Live report: Nile, Krisiun, Grave all’Alpheus di Roma

Di Francesco Sorricaro - 1 Dicembre 2009 - 4:29
Live report: Nile, Krisiun, Grave all’Alpheus di Roma

 

Seconda serata all’insegna del death metal nel giro di 40 giorni all’Alpheus di Roma; secondo mini-festival, perchè così si potrebbe chiamare data la mole di band che hanno calcato questo palco sia nella passata data di supporto ai Cannibal Corpse, sia per questa tappa del Those Whom The Gods Detest Tour dei Nile.

I “faraoni” della South Carolina, considerati a ragione come una delle tre-quattro migliori band, se non proprio la migliore attualmente, dell’intero panorama death e brutal death, hanno chiuso un’altra serata divertente all’insegna dei suoni più duri e delle tematiche catacombali e sarcofagali di gruppi che, a dispetto di un pubblico non eccessivamente numeroso come in altre occasioni, hanno davvero onorato la scena e l’entusiasmo di tutti i fortunati presenti.

Clima insomma ad alto tasso di carica positiva, spirito di condivisione e disponibilità di tutti i musicisti, che non era difficile vedere divertirsi tra il pubblico ed incitare i compagni di tour, ad ulteriore dimostrazione che il genere death, pur mietendo sempre più numerosi proseliti, rimane ancora genere di nicchia refrattario a qualsiasi compromesso o atteggiamento sprezzante.

Band danese che può vantare ben 16 anni di carriera, ai Corpus Mortale tocca l’ingrato compito di aprire le danze quando l’orologio segna appena le 19.30 e poche decine di appassionati sono presenti ad accoglierli davanti alle transenne.
Nonostante un suono non proprio perfetto, soprattutto a scapito del cantato gutturale di Martin Rosendahl, la band sciorina 6 brani del proprio brutal death con venature scandinave, dimostrando di non soffrire il ruolo e cercando costantemente l’interazione col pubblico che, alla fine, risulterà coinvolto nonostante tutto e molto favorevole all’headbanging, un esercizio questo, che servirà da riscaldamento quanto mai importante per il prosieguo della manifestazione.
La musica del quartetto non è niente di eccezionale o di particolarmente nuovo, ma i pezzi eseguiti, tra cui spiccano Postmortem Rape, Shallow Graves ed un’infuocata Mass Funeral Pyre tratta dal secondo full-lenght del 2003, vengono proposti con la necessaria determinazione ed onestà sul palco e suscitano se non altro la simpatia dell’audience.



                               

 

 

Come degli alieni in un film di Antonioni salgono sul palco gli Ulcerate, una delle band rivelazione dell’ultimo 2009 in campo brutal death (almeno a mio modesto parere). I Neo-Zelandesi di Auckland, freschi autori dello spettacolare Everything is Fire, rappresentano il nuovo che avanza nel genere e se ne accorge presto il pubblico, ancora esiguo, che resta a dir poco spiazzato dalla proposta dei quattro (alcuni non sapevano neanche che ci fossero oltre a chi fossero).
La loro musica ricca di spigolature estreme, dai continui e repentini cambi di tempo, rallentamenti ai limiti dello sludge, arpeggi falsamente tranquillizzanti e sfuriate di rabbia recondita non manca di rapire gli ascoltatori più attenti, che si sono lasciati coinvolgere dal turbinio sonoro del gruppo.
Lo show degli Ulcerate scorre senza intoppi, con solo 4 pezzi in setlist, a causa della loro durata che si aggira mediamente intorno ai 5 minuti. I suoni sono incredibilmente buoni ed i musicisti hanno energia da vendere per scatenarsi come tarantolati e tecnica a sufficienza per non sbagliare quasi niente delle loro difficili partiture. Forse l’unico appunto che gli si potrebbe fare è un’interazione mai esplicitamente ricercata con un’audience che invece si è dimostrata e si dimostrerà ancora molto propensa a farsi coinvolgere nello spettacolo. Questa mancanza, unita all’innegabile non facile digeribilità della loro musica è forse il motivo per il quale gli applausi per loro siano un po’ freddini anche dopo un brano di chiusura ottimo come la mastodontica (in tutti i sensi!) Everything is Fire, titletrack dell’ultimo lavoro in studio.


                                    
 

 

 

Dopo i giovani virgulti, spazio al buon vecchio death metal d’annata, e chi meglio degli svedesi Grave, che insieme ad Entombed e pochi altri si possono considerare veri e propri padrini del death metal europeo, poteva fare da speciale sommelier per questa occasione.
Ola Lindgren è la perfetta icona di quell’epoca fantastica, trasuda old school da tutti i pori: sale sul palco chitarra in pugno e sigaretta in bocca pronto a dar battaglia e la sua band lo asseconda in tutto e per tutto.
Le sonorità si fanno improvvisamente sporche e grezze e si ha proprio l’impressione di ascoltare il suono glaciale delle radici di questo genere. I riff goduriosamente cattivi che la coppia Lindgren/Martinsson scagliano giù dal palco ed il buon vecchio tupa tupa di Ronnie Bergerståhl hanno l’effetto di risvegliare l’eccitazione del pubblico che, per la prima volta, comincia a gremire davvero il pit.
L’affiatamento on stage, fatto di sorrisetti d’intesa e plastiche pose del caso, si unisce al compiacimento per la risposta ad ogni incitamento: fioccano i pugni al cielo ed i cori all’unisono al ritmo di classici senza tempo come Christi(ns)anity o Obscure Infinity, ma anche di brani relativamente più recenti come la divertente Bloodpath, tratta dall’ultimo album Dominion VIII.
E’ impagabile per chiunque abbia amato questa musica vedere la smorfia di soddisfazione del biondocrinito leader dei Grave mentre si accende l’ennesima sigaretta sul palco, e si fà appena in tempo a riflettere su quanto sia in forma la sua band ancora oggi dopo 21 anni di vita, quando un triplice annuncio da crescente climax emotivo lancia il riff iniziale del cavallo di battaglia Into the Grave che chiuderà degnamente un’esibizione importante, senza dubbio tra le migliori della serata.



                                    

 

 

I Krisiun su un palco sembrano esserci nati. La band brasiliana si è fatta letteralmente le ossa per 20 anni sulle assi di tutto il mondo e, a giudicare dall’attesa creata anche all’Alpheus e dall’accoglienza loro tributata fin da quando appaiono appena fuori dalla scaletta, questo i fan lo hanno capito bene e lo apprezzano altrettanto.
I loro lavori in studio non hanno mai sprizzato enorme varietà creativa, ma sul palco anche stasera i tre fratelli Kolesne hanno insegnato l’arte tutta popolare di agitare un’audience. I tre sono assolutamente dei personaggi alla mano, diretti e sicuramente sinceri negli atteggiamenti, e dotati di una buona dose di simpatia che non guasta, anche a giudicare dal fatto che sia Lindgren dei Grave che, successivamente, Dallas Toler-Wade, abbiano sfoggiato una loro T-shirt durante tutta la serata.
Paladini della brutalità assoluta e più fiera, snocciolano senza battere ciglio bazoocate come Combustion Inferno, Vicious Wrath, Sentenced Morning, Minotaur, Bloodcraft, persino una Vengeance’s Revelation d’annata, e tra una presentazione ad effetto e l’altra, condita da qualche “colorita” esternazione in Italiano molto gradita dai presenti, sfoggiano la loro innegabile tecnica che però, per me, resta ancora troppo asservita alla velocità ed all’impatto. E’ un piacere vedere un mostro di resistenza e rapidità dietro le pelli come Max, uno dei migliori nello specifico, ma la sensazione che ho e che ho sempre avuto è che la musica dei Krisiun sia fantastica musica da pogo e da sfogo, ma poco di più.
La risposta calorosissima dei presenti dimostra però che l’onestà e l’abnegazione con cui i brasiliani portano avanti da sempre la loro carriera, ed anche l’ottimo concerto di questa sera, comunque paga alla grande, e di questo bisogna dargli atto.
Ferro, fuoco ed headbangin a volontà scaldano il pubblico a dovere per l’avvento degli headliner assoluti della serata.


                                    

 

 

Anticipati sin dal termine dello show dei Krisiun dalle musiche di stampo egizio composte dal mastermind Karl Sanders per il suo progetto solista, sono circa le 23 quando finalmente calcano il palco dell’Alpheus i Nile, una delle più importanti ed uniche death metal band dei nostri tempi.
Freschi autori dell’ottimo Those Whom The Gods Detest, ennesima prova delle loro enormi capacità compositive, che ha messo d’accordo critici e pubblico, scalando le principali classifiche di vendita, si presentano attesissimi per la seconda volta nella loro carriera nella città eterna, con una scaletta che abbraccerà l’intera loro discografia a partire dal 1998.
La formazione è quella classica degli ultimi anni con Chris Lollis al basso, George Kollias alla batteria e, naturalmente, la coppia Dallas Toler-Wade e Karl Sanders a chitarre, voci e tastiere.
Si parte subito in quarta con l’opener del nuovo album, l’anthemica Kafir, che ha il potere di scatenare subito l’inferno con il suo chorus inziale cantato a gran voce da tutto il pubblico.
La maestosità degli arrangiamenti, riproposti fedelmente anche in fase live, è tale che se si chiudessero gli occhi si faticherebbe ad immaginare che solo quattro persone riescono davvero a sprigionare una tale potenza, quella potenza che si abbatte ancor più direttamente con le successive 3 tracce, della lunghezza media di 2 minuti e mezzo, suonate in una sequenza killer: si tratta di Sacrifice Unto Sebek da Annihilation of The Wicked, Execration Text da In Their Darkened Shrines e l’inattesa Serpent Headed Mask dal primo full-lenght ufficiale Amongst the Catacombs of Nephren-Ka. Una mazzata tremenda come questa è l’occasione per vedere all’opera un mostro del calibro di Kollias. Il batterista più longevo nella storia dei Nile è davvero impressionante da vedere dal vivo, un’occasione nel quale sembra quasi una creatura a metà tra il marziale ed incessante moto delle sue gambe e lo svolazzante ma metronomico vorticare delle sue braccia; un modo di suonare che, a ragione, ha fatto suscitare in molte menti il ricordo del grande Richard Christy. Ormai George è tangibilmente parte integrante della famiglia, e il simpatico coro”George don’t break your drums!” richiamato da Toler-Wade in suo onore è solo una piccola prova di ciò.


                               

 

Il nome dei Nile viene scandito a gran voce quando Dallas, con uno dei suoi ghigni soddisfatti, annuncia che il pezzo successivo è il suo preferito: si tratta di Ithyphallic, possente titletrack del precedente album da cui viene tratta anche la successiva Papyrus Containing the Spell to Preserve Its Possessor Against Attacks From He Who Is in the Water, la quale viene annunciata dallo stesso Dallas scandendone lentamente il titolo parola per parola, quasi con spirito autoironico. Il brano in questione è uno dei più spossanti per il greco che, infatti, appena ultimatolo compie letteralmente un balzo giù dal palco per un crampo improvviso alla coscia destra.
Niente di grave per fortuna e quindi, tra i sorrisi sinceramente soddisfatti del buon pacioccone Karl Sanders (per la cronaca sempre più simile ad un hamburgher per la mole ormai raggiunta dal suo stomaco), si torna su Those Whom The Gods Detest con una delle tracce migliori a mio parere, 4th Arra of Dagon, altra epica occasione per il coinvolgimento di tutta la sala che urla a gran voce “ARRA ARRA ARRA, DAGON DAGON DAGON”, facendo godere non poco il buon Karl.
Ma è al momento di Sarcophagus, preceduta in scaletta da Permitting The Noble Dead to Descend to The Underworld, che il biondo chitarrista incassa la maggior dose di gratificazione da parte di tutti quelli che hanno intonato in coro ogni nota del main riff suscitando ulteriori ammiccamenti e gesti di ringraziamento da parte sua nei confronti delle prime file.
Lashed to The Slave Stick e Cast Down The Heretic filano via senza errori con le tre asce che si incrociano di frequente sul palco durante gli assoli e con Sanders e Toler-Wade che continuano ad infiammare l’entusiasmo generale con ampi gesti delle mani.
In chiusura, dopo le presentazioni di rito, l’immancabile e richiestissima Black Seeds of Vengeance fà terra bruciata di una serata che poteva non avere mai fine tanta era la carica diffusa nell’aria, ed invece finisce con la naturalezza di un Karl Sanders che, senza nemmeno rientrare nel backstage, si siede sul palco e si ferma a firmare autografi e fare foto con i fan.
L’esibizione dei Nile è durata poco più di un’ora, ma è stata un’esibizione massiccia e tirata ed ha visto sciorinare, da un gruppo in forma smagliante, una setlist di pezzi tra i più veloci e diretti della loro discografia, eseguiti in una maniera talmente perfetta da sembrare anche troppo simili alle rispettive versioni in studio. Sicuramente si può essere sentita la mancanza di capolavori come Unas Slayer of The Gods o anche della stessa Those Whom The Gods Detest, ma se si va a vedere il contesto dell’evento con sguardo oggettivo si può apprezzare sicuramente un’idea, quella di un carrozzone death metal come questo, che ha avuto il pregio di far conoscere sfaccettature sufficientemente varie di un genere a torto considerato da molti come monotono e senza idee nuove, ed i Nile sono sicuramente i degni alfieri per un’iniziativa come questa.

Setlist Nile
Kafir
Sacrifice Unto Sebek
Execration Text
Serpent Headed Mask
Ithyphallic
Papyrus Containing the Spell to Preserve Its Possessor Against Attacks From He Who Is in the Water
4th Arra of Dagon
Permitting The Noble Dead to Descend to The Underworld
Sarcophagus
Lashed to The Slave Stick
Cast Down The Heretic
Black Seeds of Vengeance