Live Report: Steel Panther @Alcatraz (Mi) 28/09/2016
All’Alcatraz è serata in odore di Sunset Strip intorno al 1987. Tornano sul palco milanese gli Steel Panther, alfieri di quel glam metal che temevamo inesorabilmente travolto dai camicioni di flanella provenienti da Seattle a inizio anni novanta.
Pur nell’esplicito e a tratti parodostico richiamarsi ai tempi che furono, gli Steel Panther sanno farsi apprezzare, allestendo un rock show che è davvero tale, con il solo, manifesto obiettivo di divertire gli astanti.
E aggirandosi proprio tra i succitati astanti, si rimane piacevolmente colpiti dalla varia umanità presente. Oltre ai prevedibili rocker e metallari d’annata (gente che probabilmente vide i Mötley Crüe ai tempi di Dr. Feelgood), molti sono i giovani e, trattandosi degli Steel Panther, le giovani, a tratti adolescenti. C’è, dunque, ancora un ambiente che produce nuovi fan di glam metal nel 2016. Ci si potrebbe chiedere per quali canali sia arrivato loro Feel the Steel, visto che proprio non si tratta del genere più di moda al giorno d’oggi. Probabilmente, è il termine “moda” stesso a non essere più lecito nel mondo della musica d’inizio terzo millennio: le tendenze sono fluide e le passioni sono alimentate da molti più influssi che nel passato, arricchendo e al contempo confondendo un poco le scelte del cuore.
Fatto sta che il pubblico è fresco e ha evidentemente voglia di ridere, ballare e urlare con le battute oscene e la musica ruffiana dei quattro di Los Angeles.
L’aria di revival viene opportunamente scaldata dagli Inglorious: ma chi ha scelto questo nome terribile? e il bassista non assomiglia moltissimo a Jack Black? Gli inglesi sono facilmente inquadrabili come una sorta di cover band di Whitesnake, Rainbow e Deep Purple del periodo Coverdale. Non è un caso che nella scaletta compaiano I Surrender (Rainbow) e Fool for You Lovin’ (Whitesnake). Se la quest’ultima mantiene una certa dignità esecutiva, soprattutto in virtù della voce potente del cantante, I Surrender è una misera ombra dell’originale, inopinatamente velocizzata e con suoni di chitarra che farebbero inorridire il man in black. Nel complesso, tuttavia, la band fa una buona figura, grazie a un ottimo cantante (forse, un po’ troppo urlatore) che sa valorizzare pezzi come la ballatona Holy Water (praticamente uno scarto di Ready an’ Willing) e la conclusiva Underwear, capace di scaldare il pubblico che si fa numeroso e tributa applausi al gruppo mentre lascia spazio ai roadie degli Steel Panther.
E i roadie sono parte di un rock show, così come le birre, l’aria sudata, le punte dei piedi e, naturalmente, le groupie. Ebbene, la buona notizia è che esistono ancora queste fanciulle degne di lode dedite all’adorazione della rock star maledetta e colorata. Nel 2016 hanno i capelli meno gonfi che nel 1987, ma assomigliano ancora a Bobbie Brown, con i loro reggiseni di pelle, gli short e le calze a rete artatamente bucate. Le vedi solcare leggiadre la folla di metallari che si apre ossequiosa, tra complimenti meno volgari e più timidi di quanto ti aspetteresti. Le vedi puntare alle prime file, mentre gli amplificatori sparano Metal Health e Breakin’ the Law, Shoot to Thrill e Let It Go: e ti chiedi se quei pezzi, che sono parte integrante della vita di molti dei presenti, queste giovani groupie dall’aspetto sicuro dell’Alcatraz li conoscano e li rispettino come insuperati modelli di riferimento.
Le luci si spengono. Il 4/4 di I Love It Loud (Kiss) avvolge il locale e l’aria diventa elettrica: è tempo di Steel Panther. Eyes of a Panther e Just Like Tiger Woods si susseguono senza soluzione di continuità, mentre la band inizia a recitare il proprio copione senza sbagliare un colpo. L’atmosfera è subito festosa e il primo dei discorsi di Satchel non fa che alimentarla, tanto è sicuro di arrivare a bersaglio tra battute oscene e gesti che lasciano poco alla fantasia. Quale introduzione migliore per Party Like Tomorrow Is the End of the World, che assieme ad Asian Hooker conquista il pubblico con quella sua attitudine molto Poison che la band stessa non fa nulla per celare.
I nostri glamsters impersonificano ottimamente i propri ruoli, così ben definiti. Satchel è il virtuoso sexy e al contempo il buffone erotomane che guida letteralmente la band. Michael Starr è un frontman di razza, un perfetto incrocio tra Vince Neil, Bret Michaels e Mike Trump. Stix Zadinia è l’amico sempre allegro, un po’ grassoccio, un po’ goffo, che alla fine si rivela l’anima della festa. E poi c’è Lexxi Foxxx (con cinque x cinque), bravissimo a recitare la parte dell’androgino ossessionato dal look e altezzosamente distaccato dagli altri omaccioni volgari.
L’assolo di Satchel è un compendio della storia del metal. Accompagnandosi con la cassa della batteria di Stix, Satchel ripercorre alcuni dei riff più rappresentativi del genere. Ed ecco le varie Smoke on the Water, Master of Puppets, The Trooper e Iron Man (quest’ultima intonata da tutto l’Alcatraz). E io non posso che sorridere compiaciuto a constatare quanti giovani mi siano accanto e riconoscano immediatamente note messe in sequenza trenta, quaranta anni fa. Le passioni hanno proprio questa caratteristica: certi loro dettagli rappresentano intere vite per gli adepti e niente per tutti gli altri. Questi riff parlano di un genere che, pur negli stenti di riproporsi grande, non ha mai smesso di vivere e di perpetrarsi di generazione in generazione. Finchè un Alcatraz intonerà all’unisono Iron Man, l’heavy metal sarà vivo.
Ed ecco il momento acustico, non inatteso visto che il tour sta supportando il recente live acustico Live From Lexxi’s Mom’s Garage. Due i pezzi: una bella versione rallentata di She’s on the Rag (suonata da Stix su una tastierina da iPhone…) e Girl from Oklahoma. Quest’ultima è preceduta da un lungo siparietto con una ragazza del pubblico fatta accomodare su uno sgabello al centro del palco. Le viene dedicato un accenno di Michelle dei Beatles (perché questo la ragazza dice essere il suo nome) e ogni membro della band “inventa” una canzone per lei: lascio al lettore di immaginare il tema delle composizioni estemporanee.
A questo punto il dado è tratto e 17 Girls in a Row vede l’usuale invasione controllata del palco da parte di una ventina di ragazze. Tra le mosse più o meno smaliziate delle fanciulle passa anche la bella Gloryhole, mentre il livello di testosterone del pubblico lasciato sotto il palco tocca apici parossistici. Dal canto suo, la band dimostra una straordinaria professionalità nel saper mantenere il giusto equilibrio tra divertimento e volgarità, rispettando sempre le ragazze e mai forzandone il comportamento.
Si intravede la fine della festa quando Starr intona Community Property e i presenti gli vanno dietro quasi fossero telecomandati. Bella questa ballad così tanto ottantiana, benché un po’ rovinata da un testo che, una volta tanto, risulta davvero fuori luogo: come già scrissi nella recensione di All You Can Eat, chiunque ha un periodo refrattario (soprattutto dopo 17 ragazze di fila!) e una power ballad è la perfetta colonna sonora per accompagnarlo. In questo, Community Property rischia di scadere nella parodia, vanificando così un pezzo altrimenti eccellente.
A seguire ecco l’inno Death to All but Metal, che come sempre conclude lo show regolare.
La band esce. Passano pochi minuti ed è il turno di Fat Girl (Thar She Blows) e del finale con la cover a la Steel Panther di Livin’ on a Prayer, che ha titolo Party All Day (Fuck All Night). Il pubblico salta, urla, balla, si diverte. La band fa altrettanto e il concerto si chiude nel solito, allegro tripudio di colori e arrivederci a presto.
Voltando le spalle al palco mi chiedo cosa rappresentino gli Steel Panther. La mente dice che sono l’esempio della decadenza del glam metal, una parodistica imitazione professionale e calcolata di quel che fu, alimentata dal solo fascino che ogni revival porta con sè. Il cuore, però, balzella ancora sulle note splendidamente pussy metal di Party All Day (Fuck All Night) e vuole ignorare che i Bon Jovi e, prima ancora, i Kiss ne avessero già coniato la formula, tanto tempo fa.
Una groupie corre sudata nel backstage; il rock è vivo.
Setlist:
I Love It Loud (Intro)
Eyes of a Panther
Just Like Tiger Woods
Party Like Tomorrow Is the End of the World
Asian Hooker
Turn Out the Lights
Let Me Cum In
Guitar Solo
It Won’t Suck Itself
She’s on the Rag (acustica)
Girl From Oklahoma (acustica)
17 Girls in a Row
Gloryhole
Community Property
Death to All but Metal
Encore:
Fat Girl (Thar She Blows)
Party All Day (Fuck All Night)