Live Report: Steel Panther @ Alcatraz Milano 2015
L’Alcatraz non è il Rainbow o il Trobadour, le letterone che compongono Hollywood non campeggiano sul Monte Stella, e l’Idroscalo non ha decisamente niente a che spartire con l’Oceano Pacifico. Ma stasera a Milano suonano gli Steel Panther e il glam rocker che è in me vede le palme sui viali e scambia il Parco Sempione per Santa Monica.
Sì, ecco di nuovo gli Steel Panther, il quartetto losangelino che ha saputo ballare sul sottile filo dell’ironia, riuscendo nella difficile impresa di non far scadere in farsa la sua riproposizione ipertestosteronica dell’hair metal degli anni ottanta.
Pussy metal, dunque, è quel che ci si attende stasera sulle assi del palco B dell’Alcatraz. E pussy metal sarà, in un’atmosfera da party selvaggio che fa tanto rock.
Ma prima di quei parrucconi degli Steel Panther, ecco le The Lounge Kittens. Trattasi di un trio di ragazze di Southampton (in vero, molto british) che ripropongono brani di area più o meno metal in versione swing. Sul palco ci sono solo le loro voci e una tastiera, suonata da una delle gattine. L’impatto è straniante: niente chitarre distorte, niente assoli, niente batteria. Mi sono goduto le espressioni stampate sulle facce di chi entrava all’Alcatraz e se le trovava lì a stravolgere Sad But True: qualcosa tra il divertito e il curioso. Perché le ragazze sono curiose: preparatissime tecnicamente, armonizzano alla grande, con una precisione davvero ammirevole. Gli arrangiamenti, poi, sono intelligenti, azzeccati e mai sopra le righe.
Ecco, quindi, arrivare i Metallica della già menzionata Sad But True, che si ascolta con gran piacere, Ecco un medley dei Rammstein (Sonne, Feuer Frei, Du Hast), ben gestito e dinamico. Ecco una splendida versione di The Beautiful People (Marilyn Manson). Ma il meglio arriva con l’annodarsi continuo di una serie di hit mondiali, ora dei Queen (I Want To Break Free), ora di Belinda Carlise (Heaven Is a Place On Earth), ora addirittura di Michael Jackson (Black Or White).
Il pubblico si diverte e risponde con applausi convinti. La band tiene bene il palco e maneggia l’audience come vuole: splendida l’ammissione, tra il provocante e il furbo, che questa con gli Steel Panther è la “sexiest experience” della loro vita.
Run to the Hills è accolta, ovviamente, da un boato, ma alla fine si rivela la meno convincente del lotto. Forse è meglio non scomodare certe sacre icone.
Arrivano poi un medley dei Prodigy e Rollin dei Limp Bizkit, che confermano la buona impressione lasciata dalle esecuzioni precedenti. Invece, la cover “interna” di Gloryhole non lascia il segno.
In sostanza, le Kittens hanno fatto fronte alla grande al proprio dovere di scaldare il pubblico. Alla fine dell’esibizione rimane, tuttavia, un gusto dolceamaro, combattuto tra l’intelligente simpatia professionale della proposta e la triste constatazione che il metal sia un po’ costretto a celebrare se stesso per ovviare alla grave mancanza di ricambi validi.
Alla ricerca dell’angolo migliore da cui godermi i panteroni lungocriniti, non posso non incocciare negli usuali personaggi che affollano i concerti degli Steel Panther: glam rockers colorati, metallari che quasi si vergognano d’essere davvero lì, i soliti nerd che non mancano mai e, ovviamente, le straordinarie groupies ibernate nel 1987. Parlo con qualche vicino e vengo a sapere che l’incontro pomeridiano della band con i fan che hanno acquistato il pacchetto VIP è stato molto simpatico: una cinquantina i presenti, di diverse nazionalità, tutti pronti a farsi fotografare con Michael Starr e gli altri, oltre che a porre nelle mani della band diverse parti del corpo da autografare (a voi lettori lascio d’immaginare quale fossero le zone più gettonate).
Si spengono le luci. 1978, l’anno di Van Halen I: le note registrate di Runnin’ With the Devil, che pare scritta ieri da quanto è bella, invadono l’Alcatraz. Ed è festa: cade il telone che nascondeva il palco e la band appare in tutto il proprio ostentato glamour. Pussywhipped, brano d’apertura dell’ultimo All You Can Eat, si abbatte sui presenti, un po’ affaticata da suoni pessimi. La voce di Michael Starr è eccessivamente alta, mentre il rullante di Stix Zadinia fa concorrenza a quello tristemente noto di un certo St. Anger. La band dilata il finale del pezzo ad arte, richiamando e amplificando certe abitudini diffusissime poco meno di trent’anni fa. Dopo un quarto d’ora di concerto, ecco finalmente il secondo pezzo: Party Like Tomorrow Is the End of the World riporta alla memoria i Poison più festaioli (a loro rimanda esplicitamente la P nel logo della band) e l’Alcatraz non può che divertirsi.
Fat Girl (That She Blows) e Tomorrow Night, inframezzate dai soliti discorsi triviali di Satchel, sono due sicurezze, mentre The Shocker, tratta dal primo album della band, non si sentiva da un po’: e meno male che è stata ripescata.
Segue l’Hair Solo di Lexxi Foxxx (tre x), celebrazione edonistica del glam più becero: l’evidente fine parodistico fa sì che non si scada nella macchietta fine a se stessa. E tutti ridono.
17 Girls in a Row e Gloryhole (testi eccezionali) vedono l’usuale invasione controllata del da parte di una quindicina di ragazze scelte tra il pubblico. Tra danze sensuali, ammiccamenti e qualche grazia in bella vista, il livello del testosterone dei maschi presenti aumenta a dismisura. Ma la band è attentissima a non superare la linea della decenza: Michael Starr e Satchel, i più circondati da ragazze oggettivamente provocanti, sono bravissimi a far divertire loro e il pubblico, sempre rispettando le fanciulle senza coinvolgerle in nulla che sappia di forzoso.
L’assolo di Satchel arriva regolare e non fa gridare al miracolo, mentre la successiva Ten Strikes You’re Out coglie sempre nel segno. Ed è il momento della parte acustica dello show, che si apre con Kanye, non esattamente amichevole con Kanye West. In ordine arrivano Stripper Girl (gran pezzo), Why Can’t You Trust Me e Girl From Oklahoma, che è la sorella bastarda di More than Words e viene eseguita con le The Lounge Kittens. Il tutto richiama alla lontana certi concerti unplugged che iniziarono a farsi strada a inizio anni novanta: il risultato è buono, ma si capisce che la dimensione degli Steel Panther è un’altra. Se ci fossero dubbi, ecco che la fantastica Asian Hooker riporta tutti in carreggiata.
A chiudere il concerto sono Eyes of a Panther, sempre piacevole, una cover di You really Got Me (e si vede che Michael Starr ha cantato per anni in una cover band dei Van Halen) e l’inno Death to All but Metal.
Richiamata a gran voce, la band torna sulle assi del palco con Community Property, notissima summa delle power ballad di un tempo. Infine, Livin’ on a Prayer mette la parola fine alla serata nel tripudio generale …ops, scusate, volevo dire Party All Day (Fuck All Night). Ma più o meno è la stessa cosa.
In conclusione, una gran serata all’Alcatraz. Ogni volta che vedo gli Steel Panther penso che mi piacerebbe rivederli a stretto giro. E non mi capita spesso negli ultimi tempi.
Nel complesso, deve far riflettere il ricorso manifesto a un modello così datato. Se è vero che gli Steel Panther sono talmente bravi da non scadere nella presa in giro, va detto che sembrano guardare al Sunset Strip del 1987 più come a un riferimento da amplificare ironicamente che non a uno stile da abbracciare con convinzione. Se a questo aggiungiamo la bella, ma in sostanza ridondante proposta delle The Lounge Kittens, il quadro d’insieme può sconfortare: davvero certo metal vive solo di riproposizione del passato? Le ottime band hard rock che vengono dal nord Europa (Crazy Lixx, H.E.A.T., Reckless Love, solo per citarne alcune) sono un buon baluardo a questo rischio, ma la sensazione strisciante all’Alcatraz era quella di assistere a una carnevalata, una fantastica carnevalata, per carità. Mi si dirà che le stesse parole vennero spese ai tempi per i Kiss prima e per i Poison poi, oppure che è proprio il disimpegno ostentato e il sesso su un tour bus ciò che fa del glam il glam. Tutto vero, ma la creatività e la credibilità del tutto sembrano oggi più in crisi che mai, nonostante e forse proprio a causa della straordinaria bravura degli Steel Panther stessi.
A fine concerto, un ragazzo mi dice: “pensa che negli anni ottanta ci credevano davvero”. Anche grazie a quel credo, oggi gli Steel Panther esistono e possono permettersi concerti belli come quello dell’altra sera all’Alcatraz, che non sarà stato il Trobadour ma poco ci mancava.
Setlist
Intro: Runnin’ With the Devil (Van Halen)
Pussywhipped
Party Like Tomorrow Is the End of the World
Fat Girl (Thar She Blows)
Tomorrow Night
The Shocker
Hair Solo
17 Girls in a Row
Gloryhole
If I Was the King
Guitar Solo
Ten Strikes You’re Out
Set acustico:
Kanye
Weenie Ride
Stripper Girl
Why Can’t You Trust Me
Girl From Oklahoma
Asian Hooker
Eyes of a Panther
You Really Got Me (The Kinks)
Death to All but Metal
Encore:
Community Property
Party All Day (Fuck All Night)