Live Report: Rock the Castle 2019 @ Castello Scaligero, Villafranca (Vr)
5-6-7 luglio 2019: tre giornate importanti per gli amanti della musica dura: al Castello Scaligero di Villafranca, in provincia di Verona, ha luogo la seconda edizione del Rock The Castle, ambizioso festival nato per portare avanti la pesante eredità dello storico Gods of Metal e per provare a diventare l’evento di riferimento per tutti i metalhead italiani.
La cornice del Festival è senz’altro suggestiva, dato che si sviluppa all’interno del bellissimo Castello di Villafranca, quasi a voler creare un connubio culturale tra musica e storia, con l’intento di sviluppare una kermesse in una città che non sia la solita Milano, soddisfacendo le esigenze, la voglia di musica e l’entusiasmo di una zona del Bel Paese che, nell’anno solare, non può vantare un calendario concertistico come quello del capoluogo lombardo.
Il bill del 2019 vanta nomi di tutto rispetto della scena internazionale, dando vita a tre giornate ben distinte, ognuna con un tema diverso, in modo da poter soddisfare più palati possibili: venerdì 5 luglio sarà giornata prog, con i Dream Theater come headliner; il sabato è stato studiato per gli amanti dell’hard rock, con headliner Slash feat. Myles Kennedy and The Conspirators; la domenica, invece, è la giornata all’insegna della violenza sonora, con headliner gli Slayer, nel pieno del loro tour di addio alle scene.
Noi ci incontreremo nuovamente in coda all’articolo per il “bilancio” di questa seconda edizione del Rock the Castle.
Non rimane che augurarvi buona lettura!
GIORNO UNO – VENERDI’ LUGLIO 2019
6 luglio 2019: Inizia il Rock the Castle, evento caratterizzato da una location stupenda ovvero il castello scaligero medievale di Villafranca di Verona. Il caldo è aggressivo e penso fra me e me “speriamo qualcuno spruzzi acqua fresca in aria…” beh, c’è di più! L’organizzazione ha brillantemente previsto una zona di acqua gratuita, da bere e da usare a mò di refrigerio. Il top davvero, segno di rispetto per una clientela molto spesso dimenticata tra le sofferenze della polvere, del caldo e della sete. Chapeau!
(Nicola Furlan)
KINGCROW
Veniamo ai fatti musicali. Esame superato alla grande per i romani Kingcrow: tecnica, anima ed eleganza compositiva con una grande prestazione vocale di Diego Marchesi. La band dei fratelli Cafolla è stranamente poco seguita pur essendo, a parer di chi scrive, la miglior proposta in ambito progressive che si possa trovare oggi come oggi in Italia (la dice lunga l’apprezzamento che invece raccolgono all’estero!). ‘Drenched’ e ‘The Persistence’ apici assoluti. Prestazione che sfiora la perfezione se non fosse per dei suoni un po’ dispersivi.
(Nicola Furlan)
HAKEN e TESSERACT
Buonissimo l’operato on-stage dei britannici Haken che tra sezioni ritmiche non banali, inserti elettronici e sezioni metalliche d’impatto, aplificano l’attenzione fino ad ora scarsa dando di fatto il via ai momenti che contano. Ppossimo turono: i Tesseract sanno suonare e su questo abbiamo pochi dubbi. Sono molto apprezzati, ma questo significa poco se non il generare una curiosità crescente ogni qual volta vengano osannati. A me non sono piaciuti, così come su disco, nemmeno in sede live. Una mezzora di buona musica e di briallnte esecuzione (in particolare la ritmica). Il resto è pura ordinarietà, nulla di speciale. Mi auguro di venir smentito dai fan più esperti.
(Nicola Furlan)
DREAM THEATER
E tocca finalmente a loro: ai Dream Theater. Delusione serpeggiante da qualche giorno, ovvero da quando la band ha fatto sapere che la proposizione dell’annunciato intero set di “Metropolis Pt. 2: Scenes from a Memory” non verrà suonato. Poco importa, ferma restando la divinità alle sei corde John Petrucci (sempre meglio della volta precedente), il resto è quello che oggi ci si aspetta da loro: esecuzione perfetta, zero errori, James LaBrie nuovamente tonico alla voce e Mangini a pieno titolo parte integrante del combo di Boston (…ma quanto è sempre evidente la differenza con il vecchio Portnoy!). Attese soddisfatte. La prestazione è di un livello stratosferico. Belli i pezzi proposti. In particolare: Peruvian Skies, Barstool Warrior (davvero un capolavoro!) e una tripletta di classici per ricordare il loro passato: The Dance of Eternity, Lie ed As I Am. Grandi saluti a fine show. Si chiudono le luci, ultima birretta e tanto piacere nell’aver constatato una band in grandiosa forma, attenta al pubblico e speciale nei brani scelti. 10 e lode.
(Nicola Furlan)
GIORNO DUE – SABATO 6 LUGLIO 2019
EVEN FLOW
Alle 14:00 in punto, con un caldo asfissiante, salgono sul palco gli Even Flow, dando ufficialmente il via alle danze. La band originaria della Sardegna, guidata dai fratelli Lunesu, può vantare il contributo di due nomi di rilievo del metallo italiano, e non solo: Marco Pastorino e Luca Negro dei Temperance. Nonostante la temperatura e l’orario, sotto il palco sono presenti numerosi metalhead, pronti a lasciarsi trasportare dall’atmosfera del festival. I Nostri fanno bella figura, potendo contare su una proposta intrisa di prog, tanta melodia e hard rock, azzeccatissima per la giornata. Il quartetto dimostra di possedere tanta qualità, sia tecnica che di songwriting. Certo, vedere Pastorino sul palco senza la sua chitarra spiazza un attimo, ma la prova offerta al microfono è di assoluto livello. Le movenze del cantante vanno affinate, ma è giusto sottolineare che Pastorino nasce chitarrista e non frontman. Se a questo sommiamo un caldo infernale, che ha inciso sicuramente sulla mobilità dei musicisti sul palco, possiamo tranquillamente chiudere un occhio, tanto più se consideriamo che il pubblico risponde in maniera calorosa, in particolare su ‘Secret Prayer’ e la conclusiva ‘Infinity’. Un ottimo inizio di giornata.
(Marco Donè)
FM
Tocca poi a una delle leggende del rock britannico: gli FM. La band del chitarrista-cantante Steve Overland si ritrova a dover suonare a un orario che non le rende il giusto merito, ma poco importa, i Nostri hanno tanto esperienza sulle spalle e sanno come si fa a catturare l’attenzione del pubblico. A loro disposizione c’è un set di mezz’ora circa, in cui i Nostri decidono di puntare sui classici del loro repertorio, pescati dai primi due, seminali album: “Indiscreet” e “Tough It Out”. Veniamo quindi proiettati negli anni Ottanta, in quella decade che ha saputo regalare tante soddisfazioni al genere. Il pubblico, nonostante il solleone e il caldo sempre più opprimente, fa sentire la sua presenza. I suoni sono ben bilanciati e sul palco gli FM si muovono con esperienza, anche se, come già segnalato per gli Even Flow, la temperatura ne limita sicuramente l’azione. E così, tra una ‘Bad Luck’ e ‘I Belong to the Night’, una ‘Tough It Out’ e ‘That Girl’, i Nostri piazzano alcuni pezzi più recenti, divenuti ormai cavalli di battaglia immancabili dal vivo. Ecco quindi arrivare ‘Life Is a Highway’, accolta con entusiasmo dal pubblico e due tracce pescate dall’ultimo full length “Atomic Generation”. Lo show si chiude sulle note di ‘Killed By Love’, gli FM ricevono il giusto tributo e il saluto di un pubblico che sembra richiedere qualche pezzo in più, dato che continua a intonare il ritornello di ‘Killed by Love’. Ci sono però tempistiche da rispettare e i Nostri salutano definitivamente il pubblico, con la certezza di aver portato a casa l’ennesima vittoria. Altro show di livello e atmosfera che inizia a scaldarsi, non solo per le temperature di giornata.
(Marco Donè)
RICHIE KOTZEN
Dopo mezz’ora di cambio palco, in cui abbiamo cercato di reidratarci con una sacrosanta birra, verso le 15:45 il talentuoso chitarrista Richie Kotzen fa il suo ingresso in scena, accompagnato dalla sua band. Dopo due concerti vissuti sotto il palco, presi a frustate dal sole, ci spostiamo a cercare un po’ di riparo. All’interno del castello, a quest’ora del pomeriggio, le zone d’ombra sono latenti e si trovano quasi tutte sotto le mura del castello, ed è lì che ci spostiamo per assistere allo show, leggermente defilati a sinistra del palco. Si parte alla grande, con una ‘Riot’ suonata da paura, in cui il terzetto fa subito intendere di essere in forma smagliante. Anche in questa occasione i suoni sono ben bilanciati e il pubblico accoglie calorosamente i propri beniamini. Kotzen decide di dare spazio alle ultime composizioni della sua discografia solista, eseguendo pezzi del calibro di ‘Bad Situation’, ‘Love Is Blind’ e la nuovissima ‘Venom’, canzoni che esprimo alla perfezione l’anima artistica di Kotzen, tra sfumature blues e hard rock e passaggi carichi di tecnicismi. Da evidenziare, inoltre, una prestazione vocale di assoluto livello ad opera dell’istrionico Richie. Il pubblico, che sta diventando via via sempre più numeroso, apprezza e omaggia il terzetto con una partecipazione in assoluto crescendo, che tocca il proprio apice con ‘Stand’, un classico pescato da “Native Tongue” dei Poison, l’album che vide l’ingresso di Kotzen nella band americana. La canzone viene cantata a gran voce dai presenti, creando una bellissima atmosfera dalle forti emozioni. Poc’altro da dire: altra prestazione convincente.
(Marco Donè)
SEBASTIAN BACH
Manca poco alle 17:00, l’affluenza è in continua crescita, tanto che all’interno del Castello Scaligero il colpo d’occhio fa ben capire che ci stiamo avvicinando a uno dei momenti più attesi della giornata. Non potrebbe essere altrimenti, visto che sta per salire sul palco una delle figure più amate dal pubblico italiano: Sebastian Bach, storica voce degli Skid Row. Si parte subito col botto, con una ‘Slave to the Grind’ che accende il pubblico come pochi altri pezzi sanno fare. Sebastian Bach appare in forma strepitosa e tiene il palco con quella grinta e quell’esplosività che ne hanno sempre contraddistinto la carriera. I pezzi si susseguono uno dietro l’altro, andando a pescare a piene mani dai primi due leggendari album degli Skid Row. I fan rispondono bene, cantando a squarciagola canzoni che hanno segnato un’epoca: ‘18 and Life’, ‘Piece of Me’, ‘I Remeber You’, ‘Big Guns’, ‘Sweet little Sister’, ‘Monkey Business’, un autentico viaggio a ritroso nel tempo. Certo, la voce non sarà quella degli anni d’oro, ma il buon Sebastian si difende bene. Il cantante americano, inoltre, sa come gestire una grande platea e come ingraziarsi il pubblico e così, tra una canzone e l’altra, fanno capolino alcune frasi in italiano, conquistando definitivamente l’intero Rock the Castle. Come dicevamo, Sebastian sfoggia la solita aggressività, con il microfono, preso per il cavo, che viene ripetutamente fatto roteare sopra la testa, in pieno stile vecchia scuola. I compagni d’avventura mettono altrettanta energia sul palco ma, purtroppo, la prestazione viene penalizzata da dei suoni non ben bilanciati, che si riveleranno i peggiori della giornata. Per questo motivo, forse, i pezzi proposti sembrano non avere il tiro con cui li abbiamo sempre ascoltati, conosciuti e adorati: un vero peccato. Lo show si chiude con l’immancabile ‘Youth Gone Wild’, accolta e vissuta in un vero tripudio dal pubblico. Siamo alle battute finali, nonostante dei suoni non ottimali, Sebastian e soci salutano i fan entusiasti. Figuriamoci se i suoni fossero stati perfetti…
(Marco Donè)
DEE SNIDER
Ore 18:30: sul Castello Scaligero di Villafranca si abbatte un autentico ciclone: Dee Snider sale sul palco con la sua band, risucchiando tutti i presenti in un vortice di adrenalina ed entusiasmo. Data l’ora, il Sole inizia ad abbassarsi all’orizzonte e sotto il palco si creano ampie zone d’ombra, aumentando vertiginosamente la presenza dei fan, che continuano ad accorrere numerosi alla kermesse. L’intro scelto per l’ingresso del quintetto è ‘Exciter’ dei Judas Priest, che verrà interrotta da una voce fuori onda che annuncerà l’ingresso del cantante americano. Dee Snider punta forte sulla sua ultima fatica discografica, “For the Love of Metal”, pubblicato circa un anno fa. Si parte subito a mille, con tre bordate come ‘Lies Are a Business’, ‘Tomorrow’s no Concern’ e un classico griffato Twisted Sister come ‘You Can’t Stop Rock’n’Roll’ suonate una dietro l’altra, senza interruzioni. I suoni sono ben bilanciati e sul palco il quintetto è adrenalina pura, riversando sul pubblico tutta quella carica e violenza propria del rock più stradaiolo. Solo dopo il terzo pezzo Dee Snider inizia a dialogare con i fan, presentando un amico, Sebastian Bach, che è rimasto a lato dello stage a godersi lo show del riccioluto singer e che rientra sul palco con un calice di vino, per salutare la folla. Si susseguono ‘American Made’, il cui ritornello finale viene storpiato in “Italian Made”, ‘Under the Blade’ e ‘I Am the Hurricane’, in cui il cantante, guardando un pubblico secondo lui troppo compassato, stoppa lo show dicendo che è vero, la giornata è caldissima, sarebbe bello stare in relax all’ombra. Dice che anche sul palco fa caldissimo, ma lui ha sessantaquattro anni e sta dando il massimo, perché anche il pubblico non dovrebbe fare lo stesso? Queste parole, a lato del palco, vengono omaggiate da Sebastian Bach che alza una birra al cielo per poi buttarne giù un sorso; sotto il palco, invece, è come se avessero acceso un interruttore. La reazione della folla è un autentico boato, che viene ripetuto quando partono le note iniziali di ‘We’re not Gonna Take It’, cantata con enfasi dalla fiumana sotto il palco, a cui presto si aggiungono tutti quelli seduti all’ombra delle mura, sotto “gentile” invito dello stesso Dee Snider, che, indicandoli, esordirà più o meno con queste parole: «Questa canzone la conoscono tutti, è anche facile da cantare, se non la cantate avete seri problemi», con al posto di “seri problemi” un appellativo ben più colorito! Seguiranno in sequenza ‘Become the Storm’, ‘Burn in Hell’, l’immortale ‘I Wanna Rock’ e la conclusiva ‘For the Love of Metal’, per quella che si è rivelata la migliore prestazione della giornata. Una parola per descrivere Dee Snider e la sua band? Semplice: devastante.
(Marco Donè)
BLACK STONE CHERRY
Sono le 19:30 quando Dee Snider ultima il suo show. L’affluenza al festival continua ad aumentare, tanto che in alcune zone del Castello diventa arduo muoversi da quanta ressa c’è. Riusciamo comunque a raggiungere l’area ristoro e, in quanto esseri umani, iniziamo la fila per mangiare qualcosa. Purtroppo, questo non ci permette di seguire a dovere la prestazione dei Black Stone Cherry. La band americana, vista la posizione nella scaletta odierna, la presenza di pubblico sotto il palco e l’accoglienza ricevuta, si rivela una delle formazioni più attese dell’intera giornata. I suoni, avvicinandoci ormai verso le fasi conclusive di questo secondo giorno del festival, continuano a migliorare. La formazione del Kentucky dà ampio spazio all’ultima fatica discografica, quel “Family Tree” uscito lo scorso anno e che tante soddisfazioni ha saputo regalare ai Nostri. La loro proposta, sempre in bilico tra hard rock e blues, tra soluzioni dal sapore Seventies e altre più moderne, pur non essendo originalissima sembra avere fatto breccia tra gli appassionati, e il calore con cui l’ormai numerosissimo pubblico del Rock the Castle segue lo show ne è un’ampia dimostrazione. I Black Stone Cherry si muovo bene sul palco, suonando con la dovuta dose di cattiveria le proprie parti, dove spicca soprattutto la prestazione alle pelli di John Fred Young, con dei movimenti ampi delle braccia, belli da vedere e che trasmettono la sensazione della botta con cui vengono colpiti rullante, tom e piatti. Lo show si chiude sulle note di ‘Family Tree’, title track dell’ultimo lavoro della band americana. Possono piacere o meno, ma va riconosciuto che i Nostri ricevono il caloroso saluto del pubblico, che sottolinea ulteriormente il valore e la considerazione che la formazione d’oltreoceano ha saputo conquistare nel corso degli anni.
(Marco Donè)
SLASH feat. MYLES KENNEDY and THE CONSPIRATORS
Alle 21:30 viene servito il piatto forte del menù odierno: Slash, Myles Kennedy e i The Conspirators fanno il loro ingresso in scena, sulle note della colonna sonora di “Halloween”, il film del 2018 diretto da David Gordon Green. Tocca poi a ‘The Call of the Wild’ aprire le danze, che mette subito le cose in chiaro: i Nostri sono in palla e vogliono regalarci uno show con la “S” maiuscola, degno della fama e del blasone che li contraddistingue. Il Castello Scaligero è ormai stracolmo di fan scatenati, che sosterranno i propri beniamini per tutta la durata dello spettacolo. I suoni sono ottimi, come la scaletta, ben strutturata nel ripercorrere la carriera solista di Slash, incentrata sui tre capitoli con Myles Kennedy e i The Conspirators, ma che pescherà tracce anche dall’omonimo disco “Slash”, fino a rispolverare il glorioso passato del chitarrista anglo-americano, quello degli anni Ottanta a nome Guns N’Roses. La scaletta, inoltre, risulta ben strutturata anche nella distribuzione dei pezzi, con canzoni dirette, che sapranno caricare di adrenalina i presenti e tracce più melodiche, pronte a esplodere in ritornelli che accenderanno l’intero Rock the Castle. I cinque si rivelano degli assoluti animali da palco, tenendo la scena con un’esperienza e una classe propria dei grandi nomi. La prestazione dei singoli è altrettanto impeccabile, dove spicca la prova di Myles Kennedy al microfono, una delle migliori voci attualmente in circolazione. Nelle due ore di concerto proposto dai Nostri, il cantante saprà dare dimostrazione di tutto il suo talento, sia tecnico che espressivo, permettendosi addirittura nelle battute finali dello show di spingere su note più alte, non toccate fino a quel momento. Ma tutto il quintetto si esibirà su livelli elevati, a partire dall’infuocata sessione ritmica con Brent Fitz alla batteria e Todd Kerns al basso, fino ad arrivare all’inossidabile Slash. Ma proprio al riccioluto chitarrista ci sentiamo di muovere una piccola critica per la scelta di inserire troppi assoli extra, a volte fini a sé stessi, con il risultato di appesantire la situazione, come capita nelle battute conclusive di ‘Wicked Stone’, dove Slash proporrà un assolo lunghissimo, a tratti un po’ ripetitivo, facendo perdere un po’ di quella magia che si era creata fino a quel momento. Poco importa, se guardiamo la scaletta proposta e le emozioni regalate possiamo tranquillamente chiudere un occhio. D’altronde, uno show che ha poggiato su canzoni come ‘Halo’, ‘Serve Your Right’, ‘Apocalyptic Love’, ‘Boulevard of Broken Hearts’, passando poi attraverso ‘We’re All Gonna Die’ e ‘Doctor Alibi’ cantate da Todd Kerns, fino alle conclusive ‘Nightrain’, ‘Starlight’, ‘You’re a Lie’ e l’adrenalinica ‘World on Fire’, suonata con il fuoco negli occhi del quintetto, non poteva essere altrimenti. Giusto il tempo di un encore, la splendida ‘Anastasia’, e i Nostri salutano il pubblico in un meritato tripudio. Si chiude così la giornata del sabato del Rock the Castle, che con la prova di Slash feat Myles Kennedy and The Conspirators ha avuto la meritata ciliegina sulla torta.
(Marco Donè)
GIORNO TRE – DOMENICA 7 LUGLIO 2019
CARVED
Godersi dei concerti di heavy metal all’interno di una collocazione suggestiva aiuta l’immaginazione. Il castello di Villafranca, in provincia di Verona, è una di queste. La terza giornata del trittico 2019 si apre con i Carved. Il gruppo italiano, dedito a un Death Metal di stampo sinfonico, si presenta sul palco del Rock The Castle in nove elementi. Il colpo d’occhio è senz’altro appagante, alle 14.00 spaccate i Nostri ci danno dentro alla grande di fronte a un pubblico che, a differenza di altre occasioni, è sufficientemente numeroso e partecipativo. La loro è una prova intensa che viene suggellata dall’appello del cantante nel momento in cui urla dentro il microfono: “supportate sempre chi suona dal vivo!”. Parole sante, che purtroppo alle nostre latitudini cadono spesso nel vuoto, soprattutto quando si tratta di happening di minor appeal rispetto a quello celebratosi al Castello il 7 luglio 2019.
(Stefano “Steven Rich” Ricetti)
NECRODEATH
Precisione chirurgica anche nell’orario di inizio della seconda band in scaletta: gli storici Necrodeath, un’istituzione a livello nazionale ma non solo. Rispetto ai Carved di fronte al palco si è radunato il doppio della gente, che pian piano prende posto all’interno della roccaforte di Villafranca. La cornice di pubblico è quindi degna e Peso & Co. elargiscono senza lesinare violenza dalle tinte nero pece. “Mater Tenebrarum” è il manifesto della band, che posta sul finale e interpretata insieme con un performer piumato – presente anche al meet’N’greet – incornicia una prestazione come sempre all’altezza del loro nome. Nome che viene riportato anche nello striscione alle spalle di Peso, vissuto e ingrigito, con qualche squarcio figlio di mille battaglie lungo lo Stivale metallico. Il coro, meritatissimo, “Necrodeath! Necrodeath!” accompagna il combo ligure mentre si appresta ai saluti di rito.
(Stefano “Steven Rich” Ricetti)
ONSLAUGHT
Forse non tantissimi in termini di meri numeri ma, a giudicare dalle magliette e dalla partecipazione, i kid italici hanno risposto “presente!” al Rock The Castle anche perché, al posto dei defezionari Sacred Reich, l’organizzazione ha chiamato gli Onslaught. Ricordavo con piacere i britannici di spalla ai Motorhead negli anni Ottanta. Ebbene, nonostante qualche capello grigio in testa, Sy Keeler e Nige Rockett danno prova di crederci come ai bei tempi. Con loro, armati di un backdrop di notevole efficacia, a Villafranca prende il via ufficialmente quel massacro collettivo che si esaurirà ore più tardi sulle note di Angel Of Death degli Slayer. Pogo bestiale sulle note di “Metal Forces”, “66 Fucking 6” e compagnia cantante. Non a caso gli Onslaught nacquero nel 1982 in quel di Bristol come band hardcore… Show apprezzatissimo, il loro e non solo da parte dei veterani presenti al Castello…
(Stefano “Steven Rich” Ricetti)
OVERKILL
Alle 17.00 precise è la volta degli Overkill, attesissimi, nonostante le varie calate lungo lo Stivale negli anni. D.D. Verni e Bobby “Blitz” hanno mantenuto l’umiltà degli inizi e la gente lo “sente”. Per questo il popolo italiano dedito alla musica dura li ama. “Baffo” Ellsworth non si risparmia nonostante le primavere sul groppone e la band si lancia in una performance infuocata, al solito. La “botta” che sanno restituire gli Overkill è quella giusta, grazie anche a dei suoni possenti che caratterizzeranno in positivo l’intera giornata. Un plauso quindi anche a chi si è occupato di queste cose, of course. “Fuck You”, “Rotten To The Core”, “Elimination” e la stupenda “Bastard Nation” bastano e avanzano per godersi appieno il loro carico pesante dalla colorazione verde. Alla prossima, cari Overkill!
(Stefano “Steven Rich” Ricetti)
PHILIP H. ANSELMO & THE ILLEGALS
E arriva il turno di Phil Anselmo con i suoi Philip H. Anselmo & the Illegals. Beh, la sensazione è sempre la stessa: mi sembra di vedere Paul Di’Anno con i Killers. Analoga storia. Il leggendario ex cantante dei Pantera è là, sul palco: vero e provato nel fisico, come i fottuti rocker da strada. Grande frontman anche se non in forma, il buon Phil propone molti pezzi dei Pantera, perché sono solo quelli che il pubblico vuole ascoltare. Forse la maggior parte nemmeno sa come si intitola l’ultimo disco dei suoi the Illegals. Lo si comprende dai rumors che serpeggiano tra la folla in attesa dello show. Tutti, ma proprio tutti lo aspettano al varco in azione sugli annunciati brani storici in cui è stato fondamentale l’approccio ritmico dei compianti fratelli Abbott. Bene, diciamo fin da subito che questo immortale approccio ritmico è stato rispettato. I the Illegals hanno spaccato… sì, i the Illegals. Anselmo un po’ meno. La voce, a parte qualche picco inaspettato, non è al top: bassa, poco caustica e piatta. Scopro poi che il cantante stava poco bene. Febbre e dolori al fegato gli fanno anche annullare l’atteso Meet&Greet allo stand di Metalitalia. Tornando allo show, scorrono brani epici come “Mouth for War”, “Becoming”, “I’m Broken”, “This Love”, “Walk”, “Fucking Hostile”, “A New Level” e molti altri. Il risultato è sempre quello: di canzone in canzone la fatica on-stage del buon Phil è crescente, il rendimento decrescente, mentre i compagni di band sono devastanti. E così è andata a parer di scrive. A voler essere sincero, al di là del risultato sul campo, Phil è un ottimo rocker, un grande frontman e pure simpatico, ma di passato non si vive, altrimenti si rischia di diventare patetici. È un fatto che ha caratterizzato molti musicisti. Nel complesso: appena sufficiente.
(Nicola Furlan)
GOJIRA
Ero curioso di risentire i Joe Duplantier e i suoi Gojira. Li vidi anni fa, credo fosse il 2005. In quell’occasione furono i primi a salire sul palco e mi colpirono. Avevano attitudine, pur cavalcando la moda del momento, ovvero il comporre metal (pseudo)tecnico, pregno di thrash e death e legato assieme da metalliche trame irte d’aggressività. Rispetto ai colleghi, ebbi la percezione che lo fecevano però con grande stile, che avessero un qualcosina in più rispetto la ‘moda’. Oggigiorno, dopo anni di dischi e gavetta, devo dire che mi hanno confermato l’impressione. Sono davvero bravi, sopratTutto sotto il profilo tecnico-esecutivo: dei veri metronomi umani! Musicalmente, li conosco da “The Way of All Flesh” in poi, ma non mi hanno mai preso fino in fondo e, a parte il piacevole esordio live citato, penso di aver ascoltato i dischi di sfuggita una manciata di volte però sul palco, ammetto, spaccano. Colpisce l’attenzione per i particolari, per la scenografia così minimale quanto essenziale così come sono di grande impatto sono i fumi sparati fuori come sbuffi feroci da una bestia incazzata. Una perfetta sintesi di quanto proposto on-stage con un Duplantier straordinario a livello esecutivo. La band ha davvero tanto da dire, ma sopratTutto propone musica di sostanza, suonata alla perfezione. Episodio di punta dello show il brano di apertura “Oroborus”. Che dire, mi è venuta voglia di colmare le lacune. Prestazione brillante.
(Nicola Furlan)
SLAYER
Unica band a sforare l’orario previsto – di dieci minuti, non di mezzore! – gli Slayer si presentano duri massicci e incazzati sul palco del Castle alle ore 21.40. I giochi di luce e di soluzioni grafiche a tema proiettate prima del loro show sui teloni neri coprenti rendono l’attesa febbrile e nel momento in cui gli americani attaccano con “Repentless/Evil Has No Boundaries” i confini si slabbrano di colpo, nel pit. Il ricambio del pubblico è palpabile, in mezzo a un bordello d’altri tempi. Chi non se la sente di restare in balia di spintoni e pogo ogni dove arretra in zone più tranquille prontamente rimpiazzato da armate pronte alla lotta sino all’ultimo surfing. E’ fottuto massacro collettivo e qualcuno, come sempre, ne farà le spese, fra ammaccatura varie, ma fa parte del gioco nel momento in cui di fronte hai gli Slayer. Non esiste al mondo una band paragonabile a loro. Sono unici così come unico è il sound che vomitano in faccia al pubblico da decenni. I colpi dispensati da Bostaph sono cannonate che arrivano in pieno petto, uno che ha dato vita a Bonded By Blood come Gary Holt non teme paragoni con chicchessia e il duo Araya/King non ha bisogno di certo di ulteriori presentazioni, men che meno glorificazioni di sorta. Godersi l’epica che sa trasmettere South Of Heaven nel mezzo del castello di Villafranca in una splendida giornata d’estate – a proposito, a che Santo si sono rivolti gli Slayer per riuscire a far schivare al Rock The Castle il nubifragio che s’è poi abbattuto nelle zone limitrofe? – è una di quelle sensazioni che ci porteremo nel cuore per sempre. Citare bordate come “Postmortem”, “Raining Blood”, “Mandatory Suicide”, “Chemical Warfare” e l’immensa “Angel Of Death” pare pleonastico. Gli Slayer a Villafranca hanno fatto gli Slayer. Non la cover band di sé stessi, per capirci. In linea con Carlos Monzon se ne vanno da campioni del mondo, non come consumate icone a tratti impresentabili che inevitabilmente offuscano i bei ricordi del tempo che fu agli occhi della gente. Ogni riferimento ad altri gruppi non è casuale…
Araya a fine concerto, intorno alle 23.10, rimane sul fronte del palco sotto le luci bianche impersonali a rimirare noi lì di fronte, il suo pubblico per tanti anni. I minuti passano, non proferisce parola. Gli basta guardarci idealmente negli occhi, uno per uno. Alla fine, aiutato da qualche appunto, di fronte al microfono, dice:
“mi mancherete, ciao!”
A differenza di altre grandi band, che si sono rimangiate la parola più e più volte, molto probabilmente il 7 luglio 2019 verrà ricordato negli annali come l’ultima degli Slayer in Italia.
Ci mancheranno?
Certo che sì. Per i motivi elencati sopra. Non esistono né esisteranno mai degli altri Slayer. Riandiamo e godiamoci mentalmente ogni singolo secondo di vita vissuta fra le 21.40 e le 23.15 in quel del Rock The Castle
Amen!
(Stefano “Steven Rich” Ricetti)
ROCK THE CASTLE – CONCLUSIONI
Arriva quindi il momento del bilancio di questa seconda edizione del Rock the Castle: se ci soffermiamo ad analizzare i comfort offerti, il Rock the Castle si rivela un festival in crescita, che ha fatto tesoro degli errori commessi nella passata edizione, migliorando sensibilmente in alcuni aspetti. Basti pensare che, nonostante un’affluenza capace di riempire quasi tutta l’area concerti, il sabato non si sono formate code nella zona ristoro, nota dolente dell’anno scorso. Il fenomeno è stato contenuto anche nella giornata di domenica, grazie alla presenza di vari punti in cui potersi rifornire di birra e acqua fresca, oltre alla presenza del water point, con la possibilità di usufruire dell’acqua, gratuitamente, per rinfrescarsi.
Sono state inoltre inserite delle zone relax provviste di nebulizzatori d’acqua, anche se sono risultate un po’ difficili da trovare e raggiungere. Si è provato a creare delle zone d’ombra in prossimità dell’area ristoro, nel lato opposto al palco, inserendo tavoli, panche e ombrelloni. Con il caldo torrido e il sole battente che ha caratterizzato i pomeriggi dei primi giorni di luglio, l’intento è stato sicuramente più che nobile. Forse sarebbe stato bello aver inserito dei tendoni aperti, dotati di tavoli e panche, magari ospitando anche gli espositori di dischi, libri, vestiti e gadget vari al loro interno, invece che posizionarli un po’ fuori mano rispetto all’area concerti.
Come suggerimento per cercare di migliorare il comfort dei paganti, consigliamo di inserire dei nebulizzatori d’acqua anche nell’area concerti, magari in prossimità di uno degli angoli bar, come abbiamo più volte visto fare in alcuni festival europei. Possibilmente raddoppiare il water point introdotto quest’anno. Assolutamente azzeccata la scelta green di dare il bicchiere su cauzione, questo per prevenire un inutile ammasso di plastica a termine della tre giorni. Oltretutto, si tratta di un bicchiere personalizzato con il logo del festival e la rappresentazione in chiave metal degli abitanti caratteristici del castello: il re, la regina, il monaco…
Farà probabilmente discutere la scelta di non consegnare all’ingresso del festival il classico bracciale, che permette di entrare e uscire liberamente dall’area concerti in qualsiasi momento. Forse, però, il fatto di trovarsi in centro città può aver portato a delle norme più restrittive.
Del bill abbiamo già parlato, ma vale la pena sottolineare la qualità offerta, con band di prima fascia, fino a raggiungere nomi dall’appeal mainstream, senza scordare però di dare la dovuta attenzione all’underground.
Inserendo tutti questi aspetti sugli ipotetici piatti di una bilancia, l’ago indica un giudizio positivo, facendo ben sperare in previsione futura. Certo, come abbiamo sottolineato, qualcosa da migliorare c’è, ma siamo solo alla seconda edizione del Rock the Castle, che è stata senza ombra di dubbio un passo avanti rispetto a quella dello scorso anno. La fiducia in un trend caratterizzato da un miglioramento continuo credo sia più che lecita. Non rimane che aspettare l’edizione 2020!