Opeth – Milano, 13/12/05 – report
Non so che cosa esattamente mi attiri degli Opeth: amo la loro
complessità ma la trovo anche parte di una debolezza, amo il loro feeling
gotico ma lo trovo un po’ troppo polverosamente settantiano, un po’ troppo
autocompiaciuto per potermi davvero conquistare. Questo, naturalmente, non è il
metro di giudizio oggettivo di un gruppo che (almeno sino a quando non ha
iniziato a ripetersi) non ha sbagliato davvero un colpo. È stato quindi con
sincera curiosità e interesse che mi sono recato al loro attesissimo (dal
pubblico metal) concerto milanese, quasi del tutto esaurito in prevendita e che
vede un Rolling Stone bello pienotto, come nelle migliori occasioni: tenendo
conto del fatto che con Kreator, Dark Tranquillity, Ektomorf e Hatesphere
qualche mese fa l’audience era più o meno la stessa, pur avendo in questo caso
solo un gruppo oltre agli headliner, abbiamo la misura del gigantesco successo
che arride da Blackwater Park in poi agli svedesi.
Iniziamo col nostro resoconto proprio dai Burst, ovviamente: dopo una
veloce trafila per entrare nella sala concerti trovo la cosiddetta sorpresa del
metalcore svedese già all’opera da qualche minuto, ed ho modo di osservarne le
caratteristiche principali nel giro di una manciata di pezzi. In sostanza dal
vivo l’energia espressa non è poca, soprattutto grazie all’ottimo movimento di
tutti i musicisti e alla grande prova del batterista Patrik Hultin, davvero il
migliore della band; peccato che i pezzi non convincano più di tanto in sede
live, perché la voce tipicamente hardcore di Linus Jägerskog si rivela fin
troppo monotona e non ben bilanciata da quelle di chitarrista e bassista, come
accade invece nel buon (ma non eccezionale, sarò io a non digerire suoni così
“alla moda”) Origo. Una prova discreta insomma, che
serve a scaldare un po’ il pubblico ma che invita obiettivamente a cercare la
sistemazione migliore per godersi gli headliner.
E gli Opeth si fanno attendere un po’: il cambio di palco infatti non
è certo breve, ma sarà in linea con lo svolgimento di tutto il resto della
serata. Il quintetto svedese (che vede alla batteria il – temporaneo? – session Martin Axenrot
dei Bloodbath) attacca infatti subito la folla frontalmente, con una Ghost of
Perdition che lascia ben sperare sulla quantità di energia espressa dal
combo, grazie anche all’impeccabile e potentissimo growl di Mikael Åkerfeldt;
suoni splendidi, batterista in ottima forma e prime chiome svolazzanti tra le
prime file e non solo, tanto che a un certo punto decido di spostarmi più di
lato per poter osservare più tranquillamente un concerto che non riesco a
visualizzare come “estremo”. E che infatti lo sarà solo in parte,
nemmeno preponderante: l’impressione generale – ed era la conferma che si voleva
avere dopo il tour all’85% acustico seguito a Damnation – è
quella di trovarsi di fronte ad un gruppo ormai pienamente gothic-prog, immerso
quindi anche attitudinalmente in una realtà non più estrema, riconoscibile
solo dai vocalizzi feroci di Mikael. Voci che però lasciano il più delle volte
spazio ai timbri puliti: lunghissime le pause atmosferiche nei loro brani,
riproposte in modo del tutto fedele dal vivo.
Proprio questa è stata, a mio parere, una debolezza: lo svolgersi della
scaletta ha visto alternarsi pezzi “antichi” come White Cluster
(brano insolito per le apparizioni live degli svedesi, ed è lo stesso Mikael a
ricordarlo al pubblico), When e addirittura Under a Weeping Moon,
da Orchid; con il suo lunghissimo arpeggio acustico riportato
integralmente sul palco. Ma la sensazione è quella di trovarsi davanti a dei
mostri della tecnica, con però un ridottissimo impatto live: significativo il
fatto che il più energico nelle movenze fosse il tastierista, Per Wiberg!
Unica e francamente ingiudicabile nell’ottica di una performance dal vivo è
poi l’abitudine di Mikael di intrattenere il pubblico, tra una canzone e
l’altra, con lunghissimi monologhi, battute, ironia di ogni tipo: dal commovente
e sarcastico ricordo del loro primo concerto italiano, nel ’96 di spalla ai
Cradle of Filth, alle prese in giro riservate agli amici Lacuna Coil, che
rispondono dal “loggione” del Rolling con insulti assortiti; per
finire con i quiz stile Gerry Scotti sui Rainbow, dopo il dono ricevuto da uno
spettatore di un loro LP, poco prima dell’encore di Deliverance.
Un concerto anomalo quindi, anche rispetto ai canoni degli stessi Opeth,
che avevo avuto modo di osservare, oltre che nella disastrosa data del ’96,
anche durante il tour di Deliverance e che si erano rivelati un
gruppo compatto, robusto, feroce e assolutamente in linea con quello che
sembrava essere il loro album più violento. Qui la musica ha una cornice
atmosferica e di dialogo con il pubblico che si fa fatica a giudicare
serenamente, specie se consideriamo il fatto che una grossa sala come il Rolling
è abituata a ben altre scariche elettriche. Impeccabili insomma, ma forse un
po’ troppo – lo diciamo? – ridondanti qua e là, con troppi momenti di noia.
Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli
Scaletta:
Ghost of Perdition
When
White Cluster
Bleak
Closure
The grand conjuration
Under a weeping moon
The baying of the hounds
A fair judgement
Deliverance