Live Report: Rock Hard Festival a Bologna
Ecco a voi il resoconto della prima edizione italiana del Rock Hard Festival, un evento che ha fatto la gioia degli appassionati del metal più tradizionale e che ha offerto ai presenti uno spettacolo assai intenso e prodigo di emozioni. Per l’occasione, sul palco dell’Estragon di Bologna si sono alternate formazioni storiche del calibro di Sodom, Grave Digger, Exciter, Tygers of Pan Tang e Strana Officina, assieme a realtà affermate quali Rain, Gama Bomb, Malnàtt e Elvenking. Un bill di primissimo livello quindi, per un festival che, come vedremo in seguito, è senza dubbio riuscito a soddisfare la maggior parte del pubblico.
Report a cura di Angelo D’Acunto, Lucia Cal, Lorenzo Bacega e Stefano “Steven Rich” Ricetti
Foto a cura di Angelo D’Acunto
Malnàtt
Seppur penalizzati da una qualità di suoni altalenante (che sarà una vera e
propria croce per i primi gruppi) e, soprattutto, da una posizione in scaletta
che permetterà a pochi, pochissimi fedelissimi di assistere allo show, i
bolognesi Malnàtt confermano, in poco più di mezz’ora, di essere tutt’altro che
un gruppo che “gioca” a suonare un black metal dalle forti tinte ironiche. A
loro favore c’è sicuramente la simpatia, sempre messa in risalto dal singer Pòrz
con una serie di intermezzi a dir poco spassosi, ma non è solo questo: a
prevalere è anche un’abilità tecnica che permette a pezzi come “Fantasmi” e “Malleus
Male Fica Rum” di avere presa diretta sui pochi presenti, e di convincere,
praticamente, in pieno. L’unico rammarico rimane quello di aver assistito ad uno
show d’alto livello, penalizzato però da suoni ancora in via di definizione e da
una posizione (in apertura) nel billing che non rende di certo giustizia ad una
band che, senza esagerare, possiamo considerare come una delle migliori realtà
attualmente in attività del nostro paese.
Angelo D’Acunto
Irreverence
Ore 13 circa: con ben un’ora di ritardo sulla tabella di marcia, tocca ai
thrasher milanesi Irreverence salire sul palco dell’Estragon, al cospetto di un
pubblico ancora poco numeroso, seppure in costante aumento. Quella messa in
piedi dal quartetto lombardo è un’esibizione energica e senza tanti fronzoli,
supportata in questa occasione da suoni piuttosto buoni e discretamente
bilanciati, ma penalizzata da una tenuta del palco abbastanza impacciata e
complessivamente rivedibile. La scaletta proposta nella mezz’oretta scarsa a
disposizione pesca in maniera piuttosto omogenea da tutta la produzione del
gruppo, mantenendo però un occhio di riguardo verso l’ultimo nato Upon These
Ashes (pubblicato lo scorso giugno) dal quale vengono riproposte Not One of Them
e The Shepherd Dog. Non mancano gli applausi e le urla di approvazione quando
sul palco fa il suo ingresso Tom Angelripper, già comparso in veste di special
guest nell’ultima – già citata – fatica in studio della band italiana. Con il
frontman dei Sodom al microfono, il quartetto milanese da in pasto ai presenti
due grandi classici targati Onkel Tom, quali Schnaps, das war sein Letze Wort e
Es gibt kein Bier auf Hawaii, prima di chiudere in bellezza con una tiratissima
cover di Ace of Spades dei Motorhead.
Lorenzo Bacega
Elvenking
Definite quante strutture può mostrare un caleidoscopio, e avrete in mano
qualcosa di tangibile per precisare chi siano gli Elvenking. Tentare di
afferrarli sarebbe come credere che un imprevisto riservi qualcosa di
annunciato, e mentre la loro esibizione prorompe come un lampo che plasma in un
istante il mondo sensibile, si rivelano inattesi, insoliti ed eccezionali. La
band friulana cui sta stretta qualsiasi definizione critica venga in mente,
calca il palco bolognese del Rock Hard Festival con una poliedricità ispirante
firmata Damna, e l’effetto è quello di un riflettore che dischiude mille
dettagli di scena in un secondo. Pochi i convenevoli, lo spettacolo inizia
inseguendo ‘Red Silent Tides’ presentato al pubblico attraverso ‘Dawnmelting’,
pezzo edonista e diretto che travolge attraverso una performance carismatica ma
che richiede qualche istante di rodaggio per orchestrarsi appieno. Una manciata
di minuti sono sufficienti per superare i soliti, noti problemi tecnici ed
apprezzare una sinfonia atmosferica che fonde in un microcosmo pulsante palco e
pubblico, il quale esterna tutto il proprio apprezzamento per la tanto
controversa svolta melodica oggetto di dibattito dall’uscita del nuovo disco.
Suggestionante la performance al violino di Lethien, che sa incastonare in ‘The
Wanderer’ una sintonia strumentale in consonanza con la pregiata voce di Damna e
le sapienti chitarre di Aydan e Rapahel, scivolando su un pezzo congeniato di
soavi armonie. Uno spettacolo di sussulti e melodie, in cui l’audacia di ‘The
Scythe’, la vitalità di ‘The Cabal’ e l’incedere di ‘This Nightmare Will Never
End’ fa apprezzare la verve caustica di chitarre che si reinventano in ogni
istante spinte dall’ardire del dialogo intessuto dal il basso di Gorlan, e
imbeccate dalle sferzate a un tempo provocanti e ingentilite di Zender alla
batteria. ‘Your Heroes Are Dead’, vero banco di prova per l’esibizione
appassionante di Damna, ha mostrato l’ennesima volta come la band sia capace di
fervore e poesia a un tempo, di trasporto euforico e di introspezione
comunicativa. Show disinvolto, sensibile, creativo e trascinante: non c’è diktat
estetico che tenga, la stoffa non la si perde cambiando d’abito.
Lucia Cal
Rain
Terminata la prova degli Elvenking, tocca quindi ai bolognesi Rain salire sul
palco dell’Estragon. Il quintetto emiliano, reduce da un tour americano di
spalla ai W.A.S.P. di Blackie Lawless, mette in piedi uno spettacolo oltremodo
intenso e grintoso, impeccabile per ciò che concerne il profilo puramente
esecutivo – con in particolare il talentuoso cantante Francesco “Il Biondo”
Grandi sugli scudi – e altrettanto coinvolgente per quanto riguarda invece la
presenza scenica. Nei cinquanta minuti circa a disposizione, i cinque felsinei
propongono una scaletta incentrata soprattutto sull’ultimo nato Dad is Dead
(pubblicato nel 2008 sotto Aural Music), dal quale vengono ripescate, tra le
altre, la rocciosa title-track, l’autocelebrativa Rain are Us, la tirata Love in
the Back, oltre che la cover di Rain dei The Cult. Lo show continua su altissimi
livelli con il vero e proprio inno Only for the Rain Crew (estratto da
Headshaker del 2003) cantato a squarciagola dalla maggior parte dei presenti,
fino ad arrivare ad una travolgente riproposizione di Metal Thrashing Mad degli
Anthrax, che pone la parola fine ad un’esibizione energica ed esaltante su tutta
la linea.
Lorenzo Bacega
Gama Bomb
Con un repertorio costruito quasi interamente sul precedente successo
‘Citizen Brain’, i cinque ragazzi di Newry dediti alla propaganda della New Wave
Of Irish Ripping Metal fanno il loro eclatante ingresso sul palco del Rock Hard
Festival brandendo i loro strumenti con determinazione e lanciandosi in una
sfrenata esibizione speed a cui mescolano svago, essenzialità e tempra incisiva.
Il loro speed thrash metal frutto di sperimentalismi sondati attraverso
l’accostamento di generi e stili spesso antitetici è un mix assolutamente
destabilizzante: innovazione, il cui intento è, senza troppi preamboli, quello
di accendere ed infervorare. Clamorosamente i ‘mosher’ più affezionati si
rivelano i più incalliti sostenitori old school: attacca ‘Slam Anthem’ e che la
devastazione cominci a logorare vertebre, tendini ed articolazioni; di fronte a
un ispirato Philly Byrne è difficile trattenersi, anche se pezzi particolarmente
innovativi come ‘We Respect You’ vengono accolti con un certo distacco da parte
dei presenti. Inattesa infatti la collisione tra il granitico tumulto che li
riceve, e una sottile indifferenza che accompagna alcuni dei presenti a fine
spettacolo. L’eclettismo artistico di Byrne infatti non è pane quotidiano, e in
più di un passaggio appare distaccato dall’apparato strumentale in una
performance troppo composita che spesso lo allontana dall’amalgama musicale
facendo risaltare la sua eterogeneità a discapito delle partiture. Le chitarre
di Domo Dixon e Luke Graham regalano un’esecuzione tecnicamente notevole come in
‘Zombie Blood Nightmare’, rimanendo sottotono a livello scenico, esattamente
come succede al basso di Joe McGuigan. E’ Paul Caffrey a intervenire
considerevolmente dietro le pelli, giocando un ruolo basilare nella riuscita
strumentale, e facendo apprezzare il ritmo vertiginoso di pezzi come ‘Bullet
Belt’ o ‘Hammer Slammer’. Esibizione dal successo garantito se circoscritta a
quel nucleo piuttosto numeroso di astanti caratterizzati da una variegata
collezione di dischi, speranzosi di assistere ad uno spettacolo che abbia la
funzione di stupire, e non sia solo mera mostra di condiscendenza.
Lucia Cal
Strana Officina
Molti dei convenuti sono lì specificatamente per Loro, le leggende viventi
dell’HM italiano. Come ammesso dallo stesso Daniele “Bud” Ancillotti durante una
piccola chiacchierata post-concerto, “mezza Prato si è mossa fino a Bologna per
noi”. Lo striscione professionale della Metal Brigade a fine show testimonia a
tutti i presenti all’Estragon il legame di sangue far i fan e il gruppo, e fa
sempre piacere rimarcarlo da parte degli astanti tutti, a suon di cori
“Officina, Officina, Officina” fra un pezzo e l’altro. Alle 17 spaccate
Boogeyman apre le danze, seguita in cascata da King Troll, Profumo di Puttana,
Sole Mare Cuore, Beat The Hammer e Pyramid. Breve assolo pirotecnico da parte
del chitarrista Dario Cappanera e poi via con il resto della scaletta: Non Sei
Normale, Autostrada Dei Sogni, Viaggio in Inghilterra e Officina. Buoni i suoni
e gruppo “in palla” come sempre con l’umanità di Bud a pioggia, la proverbiale
staticità di Enzo Mascolo, il drumming furioso e spettacolare di Rolando
Cappanera e per finire, l’attitudine a la Zakk Wylde di Dario. Ancora una volta
i quattro toscanacci hanno spaccato di brutto, siglando l’ennesimo concerto da
ricordare. La Loro caratura internazionale viene confermata dagli show delle
band seguenti: sullo stesso livello o addirittura meno dell’Officina nazionale.
Un unico neo: la mancanza, in scaletta, dell’obbligatoria Metal Brigade.
Stefano “Steven Rich” Ricetti
Tygers Of Pan Tang
L’Italia ama i Tygers Of Pan Tang. La band inglese ricambia, come sempre, nel
migliore dei modi. Certo, sarebbe difficile per chiunque salire sul palco dopo
una esibizione tritaossa come quella della Strana Officina, ma il gruppo guidato
da Robb Weir non è stato sicuramente da meno. In primo piano la prestazione a
dir poco strepitosa dell’italianissimo Jacopo Meille, coadiuvato a dovere da una
band che, praticamente, non sbaglia nemmeno un colpo. I suoni aiutano
l’esecuzione della storica band di Whitley Bay, rendendola possente come non
mai. L’incipit affidato ad “Euthanasia” non può far altro che dare il colpo di
grazia a chi ancora deve riprendersi dalle violente bordate della Strana
Officina, ma il pubblico non dimostra certo di essere stanco, e reagisce anzi
anche con un certo entusiasmo. A divertirsi è anche la stessa band inglese, con
Weir letteralmente scatenato e che si muove spesso da un lato all’altro del
palco. La setlist della serata alterna pezzi più datati (e storici) come la
successiva “Raised on Rock” ed una “Suzie Smiled” cantata a squarciagola da tutti
i presenti, con brani recenti, tratti soprattutto dall’ultimo “Animal Instinct”
(“Live for the Day” e “Hot Blooded”). Poche sbavature, quindi, forse anche
nessuna, per uno show adrenalinico e coinvolgente come non mai e che, dopo
un’ora esatta, giunge alla conclusione con un’accoppiata come “Hellbound/Gangland”
capace di far letteralmente tremare le pareti dell’Estragon.
Un’esibizione che non delude le aspettative, dunque, e che si piazza di diritto
tra gli highlight assoluti della giornata insieme a Strana Officina e, come
vedremo, agli headliner Sodom.
Angelo D’Acunto
Exciter
Gli Exciter amano l’Italia e puntualmente vengono ricambiati. Il combo
canadese capitanato dal mitico John Ricci anche in quel di Bologna si dimostra
una macchina da guerra irrefrenabile, vomitando sul pubblico cinquantacinque
minuti di Speed Metal allo stato brado, con un’intensità incredibile. Rispetto
alla Loro ultima calata in terra italica, avvenuta al Play It Loud III, i Nostri
non godono di un suono impeccabile e la loro mostruosa violenza on stage viene
un poco mitigata. Nonostante questo la carica è esattamente quella dei tempi
d’oro, come se a Ottawa l’orologio si fosse fermato. Il corpulento Kenny Winter
è un animale da palco che ormai non si stupisce più, come in passato, del
furioso body surfing che accade di fronte a lui, Clammy dà l’idea di divertirsi
e imbraccia il suo monumentale basso a mo’ di clava ogni piè spinto, Rik Charron
è un martello devastante e il leader John Ricci macina riff con una naturalezza
annichilente. L’attacco parte alle 19.50 e si conclude alle 20.45. Il setlist
snocciola, nell’ordine: Dark Command, Metal Crusader, Immortal Fear, Victims Of
Sacrifice, Heavy Metal Maniac, I Am The Beast, Violator, Massacre Mountain (non
ne sono sicurissimo), Rain Of Terror, Rising Of The Dead e Violence And Force.
Simpatico siparietto quando Kenny sbaglia pezzo, più o meno a ¾ dell’esibizione
e viene cazziato bonariamente da John. Nella memoria, poi, il momento nel quale
lo stesso Ricci suona con la chitarra rivolta verso l’alto, come se avesse
ancora vent’anni. Un grande, come il gruppo da Lui capitanato. Unico peccato
mortale non aver potuto suonare la monumentale Long Live The Loud, in quanto
richiamati all’ordine dallo stage manager, per via dello “sforamento” dei tempi
assegnati.
Stefano “Steven Rich” Ricetti
Grave Digger
Ore 21:10: dopo un rapido cambio di palco, si spengono le luci dell’Estragon,
parte l’intro The Brave e ha inizio il concerto dei Grave Digger. Supportata in
questa occasione da suoni tutto sommato all’altezza della situazione – solamente
i volumi si rivelano nel complesso leggermente bassi, anche se non in modo tale
da compromettere la resa sonora del concerto –, la band tedesca, per la prima
volta in suolo italiano con Axel Ritt alla chitarra, si conferma sin dalle prime
battute in un ottimo stato di forma, rendendosi protagonista nei settanta minuti
a propria disposizione di una prova estremamente intensa, trascinante, e senza
particolari sbavature. Il pubblico, dal canto suo, dimostra di gradire
particolarmente lo spettacolo messo in piedi dal combo teutonico, cantando a
squarciagola tutti i cori e reagendo a dovere agli attacchi frontali di Chris
Boltendahl e soci. Ben bilanciata la setlist della serata, prevalentemente
orientata verso la produzione più recente, dove vengono proposti brani del
calibro di Hell of Disillusion e Ballad of an Hangman (direttamente dall’ultimo
full length del gruppo), oppure di The Dark of The Sun, Killing Time e Rebellion
(The Clans are Marching) (provenienti invece da Tunes of War); non viene
tuttavia tralasciato il passato, con estratti da The Reaper (come Wedding Day),
o la immancabile Heavy Metal Breakdown, posta come di consueto al termine dello
spettacolo. Tra un brano e l’altro, c’è spazio nel corso della scaletta anche
per una piccola anticipazione del nuovo studio album della band (intitolato The
Clans Will Rise Again, in uscita a ottobre): trattasi di Highland Farewell,
canzone scelta come singolo apripista, che, a causa di un refrain un po’ troppo
insipido e privo di mordente, non riesce però a incidere come si deve.
Lorenzo Bacega
Sodom
Pochi fronzoli, poche parole scambiate con il pubblico e tanta sana violenza.
I Sodom sono proprio come se li aspettavano un po’ tutti, soprattutto chi li ha
già visti all’opera: freddi e cinici, da un certo punto di vista, precisi e
coinvolgenti dall’altro. Un’apertura affidata a “The Saw Is The Law” e “The Vice
of Killing” non può fare altro che abbattersi sul pubblico presente con una
violenza inaudita. I suoni, ormai stabilizzati da un bel po’ di gruppi a questa
parte, aiutano non poco a tenere in piedi uno show che non risparmia nessuno dei
presenti. Tom dal punto vista vocale appare in forma smagliante, con pochi,
pochissimi cali per tutta la durata del concerto, ed è sostenuto a dovere dal
drumming preciso di Bobby e le ritmiche taglienti di Bernemann alla chitarra. Il
resto è un po’ storia già sentita e strasentita, ma che di certo non annoia, con
una scaletta concentrata solo ed esclusivamente su classici immancabili della
band come “The Vice Of Killing”, “Sodomy And Lust”, “Ausgebombt”, “Outbreak of
Evil”; oppure anche “Napalm in the Morning”, “Agent Orange” ed “Eat Me!”.
Altrettanto immancabile l’ormai “classica” cover dei Motörhead, con “Iron Fist”
che, rispetto già alle ultime esibizioni, prende il posto di “Ace Of Spades”. Lo
show del trio tedesco scorre fluido come non mai e arriva, irrimediabilmente,
presto alla sua fine con il consueto encore “Bombenhagel” che chiude una
esibizione a dir poco entusiasmante, senza nulla togliere alle restanti band,
per un festival che, senza ombra di dubbio, rappresenta un successo pieno,
sperando anche che possa avere un seguito simile nelle edizioni future.
Angelo D’Acunto