Live Report: Sepultura al Rock and Bol (Bolotana, NU)

Di Daniele D'Adamo - 3 Agosto 2011 - 15:57
Live Report: Sepultura al Rock and Bol (Bolotana, NU)

Che i Sepultura, nonostante il discreto “Kairos”, siano ormai irrimediabilmente giunti sul viale del tramonto, incapaci di guidare se stessi nei marosi dello star-system? A vedere la loro prestazione live al Rock and Bol di Bolotana, parrebbe di sì…

Foto di Milena Fadda, report di Eric Ferlinghetti.


 

Ventisette anni di carriera alle spalle non sono mai semplici: un nuovo album, il rischio di ripetersi, qualche cover per riempire i vuoti di memoria, il tour promozionale e il gioco è fatto. Gli esempi sono illustri. Dividere i fan, accontentarsi di ritmi e testi già masticati, dai Guns N’ Roses ai Sepultura, passando per i Metallica, il ‘programma nostalgia’ prevede sempre lo stesso iter: la crisi creativa dopo consona rissa tra membri del gruppo, la separazione, la sostituzione, i fischi, il declino, il parziale rialzo dopo un ritorno alle origini in tutta fretta. «Divide et impera», direbbe Cesare. Per i Sepultura il discorso non cambia. Tutt’altro. Dopo una serie di album che definire poco convincenti equivale a fare un grosso favore ai Nostri, arriva “Kairos”. In greco, ‘tempo’. E qui, la metafora musicale è foriera di pessime avvisaglie. I brasiliani, orfani di Max dal 1997, si riscoprono filosofi. Sforano nell’autocitazione, nel disperato tentativo di dimostrare che i Sepultura sono sempre se stessi, ma mai gli stessi.

Il tour promozionale, blindato come non mai, lo dimostra: i brasiliani, più Derrick Green e Jean Dolabella e meno i Cavalera, sono determinati a evitare i fischi. La seconda tappa del tour italiano, scommessa mancata con un’attesa di mesi per fan e meno fan, li degrada a primedonne dell’era post-thrash. Un incubo, per quanti (seicentocinquanta confermati paganti diciotto euro a cranio) hanno creduto nella chance di vedere un gruppo storico, di fama mondiale, per la prima volta nella propria Regione: siamo a Bolotana, centro Sardegna, e la manifestazione che li ospita è il Rock and Bol.

22 luglio 2011: una data che gli aficionados sardi dei Sepultura ricorderanno. Un’attesa infinita: il gruppo si palesa con un ritardo che farebbe tremare le ginocchia anche al più devoto dei fan. L’associazione Kuntra, che gestisce l’evento, pur sempre italiana, si auto-assolve da ogni responsabilità, ma le avvisaglie ci sono tutte. Primo comandamento: mai fidarsi di chi fa a meno dell’Ufficio Stampa! Nessuno è ammesso ai camerini. A dovuta eccezione del parentado degli organizzatori. L’imbarazzo è totale. Il flop, nell’aria. I gruppi di supporto fanno il loro dovere, anche troppo: gli Arhythmia (metal hardcore) e i Gods Of Gamble (cover punk) sono sardi, sono abituati a strafare. Kisser & Co. non accennano ad arrivare. Nel frattempo tu, in mezzo alla folla estenuata, ti chiedi quando mai cesseranno le prove strumenti dello staff tecnico. Solo qualche organizzatore si passa la voce nella bolgia generale: dove sono finiti i runner (con dentro i Sepultura, ndr)? La voce fuori campo del manager invisibile rompe il silenzio: «niente interviste», fa sapere all’ultimo momento. Qualche scatto a sottopalco, tutto qua.

Finalmente eccoli che si stagliano sul palco con tanto di scaletta incollata a bordo scena. La performance è di tutto rispetto. Anche se s’inizia con “Arise”: l’assenza di Max si fa sentire. È un dato di fatto. Delle ultime sfornate si limitano a “Kairos” e “Relentless”: qualcosa la stanno pur facendo, nel tempo libero, i nostri Sepultura. “Troops Of Doom” e “Roots Bloody Roots” tra i pezzi di chiusura, a dimostrazione che le vendite dei tempi d’oro gravano ancora sul bilancio. A un certo punto gli addetti alla sicurezza ci fanno cortesemente sgomberare da bordo-scena: si era detto che le immagini sarebbero state limitate ai primi tre pezzi. Una breve pausa, e Derrick fa sapere il perché: «crazy weather». Il maestrale si abbatte senza tregua sui nostri Eroi: è il Brasile delle origini con le sue percussioni forsennate contro quattro raffiche di vento. Si accettano scommesse. La serata va avanti per altri quattro pezzi. Sette su diciotto promessi. In “Roots Bloody Roots” Green è sfinito. Battono in ritirata i Nostri, sotto i fischi del vento. Gli stessi che i sardi non riescono a emettere. Troppo stoici, si accontentano del lancio dei plettri, questi isolani, che tornano a casa nel silenzio dell’incredulità generale.

Rimane da aspettare che emergano dai camerini-bunker, per qualche foto ricordo. Cinquantamila euro (non confermati, ma vox populi, si sa, vox dei), è proprio il caso di dirlo, al vento: per quaranta minuti con pausa. E, tra le pene dello star-system, termina l’avventura sarda dei Sepultura e dell’organizzazione che li ospita. È triste, dopo ventisette anni, rimpiangere i fondatori della band, che se la diedero a gambe per motivi tuttora ignoti. Certo è che Max, Igor e Gloria – la manager licenziata per cui Max prese il largo – , hanno lasciato un vuoto incolmabile: quello creativo.

E c’è chi si chiede ancora dove siano andate a finire le origini indios di “Itsari” e “Ratamahatta”, e degli esordi, umili, in cui Max cantava a presagio di un declino annunciato: «from the past comes the storm»