Live report: Origin a Dublino (Irlanda)

Di Alberto Fittarelli - 7 Maggio 2009 - 12:54
Live report: Origin a Dublino (Irlanda)

Foto tratte da UVTV.com

C’è sempre un livello superiore a cui arrivare. Oramai di concerti ne ho visti decisamente tanti, da quando sono appassionato di metal e di metal estremo nello specifico, ma finora il top qualitativo per il brutal death, dal vivo, restava saldamente in mano a un manipolo di band, per quanto mi riguarda: Dying Fetus, (vecchi) Cryptopsy, Morbid Angel, Deeds Of Flesh, Cephalic Carnage. Ora, non dico che siano stati surclassati, ma la serata dublinese degli Origin li ha sicuramente raggiunti con scioltezza.

Il contesto è quello del Fibber Magees, pubbettino dove si esibiscono gli artisti più kult del panorama estremo nella capitale irlandese: capienza di un centinaio di persone circa, sicurezza umana e fisica inesistente, birra e whiskey a profusione, ed è pure serata di Champions League, quindi tutti a guardare il Manchester United battere l’Arsenal tra una band e l’altra.

I primi due gruppi sono costretto a perderli visto l’orario improponibile a cui suonano, ma paiono essere stati nella norma (anche se quando sentite un irlandese in merito vi dirà sempre “They were grand!”); dopo di loro è invece il turno dei Condemned, band di Belfast autrice di tre EP più un demo, e francamente si capisce perché non siano mai arrivati al full-length: pesantemente immaturi, sostanziali copie dei gruppi-guida del genere, scaldano gli animi della gente probabilmente solo per la terra di provenienza, ma sono in realtà molto più entusiasti che effettivamente validi. Brutal con qualche schizzo mathcore (molto raro), ma assolutamente convenzionale, e la cosa non spaventa più nessuno.

Tempo di cambiare il palco e fare un sound check veloce, ed ecco gli statunitensi Origin salire on stage: e già vedere Mike Flores, Paul Ryan e John Longstreth scaldarsi i muscoli sugli strumenti, vi assicuro che vale l’economicissimo biglietto del concerto. Ben una quarantina (!) di persone si assiepa di fronte al palco, lasciando la piccola sala mezza vuota (è martedì, d’accordo, ma per i Misery Index il pub scoppiava… dove sono tutti?), e il gruppo attacca senza troppe introduzioni: Staring From The Abyss è il primo pezzo, preso da Echoes of Decimation, e subito si rimane a bocca aperta. Mike Flores è semplicemente un alieno: non gli si vedono le mani, suona percorrendo interamente il suo basso e con una velocità inumana; eppure il suo sound è chiaro, robusto e preciso, niente fatto “per riempire” o fare scena. Ryan, che come ormai d’abitudine non si vede coadiuvato live dal cofondatore Jeremy Turner (da sempre assente sui palchi con la band per problemi dovuti al suo lavoro), gestisce lo sweep picking come se stesse facendo air guitar, e gode di un suono distorto solo quanto basta per non perdersi le armonizzazioni dei loro pezzi; e Longstreth? Beh, bisogna vederlo per capire. Non si distinguono le bacchette.

I primi due pezzi scivolano via nello stupore del pubblico, ma è quando arriva The Aftermath, l’opener del capolavoro Antithesis, che il caos è completo: il mosh si scatena, James Lee se la ride sul palco mentre urla, il brutal death tecnico dei nostri raggiunge l’apoteosi. Quasi tutti i pezzi della serata verranno prelevati proprio dagli ultimi due dischi della band di Topeka: hit assolute sono Wrath of Vishnu, Finite (con la gente che intona a voce il riff melodico centrale) e Antithesis, title-track dell’ultimo album.

Salvo la presenza (di cui ci si è liberati abbastanza presto) di un disturbatore un po’ troppo ubriaco, arrivato ad aggrapparsi ai vestiti di Lee, la band è soddisfattissima del responso del ridotto pubblico, e si concede a un bis con Algorithm, a grande richiesta. Si finisce sulle note surreali di “La Bamba”, con Lee che balla sul palco e indica Flores annunciandone il compleanno; strette di mano, birre che volano, congratulazioni e quattro chiacchiere con la gente, in atmosfera di vero e proprio brutal party.

La sostanza della serata è stata quindi quella di un gruppo che raggiunge livelli tecnici impensabili e lo fa senza doversi concentrare sugli strumenti dimenticandosi dell’audience: grande la loro partecipazione, enorme la loro esperienza, fortissimo il feeling col pubblico. E per superare questo, di livello, dovranno probabilmente passare altri anni e molti altri concerti.

Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli