Ad aprire le danze i neozelandesi Sinate, band dedita a un death potente e preciso che non disdegna le contaminazioni thrash, capace di regalare all’ascoltatore un mix esplosivo fatto di suoni potenti e ben bilanciati, di folate di violenza incontrollata e di una grande voglia di comunicare con il pubblico presente.Lo spettacolo dei quattro ragazzi di Auckland si ancora fedelmente alle due release all’attivo estrapolando la set list dai full-length “Beyond Human” e “Violent Ambitions”. La buona scelta dei pezzi ha convinto i presenti rendendo la prestazione dei Nostri come una vera e propria sorpresa. Qualche piccola sbavatura quasi impercettibile del batterista Sam Sheppard non ridimensiona minimamente il giudizio complessivo: promossi a pieni voti.
Brutalità: Mastic Scum
Ad alzare maggiormentei ritmi cardiaci degli spettatori ci pensano i Mastic Scum, band austriaca che da più di dieci anni dall’album di debutto “Zero”, ha consacrato l’attività musicale alla violenza sonora allo stato puro, un death metal brutale nelle ritmiche al fulmicotone, contaminato da numerosi stacchi grind, veri e propri mattatori della musica di Maggo Wenzel e soci. Da sottolineare l’incalzante lavoro alle pelli di Man Gandler – già session man dei Belphegor negli anni dal 1997 al 2002 - vero e proprio protagonista di un sound violento e privo di fronzoli tanto da essere il precursore del mosh che troverà l’apice nelle esibizioni dei due gruppi di punta. L’esibizione dei salisburghesi, convincente in ogni frangente, si è incentrata in particolare sull’ultimo album “Dust”, uscito lo scorso novembre e di fatto il primo album del cantante Wenzel dopo lo split con il frontman precedente Will. La prova canora è parsa da subito all’altezza, dimostrazione tangibile di un perfetto affiatamento con la band e di una buona scelta da parte del gruppo.
Riscatto: Vader
Riscatto a titolo puramente personale. Visti quest’estate al Metalcamp, i polacchi non mi avevano convinto affatto. Giustificati da una posizione in scaletta abbastanza infelice e da una gestione dei suoni non proprio ottimale, i Vader mi erano sembrati alquanto statici, monotoni, “senza troppa voglia” per capirci. Niente a che vedere con lo spettacolo offerto in questa occasione. Il riscatto, per quello che mi riguarda, si è consumato appieno con una prestazione sopra le righe di “Piotr” e compagni, in grado di sferrare fendenti micidiali agli spettatori sottostanti. Forse un po’ limitato dalle ridotte dimensioni del palco, il combo polacco ha offerto una prova di assoluta qualità interpretativa, incorniciata ad arte da dei suoni pressoché perfetti. Le urla di Piotr Paweł Wiwczarek sono atterrate come pesanti macigni sulle teste dedite all’ headbanging delle prime file in tumulto, veri e propri “toccasana” per la grande voglia di contatto del disordinato ammasso di carne e sudore che si scontra a pochi centimetri dal leader del gruppo. Bravi, nient’altro da aggiungere, bravi davvero!
Male: Marduk
Male non certo come qualità di esibizione, ma nella forma più squisitamente figurativa del termine. I Marduk hanno portato una ventata di gelido, tetro e cupo vento sulla folla adorante. Laidi demoni e spiriti di guerra aleggiano sul palco già dall’intro, pronti ad esplodere in una rabbia fatta di nera frustrazione già alle prime incalzanti e ossessive ritmiche dei blackster svedesi. Il vaso di pandora è stato aperto, a Mortuus il compito di traghettare – in un metaforico paragone con Caronte – gli ascoltatori nel fiume di odio e di bieca violenza di quella che resta una delle punte di diamante del black metal mondiale. Immobili, concentrati nello sciorinare all’ascoltatore urli strazianti bissati da ritmiche cicliche, ossessive al limite della cacofonia.
Piccole sbavature a margine di una prestazione sopra le righe (il microfono di Mortuus non ha retto cedendo nel bel mezzo dell’esibizione, sostituito in tempi record) che ha visto ripercorrere tutta la carriera del gruppo con un occhio di riguardo alla normale promozione del nuovo album Wormwood, supportato da brani come “Still fucking dead”, “Baptism By Fire” e “Materialized in Stone”.
Come ad ogni buon funerale che si rispetti, alle folle appena catechizzate bisogna dare il giusto commiato: Panzer Divison Marduk, suonata a velocità oggettivamente stellare, appare come la giusta conclusione di questa battaglia dove gli assoluti protagonisti sono stati, indiscutibilmente, quattro demoni venuti dal Nord.
Daniele Peluso
Foto a cura di Daniele Peluso.
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Foto a cura di Valeria Biagini
Vista la scarsità, da un po' di tempo a questa parte, di concerti estremi di un certo livello nella terra di Toscana, non potevo certo permettermi di mancare a questa gustosa occasione. Rifornita l'automobile di benzina e cibi vari, sabato 30 Gennaio siamo quindi partiti alla volta del Siddharta di Prato, in modo da assistere a una delle due tappe italiane del Vengeful Scapegoat Tour capitanato dagli Incantation.
La nostra mezzora abbondante di anticipo è stata prontamente ripagata dall'annuncio di un'ora e mezza di ritardo sulla tabella di marcia causa maltempo. Alle 19:30 mancavano ancora la maggior parte dei gruppi e la backline: cosa che si è ripercossa, poi, sulla durata effettiva dei concerti, forzatamente accorciati in modo da terminare intorno alla mezzanotte.
Ad ogni modo, una volta entrati è avanzato giusto il tempo per un veloce sguardo alle distro presenti prima di partire con il primo show della serata, ovvero quello dei genovesi Nerve. I quattro sono partiti convinti e affiatati, mettendo sul piatto un'ottima tecnica e una bella tenuta di palco. Purtroppo il difficile compito di opener e il genere proposto – un death metal groovy e melodico, parecchio influenzato dall'hardcore – non proprio in linea con il resto dei gruppi, ha impedito al pubblico presente di partecipare attivamente alla performance, la quale resta comunque decisamente sopra le righe. Belli i pezzi, specie quelli del nuovo album uscito a Gennaio chiamato Hate Parade, che dimostrano ormai la piena maturità raggiunta dal combo.
Alla fine veniamo a sapere che i Noctem, secondi in scaletta, sono probabilmente sperduti in qualche paesino coperto dalla neve del nord, e che quindi potevamo scordarci la loro esibizione. In compenso, questa defezione ha lasciato subito il turno al gruppo veramente “kvlt” della serata: i Divine Eve. Con una discografia che conta al momento solo un EP, uscito nel '93 sotto la ancora giovane Nuclear Blast, un paio di demo e un nuovo mini fresco fresco, non sono mai riusciti ad uscire dal circuito underground e a pubblicare un vero e proprio full length. Tuttavia, fin dalle prime battute il pubblico si è avvicinato, ha cominciato a scaldarsi e a poco a poco il death old school e un po' doomy dei nostri, di chiara scuola Asphyx e Autopsy, ha conquistato letteralmente i presenti. Sono cominciate le prime avvisaglie di pogo, mentre si sono susseguite sia tracce provenienti da As The Angels Weep, sia da Vengeful and Obstinate. Proprio con la title track del primo EP si è raggiunto l'apice della partecipazione, specialmente quando la stessa è esplosa letteralmente dopo il primo momento doom ed è scivolata in una cavalcata di tupatupa selvaggio, capace di trascinare nel mattatoio le prime file. Forti anche della presenza, dietro le pelli, di Kyle Severn (batterista degli Incantation) come turnista d'eccezione, i Divine Eve hanno convinto in pieno e hanno dato vita a una delle performance migliori della serata, come dimostrato dagli abbondanti applausi a loro dedicati.
Un veloce cambio di strumenti ed ecco che il sipario si apre sugli Hate, i secondi “Big” della serata.
Look in stile Behemoth, con corpsepaint e vesti lunghe ed elaborate e due omega rosso fuoco su entrambe le casse della batteria, a mo di avvertimento per il caos che da li a poco avrebbe spazzato il locale. Purtroppo non è mancato un degno rappresentante della stupidità umana, il quale, dal centro della sala, ha accolto a gran voce il gruppo con offese e gesti ben poco incoraggianti per poi sparire subito dopo. Una parentesi patetica che non ha impedito ai polacchi di devastare tutto con un concerto praticamente perfetto, con suoni relativamente puliti e un'esecuzione impeccabile. Velocità a vagonate con quintali di blastbeat, headbanging circolare e groove non sono mancati, con il pubblico che ha preferito seguire attentamente la performance piuttosto che pogare. Va segnalata comunque un po' di freddezza da parte di tutti i componenti del gruppo, causata probabilmente dal simpatico umorista sopracitato. In ogni caso, sia i vecchi pezzi più brutali, sia la maggior complessità e ricercatezza delle tracce estratte dagli ultimi Anaclasis e Morphosis hanno fatto breccia nei presenti, i quali non si sono risparmiati dal riservargli un caloroso saluto.
Altro cambio, questa volta l'ultimo, a favore del piatto forte della serata. Il vero e proprio timewarp per tornare ai tempi dei pionieri del death metal americano: è il turno degli storici Incantation.
Accolti a gran voce dai presenti, i veterani americani hanno spaccato subito tutto con il loro stile classico che più classico non si può, scatenando nel pubblico la prima, vera dimostrazione di pogo feroce della serata. I suoni erano un po' impastati, complice anche il non aver potuto effettuare un vero e proprio soundcheck a causa dei ritardi, ma la proposta è trascinante indipendentemente da tutto, a dimostrazione che la vera dimensione di questo tipo di sonorità è quella puramente live. Grande la prova vocale di John McEntee, che sembrava quasi senza voce quando dialogava con il pubblico, mentre invece devastava tutto con il suo basso growl sibilante e ruvido quando “cantava” nelle tracce. Gente che vola, gente che frulla viva dentro al pit durante le sfuriate di Kyle Severn, gente che segue con la testa tutti i tempi cadenzati delle parti più doom-oriented, gente che urla con John: quasi nessuno è impassibile nel locale ormai pieno. Un concerto in qualche modo lineare, senza cadute di tono, con la vetta forse in Dying Divinity del recente ma non troppo Decimate Christendom. Performance che non delude se non nella durata, visto il rigido orario a cui tutti hanno dovuto sottostare.
Alla fine, dieci euro di ingresso per quattro ottimi gruppi, di cui uno di culto, uno di altissimo livello e uno addirittura storico, sono senz'altro un affare alla portata di tutti. Rimane da augurarsi che il Vengeful Scapegoat Tour abbia risvegliato un po' di voglia di incrementare i concerti di questo tipo in Toscana. Del resto, il locale satollo dovrebbe fungere da efficace cartina tornasole.
Report a cura di Angelo D'Acunto e Lorenzo Bacega
Foto a cura di Angelo D'Acunto
Serata dalle evidenti tinte oscure, quella che si è svolta giovedì 28 gennaio
al Sottotetto Sound Club di Bologna, e che ha segnato il ritorno dei 69 Eyes in
terra felsinea dopo la partecipazione all'edizione 2007 della Dark Fest. A
supporto i nostrani Mandragora Scream, sulle scene da una decina d'anni e forti
della release dell'ultimo Volturna. Se i primi, come era facilmente
pronosticabile, hanno messo in piedi uno spettacolo decisamente degno di nota e,
soprattutto, coinvolgente come non mai, grazie anche al ventennio di esperienza
che Jirky e soci si ritrovano alle spalle, i secondi invece, nonostante
l'effettiva volontà di dare il massimo, hanno offerto una prova non del tutto
convincente e con qualche sbavatura di troppo.
Angelo D'Acunto
Mandragora Scream
Temperature piuttosto gelide, quelle registrate inizialmente all'interno del
Sottotetto Sound Club, con tanto di panorama da circolo polare artico a
corredare i dintorni del locale. Con circa mezz'ora di ritardo sulla tabella di
marcia, salgono sul palco i nostrani Mandragora Scream, ai quali tocca l'arduo
compito di scaldare come si deve l'ambiente. I nostri, come già anticipato,
affrontano il palco con carisma ed una spiccata dose di professionalità, senza
comunque dare (purtroppo) alla luce un risultato eccellente. Da una parte i
suoni, settati piuttosto male, non aiutano la prova della band, mentre
dall'altra, a fare da classica goccia che fa traboccare il vaso, ci sono le
varie campionature di tastiere (e di cori) che il gruppo adotta per i live show,
atte sicuramente a dare man forte agli strumenti presenti sul palco, ma che per
l'occasione riescono solamente a creare troppa confusione, mettendo più volte in
secondo piano i suoni di chitarra e di basso (quest'ultimo addirittura
inesistente). Nonostante ciò, i presenti nel locale dimostrano di apprezzare
pienamente lo show in corso, con una reazione a dir poco calorosa evidenziata
anche da Morgan, la quale fra un pezzo e l'altro ammette di essersi trovata
raramente di fronte ad un pubblico così accogliente.
Angelo D'Acunto
The 69 Eyes
Ore 23:15: con notevole ritardo sulla tabella di marcia (anche a causa di un
soundcheck abbastanza lungo) si spengono le luci e salgono sul palco del
Sottotetto i The 69 Eyes. Accolta da continue ovazioni da parte del pubblico
(poco più di duecento persone accorse alla calata bolognese dei vampiri di
Helsinki, nonostante le condizioni climatiche non proprio favorevoli), la band
finlandese si dimostra da subito in forma smagliante, soprattutto per quanto
riguarda un Jyrki 69 decisamente in palla dal punto di vista vocale, ed autore
di una prova davvero convincente e priva di sbavature, ed un Jussi 69 sempre
estremamente preciso dietro le pelli. La scaletta proposta nel corso dello
spettacolo pesca a piene mani dagli ultimi lavori della band (da Blessed Be in
poi, con l'unica eccezione di Wasting the Dawn, estratta dall'omonimo platter),
con particolare predilezione verso l'ultimo nato Back in Blood (del quale sono
ben sette gli estratti), disco uscito lo scorso anno che mostrava un netto
riavvicinamento verso coordinate maggiormente legate all'hard rock ottantiano, a
scapito della componente più gothic oriented. Proprio alla title track
dell'ultimo album è affidata l'apertura del concerto, seguita a ruota da quattro
pezzi del calibro di Never Say Die, The Good, The Bad & The Undead, Dance
d'Amour e Lips of Blood: il pubblico risponde positivamente e dimostra di
apprezzare particolarmente l'esibizione dei cinque finlandesi, supportati in
questa occasione da dei suoni finalmente ottimali, ben bilanciati e perfetti
sotto ogni punto di vista. Lo spettacolo dei cinque vampiri continua in maniera
assai scorrevole senza grandi problemi di sorta, con una setlist abbastanza
bilanciata nella quale trovano posto sia i grandi classici del gruppo, tra i
quali possiamo sicuramente citare Gothic Girl (letteralmente acclamata dagli
spettatori), The Chair e Feel Berlin, che nuove creature, come ad esempio le
coinvolgenti Dead Girls are Easy (brano scelto come primo singolo dell'ultimo
disco), Kiss me Undead o Suspiria Snow White. Chiusura con il botto con
l'immancabile encore, affidato al solito tandem Brandon Lee e Lost Boys, che
pongono fine ad un concerto estremamente convincente su tutti i fronti. In
definitiva, i The 69 Eyes si confermano per l'ennesima volta un'assoluta
garanzia per quanto riguarda gli spettacoli live.
30 gennaio 2010: la storia è protagonista in quel di Padova. Sul palco del Teatro Tenda si esibisce una delle più capaci rock band dell'ultimo ventennio: gli Europe. Cinque musicisti i cui dischi hanno venduto milioni di copie e che possono ascrivere in curriculum uno dei più convincenti singoli dell'intero panorama musicale rock contemporaneo, quello (stra)conosciuto pezzo intitolato The Final Countdown che, per l'occasione, è stato suonato come pezzo di chiusura del concerto. La cospicua affluenza (non il tutto esaurito, ma c'è da poter esser soddisfatti) e una buona acustica hanno sigillato una serata davvero ben riuscita.
Joey Tempest, Mic Michaeli, John Norum, John Levén e Ian Haugland: una formazione che ha fatto storia, che al tempo chiunque ascoltasse metal conosceva a memoria, sopratutto coloro che hanno vissuto il periodo della pubblicazione di "The Final Countdown", masterpiece uscito oramai ventiquattro anni fa, ma che non ha mai perso un solo briciolo di quell'accattivante gusto che lo caratterizza fin dal primo ascolto. Chi si aspettava una raffica di classici estratti dallo stesso forse non ha mai compreso appieno la longevità, l'orgoglio e la coerenza di Joey Tempest e compagni. Chi ha avuto forza e apertura mentale di andare oltre quello storico riff, sa che gli Europe hanno sfornato ben più di un valido platter. Dischi che hanno venduto oltre un milione di copie ciascuno e che possono annoverare nelle tracklist singoli di elevata qualità. Parliamo di album come: "Wings of Tomorrow", "Out of This World" piuttosto che "Prisoners in Paradise": ognuno collimato in una particolare sfumatura musicale ben identificabile nel percorso della maturazione artistica.
Si è percepita la grande interazione tra l'attitudine melodico/compositiva di Michaeli e l'espressività vocale di Tempest. Ci si è esaltati a guardare il fenomenale operato alle sei corde del talentuoso John Norum che, con il suo impagabile stile rock/shred, ha fatto sentire la propria mancanza dal 1987 in poi quando, stufo di confrontarsi con l'aspetto più plastificato e falso dettato dal music business, ha abbandonato i ranghi venendo quindi sostituito da Kee Marcello. È stata infine eccellente e dinamica la sezione ritmica dettata dalla coppia Levén/Haugland.
La parte iniziale del concerto è stata caratterizzata da tre brani tratti dall'ultimo studio album uscito nel 2009, "Last Look At Eden" e dal discusso full-length dal 2006, "Secret Society". Preludio compreso, il gruppo ha dato subito il segnale che non sarebbe stata una serata per nostalgici, bensì per un pubblico che sapesse apprezzare gli svedesi per tutto ciò che hanno prodotto. I primi classici arrivano infatti a metà scaletta. La tripletta costituita dalla raffinata Prisoners in Paradise, per l'occasione proposta in verisone acustica, dalla storica balld Open Your Heart e da Stormwind, arcigno brano hard rock che per primo, nel 1984, lasciò trapelare la spiccata attitudine compositiva del frontman, ha ammaliato e scaldato le articolazioni in attesa dei classici ancora attesi.
Inoltre, tra i pezzi proposti, ha fatto capolino l'inattesa proposizione di Optimus, title track dell'album solista di Norum (in cui ha partecipato come spalla alle sei corde Fredrik Åkesson degli Opeth).
Il podio di chiusura è stato affidato ai pezzi forte: Start from the Dark, Cherokee e Rock The Night. Ahimé, questo è il momento in cui la voce di Tempest ha dato qualche segno di cedimento se rapportata ai livelli di potenza che avevano caratterizzato l'inizio dello show. C'è anche da riportare che il cantante ha corso, ha interagito coi presenti, saltato, roteato l'asta del microfono in continuazione, corso nel photo-pit a 'batter cinque' senza mai fermarsi, coinvolgendo i fan così come ai vecchi tempi.
Giù le luci per un minuto e arriva l'encore affidato all'attraente e massiccia The Beast, nonché all'immancabile The Final Countdown, vera passerella che conduce la memoria all'immortale Olimpo del rock. Un Olimpo che per sempre riserverà un posto a questa prodigiosa realtà musicale moderna.
Nicola Furlan
Setlist: Prelude
Last Look At Eden
Love is Not The Enemy
Superstitious
Gonna Get Ready
Scream of Anger
No Stone Unturned
Let The Good Times Rock
Prisoners in Paradise (versione acustica)
Open Your Heart
Stormwind
Optimus
Seventh Sign
New Love in Town
Start From The Dark
Cherokee
Rock The Night Encore: The Beast
The Final Countdown
Line-up: Joey Tempest: voce e chitarra
John Norum: chitarra
John Levén: basso
Mic Michaeli: tastiere
Ian Haugland: batteria
Un'attesa durata circa dieci anni per i fan della super progressive band formata da membri di Dream Theater, Marillion, Flower Kings e dall'ex Spock's Beard Neal Morse: questo il tempo necessario affinchè si potessero rivedere sulle scene i Transatlantic. Fu proprio il prolifico musicista californiano, nel 2002, a porre un termine alla parabola del gruppo dopo soli due album, per poter così dare libero sfogo alla sua svolta religiosa nel suo progetto solista e con un'intensa attività live. Il 2009 è stato l'anno dell'improvviso ripensamento e della pubblicazione di The Whirlwind: il mastodontico disco composto da un'unica suite di circa 78 minuti la quale sarà il piatto forte anche della tappa milanese del tour mondiale dei quattro, che vedrà anche, come special guest di lusso, la partecipazione del singer e mastermind dei Pain of Salvation Daniel Gildenlow.
Foto e report a cura di Francesco Sorricaro
Sembra talmente lontano quel piovosissimo 20 novembre del 2001, quando un Palaquatica tristemente semivuoto accoglieva i Transatlantic freschi autori di Bridge Across Forever. Oggi il palcoscenico destinato ad ospitarli è quello dell'Alcatraz di via Valtellina e l'atmosfera è del tutto diversa. Siamo in maggio ed il tiepido sole primaverile delle quattro del pomeriggio scalda già un nutrito capannello di appassionati che, col passare delle ore si comporranno in una crescente e lunga fila ordinata, che riempirà l'intero marciapiede dinanzi all'entrata. Al termine delle operazioni d'ingresso, sul vetro della biglietteria verrà affisso un foglio con su scritto: "biglietti esauriti". Probabilmente i tanti anni trascorsi, utili per meglio assimilare ed apprezzare la complessa musica del quartetto, oltre all'innegabile incremento del successo dei Dream Theater o dello stesso Neal Morse in questo ultimo periodo, hanno creato delle ottime condizioni di base per questo ritorno in grande stile.
All'interno, la sala è gremita di spettatori di ogni età e tipologia: qualche T-shirt del Teatro, dei Flower Kings ma l'impressione, anche origliando qua è là di tanto in tanto, è che si tratti per la maggior parte di un pubblico di veri appassionati di musica progressive venuti a godersi un'esibizione che, considerando i protagonisti in gioco, promette grandi emozioni.
Lo show inizia in maniera abbastanza puntuale, come da copione, con l'Overture di The Whirlwind. I cinque eseguiranno, tutta d'un fiato, l'intera suite in 12 movimenti che compone il disco. BIsogna dire che la carica iniziale non è delle migliori; soprattutto Neal Morse appare un po' spaesato dal principio e la dinamicità del complesso viene sorretta, per fortuna, solo dal poderoso motore ritmico alimentato da Mike Portnoy e Pete Trewavas. Del resto è risaputo che il suo carisma sul palco sia sempre stato inversamente proporzionale alle sue enormi doti compositive; ad ogni modo, col tempo, la crescente empatia col pubblico fa sì che le cose pian piano migliorino, anche se il tastierista e voce principale del gruppo non appare proprio in giornata di grazia. Numerose sbavature contraddistinguono da subito la sua prova, nonostante la sua voglia di far bene (e a volte di strafare) traspaia comunque dalle sue smorfie. Musicalmente la band gode di grande affiatamento e l'innesto di Gildenlow consente di tappare egregiamente le pur rare falle che si creano nel corso di una setlist così lunga. Lo svedese è una vera e propria piovra tuttofare su quel palco: circondato da tamburelli e percussioni di vario genere, chitarre, tastiera e un Mac, si destreggia meglio di Edoardo Bennato ed arricchisce oltretutto i brani con le sue backing vocals e con un'energia contagiosa che coinvolge spesso il folletto Trewavas accanto a lui.
The Whirlwind è un album molto organico e ricco di emozionalità differenti ma dal vivo, almeno per quanto mi riguarda è risultato estenuante a tratti. I momenti maggiormente evocativi dell'opera, infatti, su un palcoscenico meriterebbero un'interpretazione maggiormente caratterizzata, alla Geoff Tate per intenderci, mentre il povero Neal Morse, che si danna dietro le sue tastiere, si limita ad indicare spesso il cielo con la mano destra sortendo quasi l'effetto opposto. Ma questa è solo un'opinione personale.
Highlight di questa prima parte dell'esibizione sono risultati certamente l'anthemica Whirlwind, l'elegante Rose Colored Glasses, la ritmata Evermore e la coinvolgente Lay Down Your Life. Alla conclusione della colossale performance i cinque rientrano dietro le quinte per 15 minuti di sosta meritata promettendo tantissima altra musica al loro ritorno.
La seconda parte dello show è tutta incentrata sui cavalli di battaglia dei loro precedenti lavori: brani per nulla da ridere se si và a vedere la durata media di ognuno. L'inizio è affidato, per esempio, a All of the Above: un brano lungo sì, ma ricco di mordente, ed arricchito per giunta da improvvisazioni e vari divertissement.
Si nota subito il diverso piglio con cui tutto il gruppo affronta il vecchio repertorio. La probabile tensione dovuta alla difficile esecuzione precedente, unita comunque al fatto di non essere un gruppo abituato da anni a suonare insieme di continuo, lascia spazio ora improvvisamente a volti distesi e voglia di divertirsi. Lo stesso Neal Morse senbra aver ritrovato una maggiore verve, mentre il saltellante Trewawas e Portnoy continuano a fare i fenomeni da circo con i loro strumenti.
We all need some light è la ballata che scatena l'emozione di un pubblico che sembra non aspettare che il momento del ritornello per cantare a squarciagola. E' anche il modo per prendere fiato prima di un altro super pezzo come Duel with the Devil che scatena ancora di più gli animi generali, anche grazie a giochi di prestigio come una spruzzata di Highway Star gettata lì all'improvviso. Oramai l'atmosfera si è fatta calda, i musicisti se la spassano ed il pubblico tributa applausi convinti quando vanno di nuovo nel backstage al termine del brano.
L'encore è affidato ad un sofisticato duetto tra le anime più intimiste dei Transatlantic e cioè Morse ed il timido Roine Stolt, autori di un momento di rara emozionalità con Bridge Across Forever. Si chiudono le danze con una rumorosa e pazzoide Stranger in Your Soul. A questo punto salta ogni freno inibitore: Daniel Gildenlow sale sul palco con la maglia dell'Inter appena laureatasi Campione d'Italia (per la cronaca: i Transatlantic sono arrivati a Milano giusto nel pieno dei festeggiamenti della sera prima), Portnoy con la tuta del Progetto Dharma (i fan di Lost capiranno....) ed il pezzo scorre tra continui scherzi e momenti di ilarità, segno che a questo punto la band è davvero su di giri. Ad un certo punto Morse, Trewavas e Portnoy si scambiano gli strumenti, non prima che il batterista si sia improvvisato stagediver per ben due volte. Con il piccolo Inglese alle tastiere e gli Americani a comporre un'inedita sessione ritmica giunge anche l'ora di dare il giusto tributo al tristemente scomparso Ronnie James Dio, con l'accenno affettuoso, anche se sempre in stile goliardicamente improvvisato, di Heaven and Hell ed Holy Diver, canticchiate alla buona, rispettivamente, da Portnoy e da Gildenlow. Mike a questo punto torna dietro le pelli e, prima di giungere alla conclusione del brano iniziato da tempo immemorabile, schernisce amabilmente il credentissimo Neal con una scarica di voce e batteria a la Vomitory, tanto per farsi un'idea, nel buonumore generale e nell'incredulità di un'audience divertita e, per alcuni casi, scioccata.
Il concerto giunge al termine all'incirca alle 23.45, dopo ben 3.30 dal suo inizio. Il consenso è palpabile e la band, nonostante qualche errore grossolano lungo il percorso si è dimostrata capace di intrattenere al meglio sia con la propria innegabile tecnica e senso dell'improvvisazione, sia con la semplicità nel prendersi in giro: elemento, quest'ultimo, che ha reso una serata già ricca di contenuti artistici, anche molto divertente. Peccato per la voce non al meglio di Neal Morse, il quale ha comunque il merito di non averla voluta risparmiare fino al finale dell'ultimo pezzo, nel quale le ha dovuto definitivamente dire addio. Certo è che, l'unica volta in cui Gildenlow ha avuto l'opportunità di cantare direttamente un verso di Duel with the Devil, con tanto di acuto, è stato quasi imbarazzante il confronto della serata.
Buona la seconda, dunque, per i Transatlantic, sperando di non dover aspettare altri dieci anni....!!!
Francesco 'Darkshine' Sorricaro
Setlist
The Whirlwind
All of the above
We all need some light
Duel with the Devil
Bridge across forever
Stranger in your soul