Masters Of Death – 11.11.2006 Milano – live report

Di Alberto Fittarelli - 16 Novembre 2006 - 18:57
Masters Of Death – 11.11.2006 Milano – live report

Una serata di quelle da far tremare le gambe ad ogni appassionato del
vecchio, (mal)sano death metal svedese quella che si svolgeva al Transilvania
Live di Milano un freddo sabato di novembre: una serata che ha ripagato a pieno
tutte le attese dei fan accorsi.

Iniziamo dal principio: il bill era semplicemente da bava alla bocca, con la
riunione delle quattro band creatrici del suono ‘made in Sunlight Studios’: Entombed,
Dismember, Grave
e Unleashed. Un pacchetto così non si era mai
visto, e molti lo definivano un Titans Of Death, richiamando l’omonimo, storico
tour thrash che anni ed anni fa fece sfracelli sui palchi di mezzo mondo. Va da
sé che la gente abbia risosto in massa all’evento, per il quale erano
disponibili solo due date italiane (Milano e Padova), riempiendo nel nostro caso
un Transilvania dal look rinnovato in stile futuristico (abbandonati infatti gli
orpelli “gothic” che lo contraddistinguevano sino a non molto tempo
fa, su tutti la famosa parete coperta di pietre tombali con i nomi ei gruppi
esibitisi nel locale).

In un club ancora tutt’altro che pieno, complice anche la partita Milan-Roma
– ricordiamo che lo stadio è di fianco al locale e che quindi il traffico era
congestionato dalle 6 del pomeriggio – iniziano a suonare i belgi Exterminator,
sconosciuti ai più e inseriti nel bill, mi verrà detto dai musicisti stessi,
per l’apprezzamento diretto delle band responsabili del tour. A cosa sia dovuto
questo apprezzamento non è dato saperlo, dato che la band si esprime in circa
20 minuti di death/thrash di una banalità sconcertante, con gli Slayer che
aleggiano in continuazione sui loro pezzi. Mettiamola così: se non altro la
maggior parte della gente ha fatto in tempo ad arrivare per l’inizio del concerto
vero e proprio.

Ed è con i Grave che lo spettacolo ha il suo inizio, stasera: la
scelta di un bill ‘rotante’ li relega ad opening act, con tempo di scena a dire
il vero identico agli altri, e la band di Ola Lindgren fa il suo mestiere
ottimamente, va detto: ma anche in modo abbastanza freddo. La scaletta pesca
infatti da un po’ tutta la loro carriera, privilegiando com’è naturale l’ultimo
As
Rapture Comes
, con una Burn che scalda a dovere la platea; ma
il gruppo è statico, l’headbanging di mestiere, insomma: non si nota
grandissimo coinvolgimento da parte dei musicisti, specie se confrontati a chi
li seguirà. Un peccato, perché la voce di Ola è su ottimi livelli e perché
la gente ha fame di Grave: per chi non l’avesse capito prima, basta la chiusura
dei 45 minuti loro assegnati con la mitica Into the grave per incendiare
definitivamente il pubblico e dare il via allo slam dancing, che proseguirà per
tutta la serata. Bravi ma standard, questo potrebbe essere un giudizio sintetico
sull’esibizione di quella che è forse la band meno nota nel quartetto swedish.

Decisamente più attesi, anche a causa di un’assenza dai palchi più
prolungata, i compagni Unleashed: capitanato come sempre dal mastodontico
Johnny Hedlund, il quartetto risulterà il più violento della serata. Questo
non solo per l’oggettiva differenza tra il tipo di death da loro proposto e
quello, più canonico e ‘thrashy’, dei compagni di bill, ma perché Johhny &
soci hanno il fuoco nelle vene, e l’energia da loro emanata investe la folla con
un’onda d’urto che solo pochi, grandi concerti riescono a generare. Complice
anche un contratto SPV che ha portato alla pubblicazione di un album – ad onore
del vero non eccezionale – come Midvinterblot, il combo è semplicemente
inarrestabile nel suo incedere, Johhny mangia il palco con la propria presenza e
dialoga costantemente col pubblico, sin dall’apertura con l’inno Before The
Creation Of Time
. Tutta la setlist del gruppo è un vero greatest hits, che
li porta ad aggiungere qualche cartuccia ad un repertorio già ottimo: su tutte
la traccia migliore dell’ultimo album, quella In Victory Or Defeat che
Johnny riesce a far cantare al pubblico in blocco. Chiusura con un altro pezzo
da novanta, Death Metal Victory: canzone anche tematicamente perfetta per
la serata, che vede le prime vittime del pogo selvaggio rialzarsi con il termine
delle ultime note.

Terza band – non me ne vogliano gli Exterminator, ma non mi sento proprio di
considerarli come facenti parte del concerto vero e proprio – ad esibirsi è
quella su cui molti dei presenti nutrono più dubbi: gli Entombed hanno
infatti da tempo deviato verso sonorità che a dire il vero col death classico
c’entrano poco, probabilmente solo come base, anche se il recente EP When
in Sodom
in qualche modo li vede riaffacciarsi verso il groove di questo
sound. Prima del concerto L.G. Petrov e Alex Hellid mi avevano anticipato una
scelta dei pezzi più vicina al vecchio repertorio, per venire incontro ai gusti
dei presenti ed al bill della serata, ma dev dire che il risultato supera le
attese: si parte infatti sì con la title-track del succitato EP, che su palco
è decisamente malvagia e d’impatto, ma poi la scaletta sarà incentrata su
brani come Crawl, Stranger Aeons, Out Of Hand, Revel In
Flesh, Sinners Bleed
e ovviamente l’immancabile Left Hand Path! Ben
tre pezzi dallo storico Clandestine, praticamente un Boeing 747 in picchiata sul
pubblico: anche perché Petrov è al meglio ( o peggio) delle sue facoltà, con
una presenza come sempre dirompente (e barcollante), da vero frontman. E
chissenefrega, per una volta, se non riesce a cantare pe rintero il ritornello
della splendida Chief Rebel Angel: lo aiuta il pubblico, mentre lui sfascia il
palco, innaffia di birra il batterista, fa qualsiasi cosa possa mandare in
delirio la folla. In sintesi, probabilmente i migliori della serata: un
repertorio unico (proprio sicuramente anche delle altre band) si è unito nel
loro caso a una dimensione sul palco davvero d’impatto, coinvolgendo come
pochi, anche nel death metal, riescono a fare.

Sono infine i Dismember gli headliner di turno: la band di Matti
‘Santa Claus’ Kärki, passata per l’Italia lo
scorso febbraio
per promuovere l’ultimo, pesantissimo The
God That Never Was
, deve condensare nei propri 45 minuti un
repertorio sterminato e sceglie di farlo selezionando i pezzi più violenti e
diretti della propria carriera, con rare eccezioni. Ecco quindi succedersi brani
storici come Skinfather, Skin Her Alive e Life – Another Shape
Of Sorrow
; altri entrati tra le loro hit di recente, come la più melodica Time
Heals Nothing
; e infine alcuni la cui scelta lascia abbastanza perplessi:
non si può infatti dire che Where Ironcrosses Grow e Autopsy
siano dei pezzi immancabili, tutt’altro… Ma tant’è, in ogni caso la band
riesce a farsi valere come sempre, chiudendo la propria esibizione con la
classica Dreaming In Red e appagando quanto basta gli scatenati (ed ormai
esausti) fan. Forse il concerto che più ha lasciato l’amaro in bocca, il loro:
solo per la scelta dei pezzi, che a febbraio era ovviamente stata più completa
e che qui li ha visti penalizzati, anche se gran parte del pubblico non è
sembrata risentirne: il carisma di Matti e del resto della band è innegabile, e
tanto basta. Da rivedere probabilmente in un contesto esclusivo, per un giudizio
che resta comunque positivo.

Un evento, dicevamo: questo è stato il Masters Of Death, per chiunque
amasse il vero death metal: un evento di quelli che lasciano un ricordo e la
consapevolezza di aver impiegato bene il proprio tempo e i propri soldi, per una
serata dal gusto retrò come da troppo tempo non capitavano.

Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli