Live Report: Volbeat @ Fabrique, Milano 14/10/2019
VOLBEAT + BARONESS + DANKO JONES
14/10/2019 @Fabrique, Milano
Siamo al Fabrique di Milano e alle cinque di pomeriggio c’è già un numero non indifferente di persone in coda fuori dal locale in attesa del meet and greet con i Volbeat.
Questa sera, a fianco alla band danese, troviamo i canadesi Danko Jones e gli americani Baroness, a formare un bel pacchetto destinato a garantire ore di divertimento in diverse gradazioni di Rock.
A livello organizzativo la serata fila liscissima con orari rispettati quasi al secondo e suoni molto buoni. Alle 19 saltano sul palco Danko Jones e i suoi due compari e inizia la festa.
La definizione migliore della loro musica è Rock spensierato, allegro, energico e queste caratteristiche non possono che coinvolgere in un attimo il pubblico.
Probabilmente molti non conoscevano i canadesi, all’inizio le facce sotto al palco sono un po’ spaesate, ma nell’arco di un paio di canzoni il pubblico applaude a tempo, acclama la band e già sulla terza canzone, ‘First Date’, canta i ritornelli. Prima della quinta canzone, ‘Burn in Hell’, Danko presenta la band e dedica ironicamente il pezzo successivo alla band stessa, “una cosa mai fatta prima nel Rock, un momento storico”, scherza il frontman.
Dopo mezz’ora esatta i musicisti salutano e lasciano il palco, ma siamo sicuri che questa sera si sono conquistati qualche fan.
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Il tempo di un cambio palco e tocca ai Baroness, band che si è ritagliata uno spazio sempre più importante nella scena Metal, e che l’anno scorso ha suonato tre concerti in Italia, segno di una popolarità crescente anche nel nostro Paese. Per questo motivo non può che essere apprezzata la scelta di lasciare agli americani un’ora di concerto, un tempo abbondante per un gruppo spalla.
La band di John Baizley concentra la scaletta sugli ultimi due album e apre con ‘Kerosene’, adrenalinica canzone di “Purple”. Un bell’accorgimento che impreziosisce il concerto è l’uso di luci del colore dell’album da cui viene suonata una canzone: viola, per l’appunto, sulla prima canzone, gialle sulla seconda, ‘March to the Sea’, canzone di “Yellow” e così via.
Dopo due anni nella band, Gina Gleason ha trovato la sua dimensione perfetta nei Baroness e suona la chitarra e canta con energia distribuendo sorrisi e facendo “facce dure” dal palco. Baizley è sempre protagonista con l’immensa foga che mette nel cantare, ma si fa anche da parte mentre Gina suona gli assoli, e spesso lo vediamo chinato a manovrare i vari pedali della sua chitarra. Sono questi pedali che permettono il sound molto elaborato della band, ed è quasi sorprendente che per quasi tutto il concerto i suoni siano stati calibrati bene, distinguibili, cosa che spesso non accade quando la band non è headliner (e a volte neanche in quel caso). Il ritmo incalzante dello show subisce un rallentamento con la splendida ‘If I Have to Wake Up (Would You Stop the Rain?)’, e dopo un altro paio di pezzi di “Purple” lo show si chiude con una doppietta di classici della band, ‘Isak’ e ‘Take My Bones Away’.
Al termine dell’ora a disposizione dei Baroness siamo soddisfatti, uno show molto buono, giustamente concentrato sull’ultimo disco, che intrattiene e riscalda in attesa degli headliner.
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È finalmente il turno degli headliner e, nella mezz’ora di cambio palco, il Fabrique si riempie ancora fino a raggiungere la capienza massima o quasi: qualche biglietto era ancora in vendita in cassa nel pomeriggio, ma è possibile che lo show sia nel frattempo andato soldout.
Quando le luci si spengono la sala esplode in un boato, arrivano i Volbeat e si inizia con ‘The Everlasting’. Come per i compagni di tour Baroness, anche i danesi si concentrano sugli ultimi due album: si continua infatti con ‘Pelvis on Fire’ e, dopo un excursus con ‘Doc Holliday’, una delle poche canzoni suonate da “Outlaw Gentlemen & Shady Ladies”, si continua con un regalo per i fan italiani.
Viene infatti suonata la nuova ‘Cloud 9’ per la prima volta dal vivo che scatena l’entusiasmo dei presenti. La passione del pubblico diventa ancora più evidente con la successiva canzone, ‘For Evigt’, che nonostante il ritornello in danese viene cantata a gran voce da tutti i presenti.
I tre microfoni presenti sul palco permettono a Michael Poulsen di muoversi liberamente per il palco così da coinvolgere tutti gli spettatori, e ad ogni suo spostamento lo seguono grandi urla da chi sta nelle prime file.
Non mancano simpatici intermezzi tra le canzoni, come l’ormai immancabile ‘Ring of Fire’ di Johnny Cash accennata prima di ‘Sad Man’s Tongue’, canzone seguita da una ‘Black Rose’ con Danko Jones come ospite al microfono che scambia versi con Poulsen.
Simpatico anche l’accenno a ‘South of Heaven’ degli Slayer che gasa gli spettatori prima di ‘Slaytan’, canzone che il frontman danese racconta essere ispirata proprio alla band Thrash americana, come d’altronde il nome poteva far intuire.
Dietro al cantante e chitarrista, la batteria di Jon Larsen è montata su supporto lungo quanto il palco intero con uno schermo su cui lampeggiano animazioni alternate alla scritta Volbeat: l’idea non è cattiva, ma la realizzazione non è ottima dato che non essendo altissimo questo schermo non è facilmente visibile da molti dei presenti, ma quantomeno permette a tutti di vedere il batterista sulla sua postazione rialzata.
Kaspar Boye Larsen al basso e Rob Caggiano alla chitarra non stanno troppo sotto i riflettori, solo il secondo giusto durante gli assoli, ma fanno il loro lavoro in maniera efficace e lasciano a Poulsen il compito di incantare il pubblico.
Dopo ‘Last Day Under the Sun’, ennesima canzone di “Rewind, Replay, Rebound” la band lascia il palco, ma torna poco dopo per il classico encore di ben cinque pezzi, e chiude il concerto con due vecchi classici, ‘Pool of Booze, Booze, Booza’ e ‘Still Counting’.
Ovviamente, dato il cambio stilistico degli ultimi anni e la setlist composta per la maggior parte da pezzi degli ultimi due anni, per apprezzare il concerto bisogna apprezzare gli ultimi Volbeat, ma evidentemente il pubblico è arrivato preparato e sembrano tutti soddisfatti.
Dopo i problemi vocali di Michael Poulsen delle scorse settimane molti avevano temuto il peggio per questo concerto ma, dopo un’ora e mezzo abbondante di concerto e venti canzoni, a giudicare dalle reazioni siamo sicuri che tutti si siano divertiti, sopra e sotto al palco.
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