire come stiano davvero suonando i colombiani, l’unica cosa certa è che la prestazione vocale di Dagon è di tutto rispetto. Come se non bastasse, a metà del primo brano un’interferenza nell’amplificazione produce penetranti e fastidiosissimi fischi. La soluzione adottata dallo staff è quella di abbassare drasticamente il volume di voce e chitarra, tanto che quest’ultima praticamente scompare. Siamo già al terzo brano e il pubblico è visibilmente sconsolato, quando non indignato. Qualcuno se ne va, qualcuno lancia occhiatacce verso il mixer e qualcuno, fedele nella sventura, non si fa scoraggiare e incita la band, la quale del disastro non ha probabilmente colpa. I tecnici si assiepano intorno ai monitor; il volume della chitarra viene riportato a livelli normali e il suo suono migliorato gradualmente. Le grancasse sono però ancora un rimbombare indistinto. A dieci minuti dalla fine la qualità e il volume di chitarra e voce sono finalmente buone; pian piano anche la batteria migliora, giusto in tempo per la magnifica Infinite interstellar genocide, che risulta godibile appieno. Peccato che questo sia l’ultimo brano e che il concerto sia finito. Ringraziati Satana e gli spettatori Dagon e Incubus si defilano, condividendo probabilmente col pubblico la delusione e la perplessità riguardo a quello che è stato un concerto al di sotto della media del festival.

Quando si nominano i Riot viene a crearsi un atmosfera a metà tra mito e leggenda. Una band tra le più influenti nel panorama heavy metal mondiale ma che la malasorte ha deciso di prendere sotto braccio impedendole di riscuotere quanto le spettava e le spetta di diritto. Con il revival heavy metal degli ultimi anni della prima decade del nuovo millennio, il nome Riot ha iniziato ad esser pronunciato sempre più spesso. Per la band americana, forse, si stava presentando la possibilità di raccogliere il giusto riconoscimento, od almeno una parte d’esso, a oltre trent’anni dal loro disco d’esordio. Purtroppo, la sfortuna, che ha da sempre accompagnato la band, anche stavolta ne segna il destino. Il carismatico e geniale leader e fondatore, Mark Reale, viene tristemente a mancare nel 2012 dopo aver ricomposto la stessa formazione di “Thundersteel”, quello che risulta essere uno dei dischi più importanti dell’heavy metal, a detta di chi scrive al pari di “Painkiller” dei Judas Priest, ed aver pubblicato un nuovo disco, “Immortal Soul”.
La storia dei Riot sembra finire qui ma Don Van Stavern e Mike Flyntz, rispettivamente bassista e chitarrista, decidono che il nome Riot e la leggenda di Reale non possono finire in maniera così ingiusta. Con il permesso e consenso della famiglia del compianto leader, decidono di andare avanti con il nome Riot V.
Trovata una formazione stabile e convinta nel progetto iniziano quindi a calcare i palchi di tutto il mondo mantenendo viva l’anima, la leggenda, la musica di Mark Reale e dei suoi Riot. Proprio in una di queste date, il 24 luglio, noi di TrueMetal non potevamo mancare. La cornice è quella del Metaldays, a Tolmino, in Slovenia. Un festival ed una location che non hanno sicuramente bisogno di presentazioni, una sorta di valle incantata che ogni anno ospita uno tra i più belli ed importanti festival europei. Nella timeline odierna, ai Riot V spetta il compito di chiudere la giornata. Si esibiranno all’1:00 di notte sul second stage. Il loro live partirà poco dopo la fine dello show dei Megadeth sul main stage.
Purtroppo, durante la giornata, la timeline delle esibizioni subisce delle variazioni, così, a fine concerto dei Megadeth, quando ci spostiamo sul second stage, i Riot V hanno gia iniziato. Con grande rammarico scopro che stanno gia eseguendo il sesto pezzo della serata. Resta il fatto che dopo la rabbia iniziale, esser accolti da una “Johnny’s Back” fa dimenticare ogni cosa e ci proietta in quello che sarà uno dei concerti più convincenti della settimana. Il nuovo singer, Todd Michael Hall, è in forma smagliante e raggiunge le tonalità più acute, che su disco erano di Tony Moore, con estrema disinvoltura e facilità. La scaletta è di quelle tritaossa, “Hard Lovin’ Man”, “Fire Down Under”, “Sign Of The Crimson Storm”, la devastante “Angel Eyes”, si susseguono per la gioia dei fan presenti sotto il palco. Il festival non ha di sicuro le sonorità più classiche nel suo dna ma nonostante questo e la tarda ora, la perfomance del combo di New York riesce ad attirare ugualmente un buon numero di appassionati. Come detto Todd Michael Hall sforna una prestazione eccezionale, forse potrebbe fare di più come presenza scenica ma con le sue movenze seventies riesce ugualmente a far presa sul pubblico. Letteralmente devastante la prestazione di Gilchriest alla batteria. Pesta duro come pochi, estremamente preciso e grande presenza scenica. Non mancano infatti evoluzioni con le bacchette ed headbanging durante l’escuzione dei pezzi. Don Van Stavern, un po statico sul palco vista la sua attuale mole, sfodera un look in puro eighties style e si dimostra, una volta in più, bassista di valore. Mike Flyntz regala la “solita” gran prestazione alla sei corde e tiene il palco con esperienza. Il nuovo Nick Lee, all’altra chitarra, si dimostra un ottima ascia e ci mette aggressività da vendere anche se, a tratti, il suo modo di tenere il palco risulta un po slegato al resto della band. I suoni risultano buoni anche se le chitarre vengon leggermente penalizzate ma nonostante questo i Nostri ci danno dentro alla grande. Arrivano la più recente “Still Your Man” e “Flight Of The Warrior”. Prestazione da brividi con la splendida “Bloodstreet” in cui il pubblico fa sentire la sua presenza. Quel velo di tristezza che vive nella canzone, sommata all’ambientazione del second stage, crea un atmosfera unica. Giunge poi il momento più intenso, emotivamente parlando, dello show. Michael Hall prende e mostra al pubblico una custodia di chitarra riportante “Mark Reale Riot”, Flyntz prende una bottiglia di tequila e riempie dei bicchieri che distribuirà al resto della band, un brindisi alla memoria dello storico leader e si parte con “Swords & Tequila” in cui il pubblico parteciperà alla grande.
Arrivano i consueti encore e vengono suonate le immortali “Warrior” e “Thundersteel”, Michael Hall e Gilchriest impressionano una volta in più per la tenuta e precisione, il pubblico risponde alla grande. Il tempo è finito i Riot V ringraziano ma il pubblico non ci sta, scandisce a gran voce il nome Riot! La band chiede all’organizzazione di fare un altra canzone, il pubblico chiama i Riot con voce sempre più forte, Gilchriest non aspetta il consenso e torna dietro alla batteria ed inizia a suonare, il resto della band riabbraccia gli strumenti ed ecco arrivare una “Outlaw” da paura! Ora è veramente arrivata la fine dello spettacolo, i Riot V ringraziano, il pubblico applaude. Un concerto carico di pathos e prestazione superlativa della band. Una band incredibilmente sottovalutata e che non ha mai ricevuto ed ottenuto il giusto merito e ruolo nella storia dell’heavy metal. Una band da cui formazioni ben più blasonate ed osannate hanno attinto a piene mani, andando a volte ben oltre la sola ispirazione. Mark Reale non c’è più ma questa formazione ne omaggia il ricordo come meglio non si potrebbe fare.

— — — — — — — —

INTRODUZIONE ALLA QUINTA GIORNATA
a cura di Francesco Gabaglio

Le cose belle durano sempre troppo poco: è quello che in tanti avranno pensato svegliandosi la mattina del 25, ultimo giorno di festival. Freyr ha deciso di inondarci abbondantemente di sole; noi di approfittarne per abbronzarci in spiaggia coi piedi in ammollo. È la giornata più calda della settimana; nonostante quella di bere rum e birra a più non posso sotto il solleone non sia stata un’idea propriamente geniale, riusciamo a recuperare le forze e il senno prima dei concerti con una pennichella e qualche (litro di) energy drink. Anche oggi le band notevoli non mancano, ma l’attesa si fa trepidante per una in particolare. Una band che alla parola ‘tamarro’ ha dato nuovo lustro e significato…

5° GIORNATA – 25 LUGLIO 2014

MAIN STAGE

I Soen aprono un pomeriggio abbastanza tranquillo dal punto di vista musicale. Una superband formata tra l’altro dal batterista Martin Lopez (ex Opeth e Amon Amarth) e dal bassista Steve Digiorgio (Sadus, Death, Testament) che però non era presente. I Soen propongono uno sludge un po’ psichedelico a la Tool, molto incentrato sulla voce, ed a tratti ricordano anche i Mastodon. Caratterizzati da ritmiche abbastanza lente e una mancanza totale di assoli, riscuotono comunque un discreto successo tra il pubblico, chiaramente costituito da un nocciolo duro di fan che non si sono fatti spaventare dal cielo minaccioso Tolminese.


[Il talentuoso Martin Lopez in azione con i Soen]

Stoner, rock psichedelico, doom… un po’ di Type O Negative, Black Sabbath, Orange Goblin… ecco sul palco i tedeschi Kadavar, band marcia a vedersi, ma dotata di un’attitudine notevole. Il terzetto pesta come pochi, scarica sui presenti rabbia rock palpabile. Colpisce lo stile, sia visivo, sia qualitativo. Il set proposto è stato pregno di un ricercato gusto Seventies pur non disdegnando il tipico groove dell’era ‘moderna’. Band interessante che, mea culpa, non conoscevo se non per qualche brano ascoltato qua e là. I ragazzi ci sanno fare…

Dopo una certa confusione con gli orari e mancanza di comunicazione da parte della organizzazione, giunge finalmente il turno della storica band portavoce del doom inglese, Il pubblico, già riscaldato dalle due band precedenti di simile tenore, apprezza la intro forte di campane a morto in pieno stile My Dying Bride. Ciò che si nota fin da subito è la teatralità e l’espressività del singer Aaron Stainthorpe, che riesce a tradurre perfettamente in gesti e voce il dolore delle proprie canzoni. Il violino non fa altro che accentuare questa sensazione di sofferenza. Dopo una decina di minuti il pubblico si infittisce e la band gli consegna canzoni del calibro di The Thrash of Naked Limbs, She is the Dark e le classiche Cry of Mankind e Turn Loose the Swans.


[Il giovane Shaun Macgowan, violinista e tastierista dei My Dying Bride]

— — — —

SECOND STAGE

A portare avanti la rinomata tradizione brutallara del second stage del MetalDays ci pensano i Suffocation. Si fanno perdonare il lievissimo ritardo entrando in scena, salutando cordialmente il pubblico e rovesciandogli il contenuto dell’Inferno sulla testa, già provata dal calore tolminiano. I riff sono violentissimi, gli assoli di Terrence Hobbes precisissimi  come sempre e il cantante dimostra di divertirsi genuinamente, scambiando battute col pubblico e ogni tanto raccontando storie della propria infanzia a mo’ di intro dei propri brani. Aprono con Catatonia, seguita da Effigy of the Forgotten e Pierced From Within. Mullen continua ad energizzare il pubblico, scusandosi umilmente di non poter scendere  dal palco a far casino per via di un infortunio al ginocchio. Comunque “YOU CAN’T FUCKING KILL DEATH METAL”, continuando a dimenarsi. Non manca la canzone d’amore per le coppiette presenti, Entrails of You. Come l’anno scorso il second stage vanta dei suoni perfetti, che mettono in risalto l’abilità di band come Immolation e Asphyx. Gli Immolation non sono da meno ed il risultato è uno dei concerti death più godibili che abbia mai visto. As Grace Descends e Purgatorial Punishment seguono, intervallate sempre dalle apprezzabili descrizioni del cantante, mentre a chiudere è proprio Breeding the Spawn.


[Il devastante Frank Mullen dei Suffocation]

Alle tre del mattino del 26 luglio tocca infine alle note melanconiche dei Tiamat chiudere il festival per quest’anno. Avendo ormai perso la strada del death metal da parecchi anni, i Tiamat suonano un gothic/dark con una voce molto profonda e piacevole da ascoltare. Purtroppo uno degli ultimi concerti con Johan Hedlund alla voce, che ad aprile aveva annunciato che avrebbe lasciato la band per motivi di salute. Anche per questo, il pubblico del MetalDays dimostra di apprezzare parecchio il concerto, nonostante l’ora tarda.
 

Approfittiamo dell’occasione per salutare i balordi che abbiamo trovato al festival. In particolare gli utenti di TrueMetal e relative/i consorti con cui abbiamo condiviso le birrette sulla strada, i tramonti offuscati da pioggia e fumi dell’alcol, le mangiate nelle osterie, le colazioni mattutine e le passeggiate per la valle. Un mega salutone anche al ‘collega’ Enrico Dal Boni di Metalitalia… a parte il tempo passato assieme, sappi che è sempre un piacere vederti solitario e scazzato in compagnia del nostro Daniele ‘Troll’ Peluso sotto il tendone press ad aspettare la prossima lotta nel photopit! E con questo, è tutto!!!
 

Rock on …arrivederci al prossimo anno!!!

— — — — — — — —