Live Report: Sonata Arctica, Epica e Ride The Sky – Milano (19/11/2007)
Ogni anno, puntualmente, il calendario concertistico autunnale di Milano si scalda improvvisamente quasi a voler compensare il freddo ed il grigio che avvolgono la città e, leggendo in questa ottica, possiamo affermare che la serata dello scorso diciannove novembre è stata decisamente bollente.
Report a cura di Marco Ferrari (Ride The Sky ed Epica) e di Mattia Di Lorenzo (Sonata Arctica).
Ride The Sky
A causa degli ormai strutturali problemi di traffico e di coda in ingresso all’Alcatraz mi posiziono sotto il palco mentre la band del bravo Uli Kush sta già intrattenendo i numerosi presenti. Sono in tempo per poter apprezzare la potenza e la melodia di “New Protection”, opener nonché title track del recente esordio discografico di quella che voglio definire una vera e propria all-star band. I minuti a disposizione dei Nostri sono pochi ma vengono impiegati al meglio, senza inutili perdite di tempo, per presentare i migliori episodi del proprio, limitato, repertorio. Si susseguono in maniera piuttosto lineare “Black Cloud” e l’ottima “The Prince Of Darkness”, chiaro il riferimento ai Masterplan. La prestazione della band è decisamente di alto livello nonostante un acustica deficitaria che mette in difficoltà il dotato singer Bjorn Jansson in più di un occasione, il tutto però gestito con professionalità e mestiere sino alle note conclusive di “A Smile From Heaven’s Eye” che sanciscono la fine di un concerto piacevole, ma mutilato sia per quando riguarda la ridotta scaletta, (comunque più che comprensibile con un solo lavoro alle spalle) che per le sopraccitate carenze a livello acustico. Una band comunque da rivedere, magari da protagonista, nella speranza che la nuova creatura di Mr. Uli spicchi il volo.
Epica
Emozionante.
So che va contro ogni legge del buon giornalismo iniziare un report con un aggettivo, ma credo sia esattamente la parola più adatta per descrivere lo spettacolo che ci ha offerto la band olandese.
E’ una vera e propria ovazione, tanto potente quanto inaspettata, quella che accompagna l’intenso crescendo di “Indingo”, intro dal sapore epico che trasporta immediatamente il pubblico verso la soglia di una dimensione quasi irreale le cui porte sono rappresentate dalla maestosa “The Obsessive Devotion” nella quale possiamo immediatamente apprezzare l’incredibile potenza live della band guidata dalla suadente voce della bella Simone Simons. I suoni sono finalmente equilibrati e gli Epica possono esprimere al meglio tutta la loro teatralità e così, dopo l’opener dell’ottimo “The Divine Cospiracy” si torna indietro di qualche anno con l’efficace “Sensorium” che ci guida sino ad uno dei momenti più alti della serata: “Sancta Terra”, brano in cui le componenti più emozionali della band orange vengono ulteriormente enfatizzate da una interpretazione magistrale da parte di Simone che dimostra, anche dal vivo, come la sua evoluzione stilistica e tecnica la stia meritatamente portando ad essere un vero e proprio riferimento del genere. La magia ha completamente avvolto il folto e caloroso pubblico e lo show continua con la successiva “Fools of Damnation” in cui ancora una volta è l’ipnotica voce della rossa singer a guidarci in un suggestivo viaggio in terre esotiche nelle quali il dolce incantesimo viene interrotto solo dalle ruggenti note della voce di un Mark Jansen che, seppur non incisivo come su disco, è autore anch’egli di una prestazione degna di nota.
Impressionante la sessione ritmica che sorregge il tutto con una puntualità ed una potenza veramente degne di nota senza mai scomporsi ed il tutto ancor più ingigantito dall’ottima prestazione del tastierista Coen Janssen. Estremamente appropriato risulta essere anche l’impatto visivo della band che contrappone, esattamente come nella propria musica, l’immagine aggressiva di Mark a quella elegante di Simone.
Con la successiva “Cry For The Moon” si torna agli esordi degli Epica con quello che forse rimane tuttora il brano più poetico della loro ormai ampissima discografia.
Il finale del concerto è tutto dedicato a “Consign to Oblivion”, un epilogo introdotto dalle note di “Quietus”.
Quarantacinque minuti volati via come un batter di ciglia in cui irruenza e dolcezza hanno trovato un loro naturale punto di incontro e che credo abbiano donato, non solo a colui che scrive, forti suggestioni, difficili da dimenticare in una serata semplicemente… emozionante.
Sonata Arctica
Passare dal piccolo “Rolling Stone” al ben noto “Alcatraz” è stata una scommessa per i Sonata Arctica; riempirlo completamente una grande vittoria già in partenza.
La band di Tony Kakko si presenta al pubblico milanese per la quarta volta in appena tre anni. Ma stavolta qualcosa è cambiato: c’è all’attivo un nuovo album (il discusso Unia) e un nuovo chitarrista (Elias Viljanen, che ha sostituito da pochi mesi il carismatico Jani Liimatainen).
Un boato accoglie la comparsa sul fondo del palco della bella scenografia della band: un gelido paesaggio innevato, con dei lupi (immancabili) ululanti alla luna piena. Passano circa venti minuti di attesa snervante, con la temperatura del locale che aumenta sensibilmente attimo dopo attimo. Finalmente, ultimato il sound-check, le luci si abbassano e un’intro lenta e cupa accompagna la band sulla scena.
“Black and White” e “Paid in Full”: il duetto di apertura proviene dall’ultimo lavoro della band, e sostituisce l’ormai canonico avvio a suon di “Misplaced” e “Blinded No More”. La risposta dell’Alcatraz è subito pienamente soddisfacente, specialmente per il singolo di Unia, che nonostante perda parecchio in sede live, viene cantato a squarciagola da tutto il pubblico.
Un breve saluto di Tony alla platea (“Ciaooo Milano!”), dopodiché si comincia ad aumentare la tacchetta del metronomo: è il momento di “Victoria’s Secret”, una delle canzoni preferite dalla gente per il suo cantabilissimo ritornello e il piglio melodico e scatenato. Il missaggio dei suoni è veramente buono, e i nostri finlandesi sono in una serata di gran forma. In particolare Tony da sfoggio di qualità da leader davvero spiccate, nonché di un miglioramento tecnico a dir poco strabiliante rispetto ai primi anni. “Broken”, con una leggera inflessione del pathos del concerto, conduce a una fantastica coppia di hit: la veloce “8th Commandment” da Ecliptica e la stupenda ballad “Tallulah”.
Una capacità da sempre tipica dei Sonata Arctica è quella di distinguersi per trovate di grande stile, pur senza usare mezzi troppo elaborati: nel nostro caso si può definire semplicemente geniale l’idea di “spegnere” completamente il palco per illuminare di puro bianco la sola luna piena del telone di fondo. Metteteci una manciata di note di atmosfera al pianoforte, e l’atmosfera è già bell’è fatta: ed ecco dunque “Full Moon”, una delle canzoni più riuscite e amate della band. Anche stavolta la resa è eccellente, e i Sonata approfittano del momento favorevole per infilarci qualcosa di nuovo: si tratta di “Caleb”, il camaleontico mid-tempo di Unia. È l’unico momento in cui Tony pare essere un po’ giù di corda, impacciato nelle basse note della strofa, e non aiutato da un pubblico fin troppo freddo nell’occasione. Anche l’incalzante sezione finale non riesce a sollevare le sorti di una canzone ancora troppo nuova e non apprezzata all’unanimità. A risollevare il morale ci pensa però “Black Sheep”, come sempre acclamatissima. La quarta scelta tratta da Unia è “It won’t fade”, cui il pubblico reagisce un pochino meglio, forse grazie al “riff” di tastiera iniziale a prova di headbanging e alla resa vocale di Tony, qui davvero superlativa. Che la canzone e il nuovo album piacciano o meno, non si può fare a meno di notare l’estrema duttilità del cantante, che alterna acuti pregevoli a sezioni tranquille e cantabili, a parti in voce più sporca estremamente intensi. “It won’t fade” è tecnicamente assai tosta, e Kakko ne esce con una prestazione eccelsa.
È il momento di un piccolo medley con materiale di varia natura, per concludere sulle note di “Gravenimage”. “San Sebastian” conclude la prima parte del concerto e concede ai finlandesi qualche minuto di pausa.
Ma ecco il vero e proprio clue della serata: il “Tony Kakko Show”. Già nel dvd e nelle uscite milanesi precedenti, il nostro amico si è distinto per la grande disinvoltura e simpatia con cui è capace di rapportarsi col pubblico. Ma questa volta le ha superate tutte: “Do you like playing drums?”, chiede Tony. Cosa intenderà mai? Eccovi qui la risposta: il pubblico viene diviso in tre parti distinte, e dopo un rapido “warm up” fatto di urla a comando, ecco il genio in azione! Una sezione di pubblico fa il piatto (pssst, pssst, pssst), una il tom (pam!) e una la grancassa (pum!). Il direttore d’orchestra si siede al trono, e con pochi gesti, bacchette in mano, una batteria di tremila voci umane si aziona magicamente. Il ritmo comandato dal maestro è quello di “We will rock you”, e spontaneo parte il coro sul ritornello della celeberrima canzone. È un momento davvero splendido, cui seguono meritatissimi applausi.
La parte conclusiva del concerto propone ancora tre must dei finlandesi: “My Land”, “Don’t Say a Word” e l’immancabile “The Cage”. È il momento dei saluti. E quale migliore arrivederci di… una buona “Vodka” in compagnia?
In conclusione, un concerto ineccepibile, il migliore della band tecnicamente parlando da quando ci è possibile vederla sul suolo nazionale. Il pubblico è in costante aumento, la fama dei Sonata Arctica si diffonde a vista d’occhio.
Ma qualche problemino c’è.
Il primo aspetto che mi è parso di notare è un certo cambiamento del “mood”, dell’atmosfera generale. Con l’uscita di scena di Jani, Tony sul palco è sempre più leader incontrastato della band. A un Marko (basso) sempre “pezzo di ghiaccio”, versione “con” o “senza barba” non cambia nulla, risponde un Tommy (batteria) che non si prende mai la responsabilità di un singolo assolo; e un Elias (chitarra) che, sebbene davvero superbo, faticherà a spodestare il suo predecessore dai cuori dei fan, complice un atteggiamento troppo distaccato, sebbene molto professionale e scenicamente efficace. L’unico polo attrattivo reale alternativo al cantante è il tastierista Henrik, che, oltre ad avere una mole di lavoro ragguardevole sulla sua portatile, è un vero e proprio “chitarrista” aggiunto, nonché corista, intrattenitore e quant’altro…
Ma la questione più spinosa viene dalla musica vera e propria, ovvero la scaletta dei concerti: se si eccettuano le aggiunte dall’ultimo disco, che temo faticheranno a conquistare il grande pubblico, “Paid in Full” a parte, la musica proposta dalla band è ormai da quattro anni tendenzialmente la stessa. La situazione non è di facile soluzione, perché se è vero che sono molte, troppe le canzoni sacrificate che non hanno sufficiente sfogo live (solo per citarne alcune: “Wildfire”, “Wolf&Raven”, “White Pearl Black Oceans”, “Destruction Preventer”, “The Boy Who Wanted to be a Real Puppet”, ma anche, volendo, “The Vice” o “My Dream’s but a Drop of Fuel for a Nightmare”), è anche vero che qualsiasi nuova aggiunta mette al bando successi assodati: nel concerto in questione non è passata inosservata la mancanza di “Replica”, chiesta anzi a gran voce alla band, che non ha accontentato. È certo comunque che una presa di posizione coraggiosa da parte dei nostri in futuro si renderà necessaria, perché se è vero che ci saranno sempre dei neofiti ai concerti, non è pensabile proporre all’infinito la stessa scaletta. Tanto più che la qualità media della musica composta è alta, e consente un ventaglio di scelta più ampio e completo.
Comunque un’ottima esibizione, che è valsa il prezzo del biglietto. Un po’ di rammarico da parte mia per i motivi esposti; ma credo proprio che tutti siano tornati a casa contenti, soddisfatti di aver assistito a una prova di alto valore tecnico ed emotivo, coinvolgente e positiva sotto tutti gli aspetti.