Live Report: Porcupine Tree a Pistoia
Edizione un po’ particolare, se vogliamo dirla tutta, quella del Pistoia Blues 2010. Particolare soprattutto perché, escluso qualcosa piazzato giusto nelle ultime due giornate, di blues quest’anno ce n’è stato veramente pochino. Se la seconda giornata è riuscita a far felici gli amanti delle sonorità prettamente più heavy, con un bill comprendente gruppi del calibro di Queensrÿche e Gamma Ray, l’apertura del festival è stata invece affidata a coordinate più vicine a prog rock ed alternative rock, con il ritorno in qualità di headliner dei Porcupine Tree di Steven Wilson, accompagnati per l’occasione da un gruppo altrettanto importante come gli Anathema, più la presenza dei misconosciuti Astra e North Atlantic Oscillation.
Angelo D’Acunto
Report a cura di Angelo D’Acunto e Lucia Cal
Foto a cura di Angelo D’Acunto
Astra
Passaporto americano, ma un cuore che batte per la gloriosa Inghilterra dei 70’s. Un gruppo vicino soprattutto ai Porcupine Tree, quello degli Astra, non tanto per una questione di stile, ma piuttosto a causa dell’amore di Steven Wilson per le sonorità progressive di stampo settantiano. Sonorità puramente retrò, quindi, e non da meno anche l’abbigliamento dei cinque statuintensi che si presentano sul palco abbastanza disinvolti, anche piuttosto distaccati, in un certo senso, come se il caldo e i pochi presenti sotto al palco si trovassero lontani anni luce dalla loro postazione. Esibizione che, a sua volta, attira un piccola schiera di curiosi, molti dei quali letteralmente ipnotizzati dalle escursioni psichedeliche che farciscono i brani del gruppo americano. Pezzi tratti dal primo full-length, The Weirding (pubblicato dalla Rise Above di Lee Dorrian), difficili da digerire alle orecchie di molti dei presenti (probabilmente non abituati a determinate sonorità), a causa soprattutto delle lunghe digressioni strumentali che sono alla base delle composizioni di casa Astra.
Angelo D’Acunto
North Atlantic Oscillation
Un repertorio costruito su effetti synth e un caleidoscopio di sperimentalismi presenta i North Atlantic Oscillation, promettente band scozzese che su disco, il recente ‘Grappling Hooks’, ha saputo inaugurare un lusinghiero capitolo in ambito elettronica. Esibizione basata su costruzioni e dissolvenze sonore, e nonostante una buona performance vocale, la resa finale è inficiata da settaggi sonori che penalizzano voce e strumenti in favore dell’ onnipresente sound digitale. Menzione di merito per un batterista dalla precisione chirurgica, e medaglia al valore per il coraggio sfoderato dal tastierista che non si fa problemi a impugnare una compatta e fotografare il suo pubblico. Un sound d’ambient e atmosferico crea una suggestione d’emotività fluttuante in dimensioni cangianti, purtroppo disturbate da un microfono invasivo e intrappolato in ritorni acustici troppo insistenti, facendo sfumare in alcuni tratti la riuscita dello spettacolo. Garanzia su disco, in versione live sbiadiscono su alcuni passaggi, caratterizzati da sonorità asettiche completamente frutto dell’artificio digitale.
Lucia Cal
Anathema
Soundcheck. Pochi accordi bastano a scaldare il pubblico che mostra evidente soddisfazione fin dalla fase in cui tutto prende forma, frenesia crescente che si sviluppa sulle note del celebre ‘Carillon’ di Ennio Morricone, esplosa in boato all’arrivo di Vincent Cavanagh, prontissimo a incanalare il proprio fervore e il calore della platea nell’attacco di ‘Deep’. Sinuoso Vincent, dal vivo vero cuore pulsante degli Anathema, la sua esibizione è una stretta ammaliante in cui avvolge note e fan, catapultando i presenti nel mondo visionario di ‘Angels Walk Among Us’. L’intera band sa trascinare la folla nella consueta rarefazione che caratterizza ‘We’re Here Because We Are Here’, nonostante una lieve imperfezione sonora ottenuta centellinando il volume del microfono che in alcuni passaggi ha adombrato la performance di Lee Douglas, tuttavia ripresa egregiamente in ‘ A Natural Disaster’. Pausa di riflessione in cui la concitazione del frontman si stempera nelle introspezioni di ‘Closer’, pezzo che prepara il terreno all’intensa emotività di ‘Universal’,uno dei brani più inebrianti del repertorio previsto per la serata. Si ritorna all’impeccabile intesa strumentale dei fratelli Cavanagh, impreziosita da un ottimo settaggio sonoro, mentre scorrono velocemente ‘Flying, ‘ A Simple Mistake’ e ‘Fragile Dreams’, esecuzioni rese magistralmente attraverso sensazioni soavi a tratti irrefrenabilmente tangibili.
Lucia Cal
Porcupine Tree
Calano le ombre sulla splendida piazza del Duomo di Pistoia, cornice piuttosto suggestiva e che non farà altro che innalzare il livello atmosferico di quella che, come da previsione, sarà una esibizione da ricordare. I Porcupine Tree non hanno mai tradito le attese. Non lo hanno fatto nelle ultime tre calate italiche dello scorso mese di novembre, né hanno la minima intenzione di farlo nemmeno in questa occasione, soprattutto se messi di fronte all’ennesima affluenza di pubblico delle grandi occasioni.
Così come era già successo nelle date precedenti, tocca all’accoppiata Occam’s Razor/The Blind House aprire le danze, seguita, come da copione, da Great Expectations, Kneel and Disconnect e la splendida Drawing the Line: tutti pezzi tratti dall’ultimo The Incident, album che, in questo caso, la band inglese non propone nella sua interezza, andandoci comunque molto vicino. Il concept viene infatti interrotto dopo i primi cinque pezzi per lasciare spazio a brani pescati nei dischi precedenti, con una setlist che, escluse un paio di eccezioni, rimane comunque fissa sulle uscite più recenti della band inglese. Ed ecco che così scorrono via, aiutate da una resa sonora a dir poco eccellente, le varie Lazarus (con il suo ritornello cantato da tutti i presenti), Hatesong, Russia On Ice, Anesthetize, Blackest Eyes e, quasi a sorpresa, anche una Dark Matter a rappresentare il periodo pre-Stupid Dream. Pezzi suonati come al solito in maniera impeccabile, o quasi… eggià, perché fa quasi sorridere vedere lo stesso Wilson steccare clamorosamente in un paio di occasioni, soprattutto se si è a conoscenza del suo perfezionismo quasi maniacale. Poco male comunque, escluso un avvio sbagliato questa volta da John Wesley sul finale, la band sbalordisce i presenti con la consueta bravura messa in mostra dai singoli elementi, con il “solito” Gavin Harrison (e senza nulla togliere al resto della band) a meritare gran parte degli applausi.
Il finale è dedicato nuovamente e (quasi) interamente a The Incident, con la band che riparte non esattamente da dove aveva lasciato in precedenza, decidendo di cancellare la parte centrale del concept, riprendendolo esattamente dalla stupenda Time Flies in poi, più l’aggiunta di Bonnie The Cat (anch’essa presente sull’ultima release) e l’immancabile Trains (dal capolavoro In Absentia), le quali mettono la parola fine ad uno show forse un po’ breve (“soli” 90 minuti di durata) ma comunque, e come da previsione, intenso e coinvolgente come pochi.
Angelo D’Acunto