Live Report: Sonisphere a Milano

Di - 13 Giugno 2013 - 10:00
Live Report: Sonisphere a Milano

Sonisphere

08/06/2013 @Fiera Rho Pero, Rho (MI)

 

 

Il Sonisphere Festival torna in Italia dopo due anni di assenza e, come nell’ultima edizione tenutasi a Imola, headliner dell’evento sono ancora una volta gli Iron Maiden, tuttora in giro per il mondo per celebrare il venticinquennale della pubblicazione di “Seventh Son Of A Seventh Son”. Il bill è decisamente ricco, vista e considerata anche la partecipazione dei Megadeth, freschi d’uscita del loro ultimo album “Super Collider”, dei Mastodon (presenti anche a Imola due anni fa) e dei Ghost. La giornata è decisamente afosa, anche se qualche nuvola e un filo di vento ogni tanto portano un po’ di fresco sulla folla che viene faticosamente smistata all’ingresso, chi verso il tanto discusso “Gold Pit” (zona più vicina al palco, ma anche più costosa), e chi verso la zona “Regular”. Che lo spettacolo abbia inizio!

Introduzione di Luca Cardani
 

 


 

Ore 13.00: gli Amphitrium aprono l’attesissimo Sonisphere, e la scelta di riservargli il ruolo di opener risulta alquanto adatta all’occasione. Il quintetto ticinese capitanato dalla trascinante voce di Evil S.A.M. sprigiona energia e adrenalina nella mezz’ora a sua disposizione, fondendosi con il sole cocente che regna sull’Arena Fiere di Rho. Stilisticamente fuori contesto, il death/black metal proposto dalla band trova però risposte positive da parte del pubblico presente, tra cui i molti sostenitori accorsi dalla vicina Svizzera. Il repertorio è incentrato su brani tratti dal loro ultimo album “Scarsache” (ad esclusione di “Vertical Horizon”) e, a conti fatti, la performance risulta interessante e di buon auspicio per il proseguo del Festival.    

Vittorio Sabelli

Setlist:
01. Warrior’s Attitude
02. Heart Rate 190
03. Vertical Horizon
04. One More Scar
05. Deliria – To Go Astray

Amphitrium: Photo Report a cura di Michele Aldeghi

 


 

Ore 13.55: partono con cinque minuti di anticipo i Zico Chain, band londinese dedita ad un hard ‘n’ heavy ipermelodico parimenti influenzato da classicità e nuove tendenze. L’impatto è buono, i suoni pure e Chris Glithero, alla voce e al basso, si mostra subito in buonissimo stato di forma. La scaletta procede senza intoppi grazie ad una serie di brani spediti, orecchiabili e divertenti, quasi sempre in perfetto equilibrio tra varie correnti all’apparenza molto distanti tra loro come hard rock, emo/metalcore e groove/alternative metal e con un gusto per la contaminazione non troppo distante da quello dei più celebri Avenged Sevenfold. Tra le canzoni proposte vale la pena citare, in quanto a riuscita, le ottime “Mercury Gift” e “Case File” e la più sbarazzina “New Romantic”, esempi perfetti al fine di definire il sound dei Zico Chain. Non si tratta certamente, al tirar delle somme, di un gruppo dall’atttudine troppo true, tra ciuffi biondi e pose fin troppo glamour, tuttavia va dato loro atto di aver giocato senza paura tutte le proprie carte, cavandosela con disinvoltura e riuscendo addirittura a coinvolgere una platea solitamente esigente (quando non intransigente) come quella dei Maiden.

Stefano Burini

Zico Chain: Photo Report a cura di Michele Aldeghi

Decisamente piu rough l’attitudine dei Voodoo Six, altra band londinese, questa volta dedita ad un hard vecchia maniera dai vaghi accenni southern e blues (e con distorsioni talora al limite del southern). Come accade su “Songs To Invade Countries To”, l’apertura è affidata a “Falling Knives” e, sin dalle prime note, con quel riff che omaggia in maniera inequivocabile i Kiss di “Detroit Rock CIty”, tutto il bagaglio settantiano dei britannici viene immediatamente a galla, tra chitarre robuste, sezione ritmica potente e precisa e una voce, quella di Luke Purdie, sporca e grintosa come si conviene a questo tipo di sonorità. L’esibizione è energica e il piglio rock ‘n’ roll di tutta la band viene molto apprezzato da un pubblico che si è fatto nel frattempo molto numeroso e che non disdegna di scapocciare al ritmo di canzoni riuscite come “Take the Blame”, Swim Or Sink” e “Long Way From Home”. E pazienza se il loro sound non è originalissimo (in vari passaggi lo spettro di gruppi come i Gov’t Mule, con il loro hard/southern blues metallizzato, si manifesta in maniera evidente) e se i riff sono spesso di terza o quarta mano: in casi come questi è l’attitudine che conta e i Voodoo Six ne hanno da vendere. Un ottimo show da parte di un gruppo pressoché sconosciuto nel Belpaese, eppur degno di attenzione da parte di ogni rocker che si rispetti nonché, d’altro canto, un ottimo viatico per iniziare a fare sul serio in attesa dei primi big della giornata: i pittoreschi svedesi Ghost.

Stefano Burini

Voodod Six: Photo Report a cura di Michele Aldeghi

Dopo l’ottima prova dei Voodoo Six, gruppo da tenere d’occhio, è il turno degli svedesi Ghost, una delle realtà più in vista del momento grazie a due dischi di ottima fattura e all’alone di mistero abilmente creatosi attorno a loro. Le tematiche sataniche ed esoteriche, le sonorità riconducibili all’hard rock degli anni ’70, l’influenza dei Black Sabbath in alcuni arrangiamenti, oltre che il modo di porsi sul palco, sono tutti elementi caratteristici della band. Una breve litania introduce uno alla volta sul palco i vari musicisti, completamente avvolti nel loro saio, incappucciati e mascherati come da copione, scatenando subito l’entusiasmo del pubblico, curioso di vederli all’opera. L’attacco della loro setlist è scandita da “Infestissuman”, opener dell’ultimo album, seguita da “Per Aspera Ad Inferi” la quale funge da richiamo sul palco per il cantante, l’autoproclamatosi Papa Emeritus, con tanto di tiara sulla testa e pastorale nella mano destra, pronto ad affascinare il pubblico con il suo particolare timbro di voce. Peccato che sin da subito i volumi della sezione ritmica sovrastino quello delle chitarre, inconveniente che, tuttavia, sembra non infastidire più di tanto il pubblico. I brani estratti dal primo album, come “Con Clavi Con Dio” o “Elizabeth”, sembrano essere meno coinvolgenti dal vivo, complice forse una mancata presenza di cori, al contrario dei nuovi brani come “Year Zero” o la conclusiva “Mostrance Clock”, dove ritornelli più sintetici vengono cantati a tutto volume dai presenti. Nonostante gli inconvenienti di cui sopra, la prestazione dei Ghost risulta essere di sicuro effetto e il pubblico dimostra di gradire acclamando con convinzione gli svedesi. Va detto che probabilmente uno show di questo tipo sarebbe tutta un’altra cosa al chiuso, con l’atmosfera creata dal contrato tra tenebre, effetti di luce e fumogeni, tuttavia questa è un’altra storia.
 
Luca Cardani

Setlist:
01. Masked Ball (Jocelyn Pook’s song)
02. Infestissumam  
03. Per Aspera ad Inferi  
04. Con Clavi Con Dio  
05. Prime Mover  
06. Elizabeth  
07. Stand by Him  
08. Death Knell  
09. Year Zero
10.  Ritual  
11. Monstrance Clock

Ghost: Photo Report a cura di Michele Aldeghi

I Mastodon aprono il loro show alle 17.30 con “Black Tongue” e l’impressione è che fin dall’inizio i suoni non siano quelli ottimali per permettere alla band di esprimersi al meglio. Le voci, già di per loro non nitidissime, sono parecchio indietro, i volumi bassi e le chitarre impastate: davvero difficile per i quattro di Atlanta riuscire a dare il giusto risalto alle atmosfere psichedeliche, alle complesse melodie e alle ritmiche che li hanno consacrati a fama mondiale. Le parti vocali vengono prevalentemente affidate al bassista Troy Sanders, aiutato sulle armonizzazioni da Brent Hinds e da Brann Dailor e, nonostante il risultato globale sia dignitoso, la particolarità (per così dire…) del comparto vocale si conferma essere il maggior limite della formazione statunitense. Con il passare dei minuti la situazione migliora a livello di suoni, eppure i Mastodon, concentrati e attenti, paiono non avvedersene né, tutto sommato, esserne stati globalmente troppo penalizzati dal punto di vista della performance. La loro esibizione, come d’altronde la loro proposta, è di quelle che tendenzialmente o si amano o si odiano: i ragazzi ci sanno fare (e almeno tre capolavori su cinque album pubblicati sono lì a dimostrarlo) eppure continuano a non sembrare un gruppo “da festival”, né, forse, un gruppo da “live”, sia per la particolarità dei contenuti, sia per l’attitudine piuttosto schiva mostrata sul palco, con il solo Sanders a provare a metterci un po’ di “fisico”. Anche la scaletta, composta perlopiù da pezzi mediamente lunghi e molto complessi a discapito di pezzi maggiormente d’impatto, tende a confermare almeno parzialmente queste impressioni; sicché, non a caso, il meglio arriva verso il finale con le fantastiche “Curl Of The Burl”, “The Sparrow” e, in particolare, la superba “Blood And Thunder”, apprezzatissime dai presenti e probabilmente indicative di quali fossero le coordinate maggiormente adatte alla giornata.


Stefano Burini
 
Setlist:
01. Black Tongue
02. Crystal Skull
03. Dry Bone Valley
04. Thickening
05. Octopus Has No Friends
06. Blasteroid
07. Crack the Skye
08. Spectrelight
09. Curl of the Burl
10. Blood and Thunder
11. The Sparrow 

Mastodon: Photo Report a cura di Michele Aldeghi

Ore 19.05: dopo la performance più cerebrale dei Mastodon, mezz’ora di changeover è la giusta attesa per tirare il fiato in attesa del gran finale. Il concerto n.12 dall’inizio del tour europeo riporta i Megadeth all’Arena Fiera (a due anni di distanza dal Big 4) per presentare il nuovo “Super Collider”, fresco di stampa. Il quartetto capitanato dall’irriducibile Dave Mustaine e dal suo gregario ‘Junior’ Ellefson si presenta sul palco alla ricerca di certezze e consensi, dopo aver centrato il secondo album consecutivo senza cambi di line-up dai tempi del disastroso “Risk”. E sebbene anche quest’ultima uscita lasci più di qualche perplessità sulla direzione intrapresa dalla band, lo stesso non può dirsi dal vivo. Basta l’intro di “Prince of Darkness” e l’arrivo di Shawn Drover dietro le pelli a dettare il timing di “Trust”, ed ogni dubbio viene spazzato via. La sola presenza di Mustaine è un macigno che attrae l’attenzione di tutta la folla che si scatena nei chorus che hanno reso nota la band al mondo. La ritmica è metronomica e il leader colloquiale e in gran forma, nonostante il ruggito della sua voce si sia attenuato negli anni. Nonostante ciò MegaDave riesce a tener viva l’atmosfera con brani storici quali “Hangar 18”, “She-Wolf”, “Countdown to Extinction”, “A Tout Le Monde” (prevedibile e atteso il duetto con Cristina Scabbia) intramezzati dalle più recenti “Kingmaker”, “Public Enemy” e “Super Collider”. Broderick sfoggia tecnica da vendere rifacendosi ai celebri soli del suo predecessore Friedman, oltre che dando il suo contributo in fase ritmica durante i tanti soli di Mustaine “(Hangar 18”, “She-Wolf”, “Sweating Bullets”, “Super Collider”). Lo stesso Mustaine conversa con il pubblico e si lancia in un «conoscete questa canzone?» seguito dall’attacco del riff di “Cold Sweat” dei Thin Lizzy, cui seguono due pietre miliari come “Symphony of Destruction” e “Peace Sells…”; in particolare, su quest’ultima, Vic Rattlehead fa il suo ingresso incitando un pubblico già in delirio, lasciando tuttavia  presagire la conclusione del loro set. E’ infine la mitica “Holy Wars..”, cavallo di battaglia estratto dall’immortale “Rust In Peace”, a chiudere l’ottima performance dei rinati Megadeth, tra l’approvazione generale dei presenti. 

Vittorio Sabelli

Setlist:
01. Prince of Darkness (intro)
02. Trust
03. Hangar 18
04. Kingmaker
05. She-Wolf
06. A Tout Le Monde
07. Countdown to Extinction
08. Sweating Bullets
09. Public Enemy No. 1
10. Super Collider
11. Cold Sweat
12. Symphony of Destruction
13. Peace Sells
14. Holy Wars…The Punishment Due

Megadeth: Photo Report a cura di Michele Aldeghi

 


 

Terminato lo show dei Megadeth, solo mezz’ora di pausa separa il pubblico, stanco e abbrustolito dal sole, da quello che è l’evento di questa giornata, la tappa italiana del Maiden England European Tour 2013, rivisitazione dello storico tour dell’88, che si annuncia fenomenale già a partire dalla setlist. Le note di “Doctor Doctor” degli Ufo, danno il tempo al pubblico di prepararsi, per poi esplodere insieme ai fuochi d’artificio sul palco, quando gli Iron Maiden fanno il loro imperioso ingresso sul palco attaccando con “Moonchild”. La scenografia, che riporta lo sfondo della copertina di “Seventh Son Of A Seventh Son”, è grandiosa e grazie a imponenti schermi posti lateralmente al palco, anche i fan più distanti possono assistere comodamente allo show. Seguono a ruota altri brani storici della band come “Can I Play With Madness” e “ 2 Minutes To Midnight” per poi arrivare a quella che sarà l’unica semi ballad della loro performace: “Afraid To Shoot Strangers”. L’energia espressa sul palco da Bruce Dickinson è incontenibile, le sue corse continue da una parte all’altra del palco, l’immancabile incitazione «Scream for me Milano!» e le sue inossidabili doti di front man contagiano sia il pubblico, che esplode in continue acclamazioni, che gli altri membri della band, soprattutto Steve Harris che continua a cambiare posizione, e Janick Gers, il quale continua a saltellare e ballare come un’ossesso. “The Trooper”, mette in risalto ancora una volta le capacità vocali di Dickinson, che per questo brano indossa una casacca rossa e bianca e impugna costantemente una bandiera inglese. Così come i cambi di scenografia sullo sfondo del palco sono continui, i capolavori si susseguono uno dietro l’altro: “The Number Of The Beast”, con i suoi bellissimi giochi pirotecnici sul finale, “Phantom Of The Opera”, brano che in sede live cattura con il suo fascino oscuro e, infine, “Run To The Hills”, con l’apparizione della storica mascotte Eddie, vestito da soldato con tanto di sciabola. Divertente il siparietto che si crea con Gers che continua a passare sotto le gambe della mastodontica creatura, mentre questa cerca di colpirlo dall’alto. Con “Wasted Years”, si spazia anche su “Somewhere In Time”, album già celebrato tempo addietro, tuttavia è “Seventh Son Of A Seventh Son”, con la sua title track e con la seguente “The Clairvoyant”, a rapire ancora una volta il pubblico e a lanciare la volata verso il grande finale con “Fear Of The Dark”, cantata all’unisono dalla folla, e “Iron Maiden”, sulle cui note la scenografia tocca il suo più alto livello, grazie alla totale rappresentazione della copertina di “Seventh Son Of A Seventh Son”, con tanto di feto pulsante nella mano sinistra di Eddie. Le luci calano sulla scena ma solo per pochi istanti, infatti sugli schermi vengono proiettate immagini della Seconda Guerra Mondiale, mentre il famoso “Churchill’s Speech” riempie l’aria per poi lasciare posto alla mitica“Aces High”, unico brano sul quale il buon Bruce ha fatto un po’ di perdonabile fatica. “The Evil That Man Do” e “Running Free”, con tanto di presentazione dei membri della band, segnano la fine deinitiva dello spettacolo. 
 

Due intense ore di show, scenografia eccezionale, scaletta impressionante e un pubblico che non ha staccato gli occhi dal palco neanche per un secondo sono più che sufficienti a mettere gli Iron Maiden, nonostante la loro età, una spanna sopra a tutte le altre band della giornata. Di sicuro le 40000 persone presenti al Sonisphere Festival, ricorderanno a lungo questa bellissima serata.

Luca Cardani
 

Setlist:
01. Moonchild  
02. Can I Play with Madness  
03. The Prisoner  
04. 2 Minutes to Midnight  
05. Afraid to Shoot Strangers  
06. The Trooper  
07. The Number of the Beast  
08. Phantom of the Opera  
09. Run to the Hills  
10. Wasted Years  
11. Seventh Son of a Seventh Son  
12. The Clairvoyant  
13. Fear of the Dark
14. Iron Maiden  

Encore:
15. Churchill’s Speech  
16. Aces High  
17. The Evil That Men Do  
18. Running Free  

Iron Maiden: Photo Report a cura di Michele Aldeghi