Evolution Festival 2006 @ Tuscolano Maderno (BS)
14-15-16 Luglio 2006
AMON AMARTH
ARMORED SAINT
DARK TRANQUILLITY
DEATH ANGEL
DEATH SS
DESTRUCTION
ELDRITCH
ENSIFERUM
FINNTROLL
HAGGARD
KORPIKLAANI
MACBETH
MOONSPELL
NILE
SADIST
SAXON
THE GATHERING
TRISTANIA
WITHIN TEMPTATION
[post_title] => Fotoreport Evolution Festival 2006
[post_excerpt] =>
[post_status] => publish
[comment_status] => open
[ping_status] => open
[post_password] =>
[post_name] => fotoreport-evolution-festival-2006
[to_ping] =>
[pinged] =>
[post_modified] => 2020-11-16 11:50:19
[post_modified_gmt] => 2020-11-16 10:50:19
[post_content_filtered] =>
[post_parent] => 0
[guid] =>
[menu_order] => 1
[post_type] => post
[post_mime_type] => OK
[comment_count] => 34155
[filter] => raw
)
[12] => WP_Post Object
(
[ID] => 34061
[post_author] => 1132
[post_date] => 2006-07-08 02:28:33
[post_date_gmt] => 2006-07-08 02:28:33
[post_content] =>
In undici edizioni il Bang Your Head!!! si è ormai ritagliato un posto al sole nel panorama dei festival hard & heavy di tutta Europa, segnalandosi come una kermesse in grado di soddisfare soprattutto i gusti dei più nostalgici, fedeli a certe sonorità old-fashioned ma sempre in grado di scaldare i cuori. Partito come evento indoor, dal 1999 il Bang Your Head!!! è un open-air apprezzato per l'organizzazione tipicamente tedesca (che, tradotto, significa: rapporto qualità / prezzo elevato, tempi di attesa minimi tra un gruppo e l'altro, local crew severa ma affidabile), la selezione annuale delle band e l'atmosfera di festa che si respira nell'aria di Balingen, tranquilla cittadina nel sud-ovest della Germania. Ecco il resoconto dell'ultima edizione, tenutasi tra il 23 e il 24 giugno.
Venerdì 23 giugno
Communic.
Persa, per ragioni unicamente logistiche, l'esibizione degli Hellfueled (penalizzati forse da un orario che non permette il pienone), è il turno dei Communic. Il trio norvegese, autore di due album che hanno letteralmente diviso la stampa europea, si presenta con suoni discreti e un'equa selezione di brani dal proprio repertorio, eseguiti nell'arco di una mezz'ora abbondante. La proposta della band non è l'ideale per un grande festival estivo, specie tenendo conto della durata media delle composizioni, ma brani come Fooled By The Serpent e Conspiracy In Mind (che tradisce un certo flavour nevermoriano) lasciano il segno su un pubblico in fin dei conti soddisfatto. Complesso in crescita, da rivedere in contesti più adatti.
Leatherwolf.
Tra i gruppi più attesi, se non altro per la lunga assenza dai palchi europei, i Leatherwolf si presentano con tre membri storici (Geoff Gayer, Dean Roberts e Paul Carman) e il nuovo acquisto Wade Black, vocalist già noto per i suoi trascorsi in Crimson Glory e Seven Witches. Niente Triple Axe Attack dunque – Black non è un granché con la chitarra, dicono – ma abbuffata di classici che rispondono al nome di The Calling, Season Of The Witch, Rise Or Fall, Street Ready (forse il brano più riuscito), capaci di riscuotere un certo entusiasmo tra il pubblico. Pollice verso per il nuovo materiale, tratto dal mediocre World Asylum, assolutamente non all'altezza del monicker che campeggia sulla (orribile) copertina. Nel complesso un concerto sicuramente godibile, ma non indimenticabile.
Flotsam & Jetsam.
La classica sorpresa del festival. Sono anni che i Flots intravedono soltanto i livelli dei primi due platter, gravati forse dall'ingeneroso appellativo di ‘ex-band di Jason Newsted', eppure lo show di Balingen mostra una band compatta, coinvolgente, capace per prima di dare una scossa tangibile al popolo del Bang Your Head!!!. Il gradito ritorno di Mike Gilbert, al posto dell'assente (giustificato) Ed Carlson, rispolvera il rifferama muscolare dei tempi andati, districandosi tra le varie Hammerhead (opener di grande potenza), No Place For Disgrace, Hard On You e Escape From Within. Chiusura affidata a una divertente cover di Fairies Wear Boots, con Eric A.K. mattatore. Applausi meritati per il combo di Phoenix, che tornerà in Germania il 4 novembre per la settima edizione del Keep It True, per il quale è stato promesso uno ‘special old school show'.
Vengeance.
Ricomparsi sulle scene dopo alcuni anni di silenzio, gli olandesi Vengeance non hanno la benché minima intenzione di passare inosservati, nonostante la promessa di ospitare l'ex-compagno Arjen Lucassen (Ayreon) venga disattesa sul palco. Cambia il genere ma non viene meno l'adrenalina, come testimoniano Take It Or Leave It, Rock N Roll Shower, la nuova Back In The Ring e l'acclamata Arabia, con prova convincente del minuto frontman Leon Geowie, incapace di star fermo un secondo - e protagonista di alcune performance di dubbio gusto, tra cui vanno citate almeno uno striptease a metà set e la doccia finale con ettolitri di birra. Divertenti e goliardici, strappano più d'un applauso anche nel 2006, ed è un piacere vederli ancora in piedi dopo tante peripezie (non ultima la morte del batterista Paul Thissen, stroncato da un infarto a soli 32 anni).
Raven.
Leggende sopravvissute, pur con svariate ricadute, al declino della NWOBHM, i Raven si presentano a Balingen con un set dedicato alle glorie dei primi anni '80, quando il combo di Newcastle incarnava uno dei pezzi pregiati dell'HM britannico. L'athletic rock dei fratelli Gallagher rivive ancora una volta in brani del calibro di Rock Until You Drop, Lambs To The Slaughter, Live At The Inferno, All For One, Break The Chains, fomentando le prime file con una resa non esente da pecche, ma tutto sommato energica e trascinante. Spazio anche a un brano inedito, intitolato Breaking You Down, prima che la band abbandoni la scena, non senza aver sforato abbondantemente con il minutaggio. Inesauribili.
Jon Oliva's Pain.
Il Mountain King fa ritorno al Bang Your Head!!! cinque anni dopo l'ultima apparizione con i Savatage, allestendo uno show che suona come un tributo alla sua band madre. Non mancano spazi dedicati al suo (valido) materiale solista, da cui spicca l'ottima The Dark, ma gli animi dei più si scaldano all'esplodere delle note di Warriors (opener insolita e acclamata), Agony And Ecstasy, Gutter Ballet e la conclusiva Hall Of The Mountain King. Buona prestazione di Jon Oliva, pur sofferente per il caldo torrido, che ha dedicato la splendida Hounds al compianto fratello Criss – peraltro tributato con perizia dal bravo Matt LaPorte. Una gradita conferma.
Death Angel.
Special-guest della giornata di venerdì, il quintetto di origini filippine è chiamato a ripetere l'esibizione devastante datata 2004, valsa alla formazione di San Francisco una posizione onorevole nel bill di quest'anno. La promessa di suonare un set speciale a base di vecchi classici si traduce in una scaletta con massicci richiami ad Act III (ben cinque: Seemingly Endless Time, Stop, Discontinued, Stagnant ed Ex-T-C), alternati a pezzi dal più recente The Art Of Dying, tra cui eccelle Thicker Than Blood. Band al solito ipervitaminica e precisa dal punto di vista tecnico, ma due soli estratti da The Ultra-Violence (Voracious Souls e Evil Priest) e qualche problema tecnico alla chitarra di Rob Cavestany – presentatosi con un insolito look à la Cristiano Ronaldo – sono ragioni sufficienti per non gridare al miracolo, come generalmente accade a uno show dei Death Angel. Non è 10 ma 8, e per una volta siamo tutti contenti lo stesso.
Helloween.
Da molti attesi come autentici headliner della giornata, gli Helloween sono i primi a beneficiare di una propria coreografia, con giganti zucche gonfiabili, pupazzi bizzarri montati attorno al drum-kit di Daniel Loeble e petardi a profusione. L'aria di casa distende le corde vocali di Andi Deris, già in spolvero sull'opener The King For A 1000 Years, ma le note migliori arrivano con la valanga di classici: Halloween, A Tale That Wasn't Right, Future World, I Want Out e Dr. Stein suscitano ovazioni calorose tra gli astanti, rapiti dalla simpatia delle Zucche (su tutti Markus Grosskopf) e da un'ora abbondante di power metal che non teme il passare degli anni. Il finale è riservato all'ingresso a sorpresa di Tony Martin (in azione la sera precedente al warm-up show), per una corale ma grossolana Headless Cross. Complice la vena di Michael Weikath, uno show da inserire nei piani alti della prima giornata.
Foreigner.
La banda di Mick Jones - unico superstite dei veterani Foreigner - si presenta alla platea di Balingen con una formazione di lusso, che include Jeff Pilson (già nei Dokken, Dio, McAuley Schenker Group, etc.) al basso, Thom Gimbel (chitarra + sax), Jeff Jacobs alle tastiere, il batterista Jason Bonham e l'ex-Hurricane Kelly Hansen. La massiccia affluenza di pubblico è ripagata da un set a base di vecchie glorie, da Double Vision a Dirty White Boy, da Jukebox Hero a Hot Blooded, con prestazione convincente da parte di tutti i protagonisti. Azzeccata la scelta di Hansen, nonostante nessun fan dei Foreigner riuscirà mai a sostituire Lou Gramm nel proprio cuore. Per molti cala il sipario sulla giornata del venerdì.
In Flames.
Equivoco o scommessa vincente? È quello che si sono chiesti in molti all'annuncio del primo headliner dell'XI edizione del festival, decisamente insolito rispetto agli standard cui tutti sono abituati. Nessun dubbio sulla qualità del gruppo, rinomato per le sue infiammate esibizioni dal vivo, ma qualche perplessità resta sulla posizione offerta al quintetto di Göteborg, tradizionalmente affidata a band di taglio più classico. Gli In Flames rispondono con uno show diviso tra vecchi e nuovi successi, dispensando gli ultimi in apertura (The Quiet Place) e conservando le hit per il finale (Behind Space, Colony e la ruffiana Only For The Weak), con la famosa cornice pirotecnica che tanto incantò il Wacken 2003. Buona prova nonostante le premesse poco felici, tra l'esultanza dei fan accorsi e l'indifferenza di chi ne ha approfittato per una cena anticipata.
Sabato 24 giugno
Victory.
Dopo Powerwolf e Anvil (incrociati per un pelo, con un set di vecchie glorie tra School Love e Metal On Metal) tocca a un'altra formazione casalinga, i Victory. Quaranta minuti a base di hard & heavy è quanto offerto dalla band di Hannover, uscita a gennaio con il nuovo Fuel To The Fire, antologia con classici del repertorio completamente risuonati per presentare il nuovo cantante Jioti Parcharidis. L'ultimo arrivato non è un fenomeno, ma ha gli attributi per reggere un grande palcoscenico e non sfigurare su brani come Power Strikes The Earth o Backseat Rider, con la chitarra graffiante di Hermann Frank quale degna cornice. Positivi, che abbiano finalmente la fortuna dalla loro parte?
Unleashed.
Dopo l'apparizione dei Count Raven (di valore, ma godibili in ambienti più intimi), scocca l'ora degli Unleashed. Unica death metal band inserita nel lotto di quest'anno, il quartetto svedese stupisce per compattezza e precisione, conquistando diversi fan anche tra i turisti di turno. La proposta della band è varia quanto basta per non stancare dopo un paio di brani, sfatando il luogo comune per cui è necessario andare sempre a mille. Don't Want To Be Born, Death Metal Victory, The Longships Are Coming e The Defender sono nate per scatenare il pubblico a furia di headbanging, e Balingen non si lascia pregare. Contro la diffidenza di una platea più orientata verso altri lidi, trionfano con merito e guadagnano il personalissimo premio-simpatia del festival – suffragato anche da un'insolita apparizione sotto il palco durante l'esibizione degli Whitesnake, con tutti i pezzi cantati a squarciagola: evil has no boundaries!
Armored Saint.
Molti superstiti ricordano con piacere l'ultima apparizione del Santo in quel di Balingen, documentata nel nuovo DVD Best Of Bang Your Head!!!. Era il 2001, e come allora il combo californiano non fa prigionieri, dispensando un'ora abbondante di pregiato US power che copre tutta la carriera della band, dagli esordi (Lesson Well Learned) ai nostri giorni (Pay Dirt). La scelta di escludere il materiale di Raising Fear (unica eccezione: Book Of Blood) non intacca la qualità della scaletta, che può contare su pezzi da novanta quali Reign Of Fire, Aftermath, Nervous Man e Seducer (!). Chiusura in grande stile con le classiche Can U Deliver e March Of The Saint, osannate da un pubblico decisamente tiepido fino a quel momento. Grandissimi John Bush e Gonzo, per uno dei concerti più esaltanti dell'intera due-giorni: occhio all'Evolution!
Pretty Maids.
Delusione. L'alibi di suonare dopo i Saint non regge, troppo diversi i generi e le aspettative del pubblico. Un incipit con Rock The House e Love Games dovrebbe incantare qualsiasi fan dei danesi, invece i risultati sono sconfortanti: tastiere inesistenti (frutto di un sound-check frettoloso) e un Ronnie Atkins in evidente debito d'ossigeno trasformano i due pezzi in episodi da dimenticare, senza scusanti. Più avanti le cose migliorano, con il vocalist dalla (ex) voce dorata a intonare Yellow Rain e Future World, senza dimenticare i primi passi della band con le classiche Back To Back e Red, Hot & Heavy, ma resta l'impressione di un'incompiuta. Concerto mediocre, demolito dal confronto con i gruppi che hanno preceduto e che seguiranno.
Y&T.
Dave Meniketti e soci vivono l'unica ingiustizia della giornata: esibirsi mentre è in scena Germania-Svezia. Nonostante un backstage con migliaia di tedeschi incollati al maxi-schermo, gli Y&T regalano un'ora di regale hard rock, che spazia attraverso la lunga carriera della band. Quando sale in cattedra Meniketti non ce n'è per nessuno, e le varie Black Tiger, Don't Be Afraid Of The Dark (gioiello da Ten), Midnight In Tokyo, Rescue Me e la poderosa Meanstreak lo dimostrano. Il calore del pubblico, già infiammato dalla doppietta di Podolski, non si fa attendere e premia uno dei momenti più intensi della giornata, dimostrazione lampante che la classe non è acqua. Applausi.
Rik Emmett (playing a night of Triumph music).
Da molti accolto come uno degli eroi dell'XI edizione del Bang Your Head!!!, Rik Emmett non ha probabilmente ben chiara la dimensione degli open air europei. La sua è un'esibizione inclassificabile, che pesca sì dal repertorio dei Triumph (ci sono Allied Forces, Rock N Roll Machine, la conclusiva Magic Power per citare alcune scelte), ma è infarcita di improvvisazioni e jam con i compagni d'avventura, che se da un lato confermano il talento cristallino del canadese, dall'altro mal si sposano con le esigenze del pubblico. Niente da obiettare sulla qualità (rinomata) della musica proposta, ma la sensazione è quella di un artista anche troppo professionale, che non mette in mostra grandi doti di intrattenitore. Show tecnicamente impeccabile, ma non proprio coinvolgente.
Stratovarius.
Sembra lontano il periodo nero del quintetto finnico, dato per disperso con le bizze di Timo Tolkki e frettolosamente ritornato in pista con la pronta ‘guarigione' del suo leader maximo. La band ha ripristinato una certa coesione al suo interno, che emerge più che mai dallo show di Balingen: in 70 minuti ecco dispensati molti classici ormai decennali, da Speed Of Light a The Kiss Of Judas, passando per le relativamente più recenti Hunting High And Low e Phoenix. Su Timo Kotipelto piovono regolarmente le critiche più svariate, invero il più delle volte esagerate: potrà non piacere la relativa staticità del suo stile canoro, ma la sicurezza sul palco e la fedeltà a certe linee non mancano mai, a differenza di altri colleghi. La chiusura – da copione – di Black Diamond completa un concerto gradevole, anche per chi non si professa Strato-fan.
Whitesnake.
Il momento più atteso. David Coverdale è ancora una volta in pista per resuscitare il mito del Serpente Bianco, ormai prossimo ai trent'anni di leggenda. La truppa al servizio di Mr. Everstylish include i chitarristi Reb Beach (già Winger e Dokken) e Doug Aldrich (statuario axeman di fama internazionale, già al servizio di Lion, Hurricane e Dio), nonché il compagno di una vita, Tommy Aldridge, batterista che non ha bisogno di presentazioni. Fedele alla linea, Coverdale ama abusare della pazienza del pubblico presentandosi in netto ritardo, con l'unica battuta: ‘I ain't no fuckin' Axl Rose!'. Quando finalmente scocca l'ora della musica, il medley porpora Burn/Stormbringer inaugura una sfilata di hit da capogiro, da Slide It In a Here I Go Again (forse la più riuscita), passando per Is This Love?, Love Ain't No Stranger, Crying In The Rain e la conclusiva Still Of The Night. Il ritardo accumulato ai box taglia sul nascere la possibilità di un encore, ma va bene così: con ottimi suoni, grande partecipazione del pubblico e il ghigno soddisfatto del Gran Capo, non si poteva chiedere di più. Degna chiusura di un festival che forse non ha raggiunto l'eccellenza delle edizioni precedenti, pur offrendo un servizio di qualità e quantità impagabili. Arrivederci al 2007!
[post_title] => Bang Your Head!!! 2006: report
[post_excerpt] =>
[post_status] => publish
[comment_status] => open
[ping_status] => open
[post_password] =>
[post_name] => bang-your-head-2006-report
[to_ping] =>
[pinged] =>
[post_modified] => 2020-10-16 14:04:20
[post_modified_gmt] => 2020-10-16 12:04:20
[post_content_filtered] =>
[post_parent] => 0
[guid] =>
[menu_order] => 1
[post_type] => post
[post_mime_type] => OK
[comment_count] => 34327
[filter] => raw
)
[13] => WP_Post Object
(
[ID] => 34282
[post_author] => 35
[post_date] => 2006-06-21 00:00:00
[post_date_gmt] => 2006-06-21 00:00:00
[post_content] =>
Foto di Michela Solbiati e Stefano Ricetti
Eccoci giunti alla terza giornata del Gods Of Metal, quella dedicata principalmente al power metal, ma con i due gruppi principali a coprire il settore hard rock d'importanza storica... a voi direttamente il resoconto della torrida giornata del 3 giugno!
Prima della full-immersion power il palco del Gods of Metal vede inaugurare il terzo giorno da un manipolo di fanciulle dal passato punk-rock e dal presente street: un binomio di attitudini che garantisce tanta voglia di suonare e uno show incentrato sulla genuinità e sul divertimento. È così, anche se la maggior parte dei presenti riserva alle quattro ragazzacce un'atmosfera piuttosto freddino, nel poco tempo a loro disposizione le Crucified Barbara propongono qualche brano dal loro debut In Distorsion We Trust (la cui recensione vedrete presto su queste pagine) e spingono, com'è ovvio, su tutti gli stereotipi del genere. Bravine e divertenti, ma incomprese da un pubblico ancora sonnolento e con altre mire musicali.
Alessandro 'Zac' Zaccarini
C'è chi sostiene che dal vivo i Sonata Arctica non riescano a raggiungere i livelli delle prestazioni in studio: l'esibizione al Gods vuole essere la decisa risposta della band a critiche che hanno ormai fatto il loro tempo. Accolta da una folla piuttosto numerosa, particolarmente in considerazione dell'orario, la band scandinava guidata da un vivace Tony Kakko regala una quarantina di minuti di power metal melodico e scorrevole, secondo la tradizione finlandese. Insieme al bravo chitarrista Jani Liimatainen e all'estroso tastierista Henrik Klingenberg – precisi, puliti e sufficientemente scenografici – a farsi notare è proprio il frontman, e non solo per la tinta decisamente pacchiana dei pantaloni. A suo agio sulle scivolose vette vocali del classico Black Sheep e della trascinante 8th Comandament, espressivo sulle tonalità più distese e suadenti della malinconica My Land, conquista definitivamente la folla con la hit Don't Say a Word, guadagnando per sé e i compagni uno scroscio di meritati applausi. Una piacevole sorpresa, nonostante i fastidiosi problemi al sonoro.
Riccardo Angelini
È solo mezzogiorno, ma la giornata del Gods of Metal è già nel vivo e a svegliare definitivamente gli intorpiditi spettatori ci pensano gli Edguy con il solito scatenato Sammet che, non curante del caldo e del sole alto nel cielo, inizia il suo personalissimo show fatto di salti, corse e questa volta anche di impensabili quanto pericolose arrampicate sulla struttura del palco. Il poco tempo a disposizione del simpatico frontman non permette errori di scaletta ed ecco che i nostri propongono sin da subito i piatti forti del succulento pasto: si inizia con l'irresistibile Lavatory Love Machine seguita dalla sempre acclamata Babylon e Tears of Mandrake. Tra una risata e l'altra – ma come dice il buon Sammet “non dovete ridere troppo che non c'è tempo” – segue l'unico estratto da Rocket Ride, ovvero la superba Sacrifice che viene interpretata alla grande dal biondo frontman supportato, come sempre, da una esecuzione ottima da parte di tutti i membri della band. Da segnalare uno Jens Ludwing particolarmente pulito negli assoli e dalla solita precisione della sessione ritmica. Purtroppo i quaranta minuti a disposizione sono già quasi esauriti ed è tempo del rush finale che si concretizza con una Mysteria come sempre devastante in sede live e con una sempre piacevole King of Fools. Si chiude con l'immancabile Vain Glory Opera che viene acclamata e cantata da buona parte dei presenti a dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, del meritato successo che ha raggiunto la frizzante band di Fulda la quale, anche oggi, ha dimostrato tutta la sua bravura e pazzia nonostante l'ora non fosse delle migliori... da applausi, come sempre.
Marco ‘Homer Jay' Ferrari
Senza bisogno di risalire fino all'ormai remota era-Matos, si può dire che la band brasiliana abbia visto giorni migliori. Lottando contro una qualità del suono per nulla all'altezza, gli Angra fanno del loro meglio e mettono in campo i pezzi più recenti e power-oriented – i più adatti all'atmosfera del festival – accanto a qualche grande calssico del passato, come Carolina IV e Nothing to Say. Purtroppo però nel camminare sulle orme dell'illustre predecessore il buon Edu Falaschi non mostra certo la medesima dimestichezza sfoggiata sui brani del nuovo corso. Che la band non sia in stato di grazia lo si capisce anche dalla riproposizione del capolavoro Carry On, il cui abbagliante splendore rimane offuscato da un'esecuzione non impeccabile e assai meno coinvolgente di quel che ci si sarebbe potuti aspettare. Show non disastroso ma senza dubbio deludente, soprattutto se confrontato con il terremoto teutonico che sarebbe sopraggiunto di lì a poco…
Riccardo Angelini
|
|
Si respira un'insolita aria di derby che quando i Gamma Ray salgono sul palco del Gods of Metal. Nono ci sono dubbi: l'attitudine e l'impatto sonoro è quanto di più vicino si possa avere agli Helloween dei Keeper. Il repertorio è vasto, i minuti non sono tantissimi: è necessario fare sul serio sin da subito. Più che sul serio, i Gamma Ray vogliono fare le cose in grande. Si parte con l'ormai più che collaudata Gardens of the Sinner e una versione al fulmicotone della superba Man of a mission. Entrambe dimostrano il carismatico impatto live che ha sempre contraddistinto i Gamma Ray, con suoni davvero ottimi e potenti e un Kai Hansen che dimostra un'ottima forma vocale oltre che alla sempre presente simpatia. Giusto il tempo di riprendersi ed è la volta di New World Order, che con il suo incedere di Priestiana memoria non fa altro che scatenare ulteriormente il pubblico. Arriva il momento di attingere da l'ultimo nato, Majestic, con l'allegra e veloce Fight e Blood Religion. Quest'ultima, seppur ancor giovane all'anagrafe, è già fortemente candidata a divenire un classico della band in sede live. Tutto bene ma è da qui che lo show cambia definitivamente marcia: la successiva Heavy Metal Universe sveglia completamente gli ultimi intorpiditi e apre le danze per il grande momento targato Zucche. Al posto delle varie “Land of the Free” o “Somewhere out in Space” ecco che partono le note di Ride the Sky, pilastro dei primissimi Helloween che andrà a comporre con Future World e l'immancabile I Want Out un medley memorabile di rara potenza e bellezza. L'Idroscalo è in delirio. Dopo tanta grazia è giunta l'ora dei saluti, ma non prima di essere nuovamente affascinati dalla bellezza di Rebellion in Dreamland, perché questi sono i Gamma Ray, ed è giusto che l'epilogo sia affidato a un brano di casa. Un concerto magnifico e da ricordare, in assoluto uno dei migliori dell'intera kermesse meneghina, in cui i nostalgici del power metal più puro si sono sentiti a casa.
Alessandro 'Zac' Zaccarini, Marco ‘Homer Jay' Ferrari
Le recenti vicissitudini occorse in seno alla band finlandese avevano suscitato numerose perplessità alla vigilia del suo ritorno sui palchi del Gods of Metal. Tuttavia, sospesa l'esplorazione di nuovi lidi musicali inaugurata nell'ultimo disco, gli Stratovarius si ripresentano con il loro arsenale di classici al gran completo: da Hunting High and Low a Black Diamond, passando per Paradise, Speed of Light, The Kiss of Judas e pure per la bella e talvolta dimenticata A Million Light Years Away. Buona impressione fa anche United, unico tra i nuovi pezzi a trovare spazio accanto alle storiche Strato-song. Il sempre più enorme Tollki pare dal canto suo sulla via del recupero della forma migliore – almeno dal punto di vista musicale – mentre il pur bravo Kotipelto, nell'occasione più statico del lecito, tradisce un certo affaticamento sui passaggi più impegnativi. Sempre impeccabile Johansson, preciso ma monotematico Michael, dinamica e volenterosa la recluta Lauri Porra. Alla fine dell'esibizione pare di poter dire che i fan se ne siano tornati a casa più o meno soddisfatti, mentre chi non amava il sound della formazione finnica difficilmente avrà cambiato idea in quest'occasione.
Riccardo Angelini
|
|
Quando a fianco del palco spuntano due enormi zucche gonfiabili è segno che è giunto il momento degli Helloween. L'ora a disposizione delle zucche di Amburgo viene aperta con The King for a 1.000 Years. Scelta pessima: per quanto sia un'ottima song e venga egregiamente interpretata da un Deris sempre più a suo agio anche sui pezzi più difficili, i non fedelissimi della band si vedono costretti ad annoiarsi per oltre dieci minuti in attesa di qualche pezzo dal traino più adatto a un festival. A dare subito mordente alla prestazione segue la consueta Eagle Fly Free sempre amata e cantata dal pubblico. Qui cominciano i segni di cedimento di Deris. Al cavallo di battaglia targato Keeper II segue l'unico estratto dal controverso Rabbit Don't Come Easy, ovvero la piacevole Hell Was Made in Heaven. Gli Helloween osano portando sul palco A Tale That Wasn't Right, ma la ballad mette in seria difficoltà il simpatico frontman e le corde vocali ne risentiranno per la restante durata dello show. Il seguente trittico rappresentato da Mr. Torture, If i Could Fly e Power confermano invece quanto di buono fatto dagli Helloween nella storia più recente: ottime song, brevi e festaiole, rese ancor più accattivanti dalla trasposizione in sede live (anche se con la sessione ritmica non esente da errori). Lo show, per quanto musicalmente apprezzabile, appare un po' troppo statico, eccezion fatta per il solito saltellante Grosskopf. Il duo Weikath/Gerstner manca di dinamicità e raramente offrono un supporto visivo complementare e adatto alle coordinate stilistiche dei pezzi proposti. Si torna quindi a ripescare nel passato più remoto della band con l'esecuzione di un brano che crea un certo imbarazzo nel pubblico: a distanza di un'ora l'Idroscalo si vede recapitare una seconda Future World. Il paragone non esiste: la versione targata Helloween è decisamente meno aggressiva e riuscita di quella proposta da Kai Hansen e compagni. Dopo i consueti cori inizia una lunga presentazione della band che se da una parte dimostra le ottime doti di intrattenitore di Deris, dall'altra accorcia inevitabilmente la scaletta di un brano: quel brano è I Want Out. A voi ogni congettura. Arriva il momento di chiudere lo show con la recente e poco ispirata Mrs God e la ben più acclamata Dr. Stein, classico di alto retaggio dell'era Keeper.
Alessandro 'Zac' Zaccarini, Marco ‘Homer Jay' Ferrari
Non si può oltrepassare, facendo finta di nulla, il paragone che è scaturito automaticamente in ogni testa scapocciante del Gods of metal 2006, anche in quelle annebbiate dalle gioie della birra e anche in quelle meno interessate al mondo del metal. Lo testimonia questo breve aneddoto: al termine dell'esibizione degli Stratovarius un addetto al merchandising mi ferma e mi chiede: “Chi suona adesso?”. Io gli rispondo: “Helloween”; e lui: “Ma come, non hanno suonato prima?”. Teoricamente no, praticamente sì: oggi, i Gamma Ray sono la band che più incarna lo spirito e l'anima della fu gloriosa formazione che alla fine degli anni '80 diede alla luce un nuovo modo di fare heavy metal. Sensazione che ho potuto riscontrare durante una chiacchierata con un Kai Hansen contentissimo dello show, costretto a essere politicamente corretto ma incapace di nascondere una certa soddisfazione per la vittoria nel derby del Gods of Metal 2006… Un'ultima considerazione prima di tornare al resoconto musicale della giornata. In molti si chiedono che sangue scorra tra Kai Hansen e Michel Weikath. Bene, non è che sia chiarissimo. Al Wacken 2005 suonarono insieme e Weiky annunciò Kai come “un caro vecchio amico”… ma si sa; il palco potrebbe nascondere tante cose. Io vi riporto alcune coincidenze sospette, poi voi trarrete le vostre personali conclusioni. Al GoM 06 gli Helloween hanno fissato la loro conferenza stampa esattamente cinque minuti dopo l'inizio del concerto dei Gamma Ray, hanno tardato 15 minuti ad arrivare al luogo delle interviste e hanno concluso esattamente sul finale dei Gamma Ray. Inutile dire che dopo il ritardo iniziale io sia fuggito, non disposto a tollerare alcuni incerti atteggiamenti e soprattutto non disposto a perdermi una prestazione dei Gamma Ray che si faceva di minuto in minuto sempre più accattivante; ma i dubbi restano…
Alessandro 'Zac' Zaccarini
Personalmente ennesima volta che vedo i Motorhead dal vivo. Come giustamente mi faceva notare l'amico e collega Marcello Catozzi una mitragliata di suono siffatto solo Lemmy riesce a ottenerlo, nonostante le migliaia di tentativi d'imitazione negli anni. L'impressione però è che i Nostri facciano il loro compitino – più che dignitosamente, s'intende! –, come ormai da copione durante i festival. C'è poco da fare, i Motorhead, come parecchie altre band – Def Leppard e Whitesnake, tanto per fare dei nomi – danno il meglio durante il loro tour, quello vero e proprio, dove non hanno limiti di tempo e si possono organizzare a loro piacimento. Complice una scaletta non proprio esaltante Lem & Co. non hanno infiammato la platea come ci si poteva aspettare, almeno a mio personalissimo parere. Pezzi tutto sommato anonimi hanno tolto dalla scaletta classici che amo come Iron Fist e Orgasmatron. Di contro invece l'apprezzatissima e inattesa Dancing on your Grave ha risollevato una prova priva di quel mordente che i Motorhead in altre occasioni hanno dimostrato di saper avere ancora. Chiusura di default con Ace of Spades e Overkill e il solito Mikkey Dee sugli scudi.
Stefano Ricetti
|
|
Correva l'anno 1996 quando i Def Leppard si fecero vedere per l'ultima volta in Italia al Palalido di Milano (davanti a un pubblico veramente esiguo per quella che era la capacità della location, tra l'altro). Dopo ben dieci lunghi anni, invece, ce li ritroviamo al Gods of Metal in veste di co-headliner. In questo lasso di tempo la band ci ha fatto soffrire sotto molti punti di vista: dalle dichiarazioni anti-heavy metal da parte di quasi tutti i componenti del gruppo ai dischi poco metal, dal look serioso all'ultima raccolta di cover. Con queste premesse, da grande amante della band anni '80 (diciamo fino ad Adrenalize, tanto per intenderci), non vedo comunque l'ora di rivederli all'opera dopo così tanto tempo. L'inizio lascia un po' il pubblico paralizzato e perplesso a causa di un paio di scelte discutibili... Il primo e il terzo pezzo della setlist sono infatti due cover tratte appunto dal "nuovo" Yeah!. Capisco fare pubblicità a una nuova release, ma credo che in molti abbiano pensato che sarebbe stato meglio inserire qualche vero classico targato Def Leppard in più. In ogni caso il concerto è ottimo: tirato, senza pause, coinvolgente e con esecuzioni ottime e precise. La band, infatti, è famosa per la sua storica compattezza, che si riflette anche on stage. A parte le due cover iniziali, la band propone tutti i cavalli di battaglia possibili: Let's Get Rocked, Animal, Rock of Ages, Pour Some Sugar on Me, Rocket, Photograph, Armageddon It, Hysteria, Make Love Like A Man... Addirittura un'inaspettata (almeno da parte mia) Promises. Il pubblico italiano ha apprezzato. Ora si spera di non essere tagliati fuori dai prossimi tour per altri dieci anni, prima di tornare a urlare tutti insieme ...do you wanna get rocked?
Paola Bonizzato
Ore 22.00: it's time to rock! I Whitesnake prendono posto sul palco. Davanti a me si piazza proprio Doug Aldrich: che piacere rivederlo a due passi dopo le emozioni dell'ottobre scorso a Londra (“Holy Diver Tour” al seguito di Ronnie James Dio)! Più indietro, Tommy Aldridge si accomoda dietro le pelli; di fianco a lui Timothy Drury si sistema alle tastiere e, sulla sinistra, si posizionano Reb Beach e Uriah Duffy. Dulcis in fundo, arriva David Coverdale, che indossa jeans e camicia bianca sbottonata, come di consueto. Si comincia con le inconfondibili note di Burn, che subito infiammano l'intera platea. Siamo in piena era Deep Purple ed è già delirio. Il nostro frontman si agita come un indemoniato, brandendo l'asta del microfono con i suoi tipici movimenti: sembra quasi che voglia conficcarla in terra, in perfetta sintonia con gli stacchi della band. Scattante come una mosca corre e si posa da una parte all'altra, ammiccando al pubblico con quelle sue movenze così sensuali che lo hanno reso famoso nei lustri passati. A Burn si alterna un'altra mazzata micidiale come Stormbringer, sapientemente inframmezzata con il brano precedente da questi straordinari musicisti. Vista la portata dei due pezzi iniziali, intuisco che stasera ci sarà proprio da divertirsi. Da questo momento in poi ci si immerge in pura epopea Whitesnake: dalla mia posizione i suoni mi sembrano decisamente buoni, esclusa la voce, che non mi arriva forte e chiara; mi riprometto di ascoltare il sound con maggiore attenzione, quando gli addetti della security abbaieranno per spingere il gregge di fotoreporter fuori dal settore. Il tempo di goderci la stupenda Love Ain't No Stranger, condita dalle classiche espressioni facciali di Coverdale, e usciamo dall'area privilegiata, per immetterci nella zona retrostante (quella dei primi fortunati 3.000, per intenderci), dove ci piazziamo piuttosto centralmente, per poter fruire di una discreta acustica. Ci accoglie un favoloso medley con i più famosi successi di una gloriosa carriera: Ready and Willing ci riporta ai fasti del passato, con una ritmica tosta e ben impostata che sorregge l'intera struttura del brano: ci lasciamo ammaliare volentieri dalle note trascinanti, partecipando al coro. “Sweet satisfaction…”: l'ispirato vocalist ingaggia il familiare botta e risposta col pubblico. “Sweet satisfaction…”: vorremmo gustarci a lungo questo spontaneo duetto. “Sweet satisfaction…”: artiglio la spalla di Steven e, in preda a un attacco di euforia, gli dico: “questa è storia!”. Giunge il momento dell'ultimo stacco, sancito dal finale pirotecnico: “Ready and willing!”. L'ovazione è assordante.
In un'atmosfera di tale suggestione, gli inconfondibili arpeggi di chitarra introducono una delle più emozionanti ballad mai concepite da Mr. Coverdale: Is This Love, nella quale non si può proprio fare a meno di cantare (l'impresa, fra l'altro, si rivela più abbordabile del previsto, considerato che la canzone è eseguita con una tonalità piuttosto bassa). Le voci dei presenti si fondono in un'unica invocazione che sale al cielo, per l'occasione impreziosito di stelle brillanti. Si accendono d'incanto centinaia, migliaia di fiammelle in mezzo alla platea completamente estasiata, mentre uno spicchio luminoso di luna si staglia nel profondo blu, in alto sulla destra del palcoscenico, e costituisce una degna cornice a questa esibizione così densa di pathos.
Non c'è tempo per esultare: incombe il ‘Guitar Solo' di Doug Aldrich, per la gioia di tutte le fanciulle (e non soltanto per loro). A tale proposito, ci terrei a sottolineare i progressivi miglioramenti che il nostro guitar hero ha dimostrato nel corso della sua militanza al cospetto di Sua Maestà Coverdale, allorché gli fu assegnato l'oneroso compito di avvicendare un “mostro sacro” come Adrian Vanderberg. La sua costante applicazione, le sue doti e la sua grande professionalità hanno concorso a trasformarlo da timida comparsa in autentico protagonista della scena mondiale. Il suo assolo è il frutto della sua formazione, ma soprattutto della sua continua ricerca, che attinge alle radici del blues per fondersi con i canoni del metal più classico, grazie a un'indovinata timbrica “fucking heavy”. Dopo questa gradita performance, peraltro di altissimo livello tecnico, riecco la band al completo, pronta a regalarci altre perle quali Crying in the Rain. Ora posso sentire bene la voce, e devo purtroppo prendere atto del fatto che le mie sensazioni iniziali stanno trovando una conferma: DC non si esprime più ai livelli di un tempo. Gli acuti sono uno spietato banco di prova e, sebbene grazie al suo mestiere riesca a “tirarsi fuori” dalle situazioni difficili, ahimè, le sue corde vocali non sono più quelle di prima. C'è spazio anche per un Reb Beach un pochino oscurato dalla presenza (discreta ma decisa) di Doug. Il ritmo è sostenuto, il sound granitico, direi quasi perfetto: un amalgama che solo una grandissima band è in grado di fornire. Dal punto di vista strumentale, i musicisti sono quanto di meglio possa offrire attualmente il panorama mondiale e la dimostrazione oggettiva, al di là di ogni dissertazione, è qui, davanti ai nostri occhi, stasera.
Un altro momento significativo è rappresentato dal Drum Solo: orecchie e occhi spalancati per godersi pienamente uno dei più grandi drummer del pianeta! Tommy Aldridge si lancia in una serie di rullate da paura, sorrette da un possente lavoro di gambe, al quale fa seguito una dimostrazione assai singolare: il finale dell'assolo a mani nude, con una giusta concessione allo spettacolo che viene accolta dagli immancabili urli e applausi della folla.
Si prosegue con altre splendide gemme del passato, che resteranno per sempre incastonate nel firmamento musicale: Ain't No Love in The Heart of the City ci offre un'altra occasione di partecipare al coro, in un fantastico rapporto di osmosi con questa favolosa band capace di farci viaggiare nel tempo sull'onda delle emozioni. Slide It In permette a David di esibirsi nelle sue personalissime movenze di anca, che hanno fatto impazzire generazioni di donzelle nei decenni scorsi, grazie ai celebri video che hanno caratterizzato gli anni ‘80. In Give Me All Your Love lo scatenato leader pare abbandonarsi ad un amplesso con il microfono, mentre con Here I Go Again il coinvolgimento torna ad essere totale, fino alla chiusura, di enorme spessore e intensità.
Take Me With You fa scattare un altro piacevole flash back, evocando quei vecchi indimenticabili fondatori del Serpente Bianco, che rispondono ai nomi di Bernie Marsden e Micky Moody. I suoni sono più “americani” rispetto alla versione originale, ma l'energia che questa canzone riesce a trasmettere è la stessa.
Infine, per chiudere alla grande: Still of the Night, pirotecnica e sfavillante, dal ritmo incalzante e capace di coinvolgere tutti; DC non mostra segni di stanchezza, perlomeno dal punto di vista fisico, in quanto risulta ipercinetico come all'inizio dello show. Alla fine il pubblico esplode in un meritatissimo tributo a una band che – non mi stancherò mai di ripeterlo, anche a rischio di diventare un po' retorico – ha fatto la storia.
Ora si sciolgono le file e lo sciame di migliaia di appassionati si disperde lentamente, mentre si diffondono le note di We wish you well. Con la mente vado al 1997, allorché ebbi la fortuna di assistere ad un memorabile show di Coverdale & C., nel quale il nostro eroe si era presentato in grande spolvero e il finale era stato assai commovente, con quella canzone cantata in modo stupendo e così toccante… Sono trascorsi quasi dieci anni e il Serpente Bianco è ancora vivo e vegeto, anche se – pur con una grande tristezza nel cuore – devo riconoscere che l'inesorabile incedere del tempo ha lasciato segni tangibili in colui che ritengo una delle più grandi figure della storia del rock. DC è stato un artista di statura immensa e, probabilmente, lo è ancora in un contesto di studio, ma purtroppo – secondo la mia modesta opinione – non ha più la potenza e l'estensione vocale che l'ha contraddistinto negli ultimi tre decenni. Come dicevo, in versione “live” le magagne saltano fuori impietosamente, nonostante l'uso smodato dei riverberi e di tutti gli effetti che l'elettronica è in grado, oggi, di offrire. Riflettendo per un istante sulla perfezione palesata dall'ultimo DVD (uscito nel marzo del 2006), mi chiedo se la tecnologia avanzata rappresenti effettivamente un passo avanti o se, piuttosto, non serva a confondere le idee agli spettatori (spesso alquanto sprovveduti) e agli stessi fan (spesso un po' troppo di parte). La verità, probabilmente, sta nel mezzo, nel senso che i “taroccamenti” potrebbero trovare una giustificazione soltanto quando il loro utilizzo sia diretto a correggere qualche imperfezione in ambiente “live”, tipo: fischi dell'impianto, fruscii, colpi involontari o altre interferenze, senza però incidere su quello che è il prodotto vero e proprio, l'essenza, vale a dire la performance della band. In caso contrario, è inevitabile che venga meno l'immediatezza e la spontaneità che un concerto trasmette, con tutti i suoi difetti e imperfezioni.
Detto questo, va affermato senza alcun dubbio che i Whitesnake hanno fornito, stasera, una prova che si è rivelata pienamente all'altezza delle aspettative, sul piano strumentale ed esecutivo, e lo stesso David Coverdale ha confermato di essere uno spettacolare animale da palcoscenico, dalle innate qualità e dal carisma intatto. La scelta degli Headliners non poteva essere più azzeccata ed il finale ha suggellato nel modo migliore una memorabile giornata di musica.
We wish you well.
Marcello Catozzi
[post_title] => Gods Of Metal 2006 - Day Three - 3 giugno 2006
[post_excerpt] =>
[post_status] => publish
[comment_status] => open
[ping_status] => open
[post_password] =>
[post_name] => gods-of-metal-2006-day-three-3-giugno-2006
[to_ping] =>
[pinged] =>
[post_modified] => 2020-10-16 13:45:01
[post_modified_gmt] => 2020-10-16 11:45:01
[post_content_filtered] =>
[post_parent] => 0
[guid] =>
[menu_order] => 1
[post_type] => post
[post_mime_type] => OK
[comment_count] => 34548
[filter] => raw
)
[14] => WP_Post Object
(
[ID] => 34294
[post_author] => 35
[post_date] => 2006-06-20 00:00:00
[post_date_gmt] => 2006-06-20 00:00:00
[post_content] =>
Ringraziamo Michela Solbiati per aver fornito le foto della giornata
Eccoci arrivati alla seconda giornata del Gods Of Metal 2006, quella dedicata in blocco al metal italiano: una soluzione che non trova d'accordo alcuni musicisti (i Novembre, ad esempio) e - permettetemelo - anche il sottoscritto: una forma di ghettizzazione resasi necessaria forse per ragioni commerciali, comunque discutibili, ma che dimostra come la scena italica venga sempre trattata come 'serie B' rispetto agli artisti esteri, il tutto dai propri compatrioti! Puntualizzazioni a parte, dobbiamo precisare che la parte iniziale della giornata coincide con uno dei momenti di maggior impegno per lo staff di TrueMetal, che tra pass che non arrivano in tempo e stand da allestire è costretta a perdersi qualcuno degli artisti proposti all'inizio. Ci scusiamo quindi con Boom e Mellow Toy per la loro mancata presenza in questo resoconto.
Ed ora via con il report!
Giovanissimi, hanno la grande occasione di suonare al Gods of Metal. L'occasione viene tristemente sprecata. Da loro? No, assolutamente. Quando la band comincia a suonare, dentro all'area concerti siamo in quattro (contati personalmente) e i cancelli sono ancora chiusi. I primi figuri cominciano ad arrivare verso la fine di uno show che non è affatto male. I pezzi hanno traino e nonostante qualche ingenuità qua e là il livello è ben più alto di quanto sia lecito attendersi da una band con un solo demo alle spalle. Insomma, per i Perfect Picture sarebbe statp un bel successo ma niente. L'atmosfera non si concretizza mai al di qua delle transenne perché il pubblico è ancora tutto in fila davanti ai cancelli. Per chi suona un genere come il glam/street poter far presa su certi fattori è fondamentale. Inoltre, per chi si trova a dover affronta un palco prestigioso come quello del Gods of Metal, avere davanti un pubblico e poter giocarsi tutte le proprie carte è vitale, specialmente se la band è davvero giovane come in questo caso. Ai Perfect Picture questo non è stato concesso: davvero un peccato.
Alessandro ‘Zac' Zaccarini
Freschi del nuovo advance Cd contenente tre pezzi in anteprima che finiranno sul loro prossimo lavoro, i vicentini White Skull, incuranti della posizione nel bill - un poco avara nei loro confronti -, dispensano acciaio vergine in faccia ai convenuti senza fronzoli di sorta. Il singer Gus è in piena forma e si nota come abbia preparato nei minimi particolari la performance, dall'altra parte Tony e il resto della band costituiscono la classica macchina da guerra che non fa prigionieri. Complice un impianto di alta caratura, i Nostri sputano sul pubblico una manciata di brani vecchi alternati ad altri più recenti con la particolarità di fare sentire le chitarre direttamente sullo stomaco dell'audience. Si chiude con il classico Asgard una performance breve ma intensa e coinvolgente, che ha dispensato HM di matrice germanica a profusione, senza lesinare. Il vero heavy metal diretto e coinvolgente non morirà mai finché in giro ci saranno band come i White Skull che, nonostante i parecchi anni di milizia, danno sempre prova di divertirsi e divertire sulle assi di un palco, sia che si tratti del Gods of Metal sia che si tratti dell'osteria sgangherata nei dintorni di Vicenza.
Stefano Ricetti
Tra le sorprese più liete della giornata meritano sicuramente una menzione particolare gli Infernal Poetry. Nonostante i suoni tutt'altro che ottimali, la death metal band marchigiana si scatena nella mezz'oretta a sua disposizione e infiamma il palco con un'esibizione carica di dirompente energia, dimostrando di possedere in abbondanza la personalità e la grinta richieste dagli eventi più prestigiosi. Ciliegina sulla torta la personalissima cover finale dell'immortale Fear of the Dark, a tutti gli effetti uno dei pezzi forti del repertorio della band, irresistibile richiamo per decine di spettatori che fino a quel momento non si erano ancora gettati nella mischia.
Riccardo Angelini
Cambia la band, rimangono i problemi al sonoro. Non ne trae certo giovamento il black sinfonico degli Stormlord, che tuttavia calcano il palco con determinazione e riescono a offrire una prova di tutto rispetto. La setlist privilegia la produzione più recente della loro ormai decennale discografia, con diversi pezzi tratti dall'ultimo The Gorgon Cult e anche un antipasto del nuovo full-length. A chi assisteva per la prima volta a un'esibizione dal vivo della formazione capitolina sarà forse rimasta la curiosità di rivederla esibirsi in condizioni ottimali, ciononostante si può ben dire che il bilancio finale dell'esibizione sia da considerarsi a tutti gli effetti positivo.
Riccardo Angelini
Una buona prestazione quella dei Novembre, attesi nonostante l'ora impietosa (ed il caldo distruttivo) da molti dei presenti: la band è apparsa tranquilla, conscia dei propri mezzi e capace di grande feeling col pubblico. Tutti fermi a guardarli quindi, con i nuovi brani che scorrono (su tutti Aquamarine, Geppetto e la title-track dell'ultimo disco, Materia) e con un pubblico attento a valutarli ed a recepire le atmosfere di cui sono pregni i loro brani. Brani che non arrivano solo dagli ultimi lavori, ma tornano indietro sino alla lontana The Dream Of The Old Boats, direttamente dal loro debut album. Tecnici ma non in modo spudorato, affiatati ma lontani dalla furia metal tout-court, i Novembre sono stati forse una band un po' fuori contesto (così come gli Opeth il giorno prima), rendendosi però capaci di adattare la scena alle loro esigenze con una performance assolutamente degna.
Alberto 'Hellbound' Fittarelli
Personalmente ho sempre ritenuto i Domine LA band power italiana, vuoi per la simpatia che certi personaggi come i fratelli Paoli e Riccardo Iacono hanno sempre dimostrato, vuoi perché musicalmente la formazione toscana ha sempre fatto scelte oneste e a mio parere assolutamente condivisibili. Mi riferisco al loro trademark, mai accantonato nemmeno quando cambiare qualcosa avrebbe voluto dire vendere di più; e mi riferisco alla loro disponibilità a suonare: non c'è palco di festival italiano, piccolo o grande, su cui i Domine non abbiano fatto calare il loro sudore. La gente lo sa e infatti l'accoglienza per loro in questo Gods of Metal è caldissima. Tra l'incedere di The Hurricane Master e la coraggiosa The Aquilonia Suite, fino alla conclusiva Defenders, non c'è pezzo che non colga nel segno. I Domine suonano come sanno e il pubblico è tutto con loro. Canta e alza la polvere. Ogni volta che questa band sale su un palco riceve sempre lo stesso affetto e la stessa devozione, ci sarà un perché.
Alessandro ‘Zac' Zaccarini
Gruppo controverso, amato/odiato dal pubblico italiano, i Necrodeath hanno dimostrato per l'ennesima volta di saperci fare sul palco: la band, fresca di negozio con il nuovo 100% Hell, ha saputo infatti rendere al meglio il proprio thrash/black ferale ma ragionato anche nel contesto del Gods Of Metal che, si sa, non è esattamente il più facile al mondo. La proverbiale esterofilia del pubblico italiano però questa volta sembra non aver influito sull'accoglienza di brani come The Creature, Necrosadist, Mater Tenebrarum o delle nuove Forever Slave e 100% Hell, che scivolano via in fretta sotto al solleone davanti al polverone alzato dal pogo, ottimo segno anche per la band stessa. Rodati da anni di attività, i Necrodeath si confermano come uno degli esponenti di punta della scena estrema italica.
Alberto 'Hellbound' Fittarelli
|
|
Scocca l'ora dei Vision Divine, che si presentano sul palco dell'Idroscalo con una formazione rinnovata; tre dei sei componenti sono infatti “freschi di ingaggio”: Cristiano Bertocchi (bass), Alessio Lucatti (Keys) e Ricky Quagliato (Drums) a sostenere la vecchia guardia composta dall'ex turnista Federico Puleri (Guitar), Michele Luppi (Vocals) e Olaf Thorsen (Guitar) per uno show basato totalmente su cuore e grinta. La scaletta si incentra sui cavalli di battaglia degli ultimi due lavori, The Perfect Machine e Stream of Consciousness, ed è proprio la title track del primo ad accendere gli animi di un pubblico accorso in gran numero all'evento. Le prime note dimostrano che, in sede live, il gruppo riesce ad ottenere un suono molto più pesante che su disco, quasi a trasformare il fine power metal che li caratterizza in qualcosa di molto più battagliero ed impetuoso. I reiterati problemi al microfono costringono Luppi a ricercare con lo sguardo, e in continuazione, i tecnici, che riescono a smussare il problema al termine della seconda First Day of a Never-ending Day. Quanti sono i cantanti che possono vantare risultati live uguali o migliori di quelli ottenuti in studio? Beh, Michele Luppi rientra nella categoria e lo conferma con l'entusiasmante Colours of my World in questo caso enfatizzata da acuti eccezionali. In ordine The Secret of Life, The Ancestor's Blood, The Fallen Feather, La Vita Fugge e Through The Eyes Of God prima della chiusura con la brillante God is Dead. Sempre preciso Olaf Thorsen e sempre più importante l'apporto di Federico Puleri, da rivedere invece i nuovi arrivati che avranno tempo e modo di amalgamarsi alla perfezione. Spassosi infine, i siparietti comici messi in piedi dalla band e le battute a profusione illimitata di Michele, segno che i ragazzi sono, nonostante tutto, a loro agio. Vision Divine promossi a pieni voti.
Gaetano Loffredo
Francamente il lavoro reso necessario dallo stand di TrueMetal (e dalle interviste ai musicisti) tocca l'apice durante l'esibizione degli Extrema, ormai lontani anche dal genere trattato su queste pagine (anche se loro si professano "IL metal italiano. Punto". La accendiamo?) se non per il passato Pantera-style di Positive Pressure... Of Injustice. Riusciamo a cogliere quindi poco di un'esibizione che comunque non sembra distanziarsi di moltissimo, quanto ad energia, da quanto già mostrato ad esempio in occasione dell'Heineken Jamming Festival 2003. Sarà per la prossima volta.
Alberto 'Hellbound' Fittarelli
Pino Scotto ha dimostrato di tenere particolarmente a questa performance presentandosi sul palco in ottima forma, conscio del fatto di rappresentare un'icona del metallo di casa nostra difficilmente sostituibile. I Fire Trails hanno proposto pezzi propri alternati ad alcuni classici dei Vanadium che hanno riscontrato parecchi osanna da parte del pubblico presente, segno che la buona musica rimane immortale. Il resto della band si è dimostrato all'altezza del compito, con un Larsen Premoli particolarmente spettacolare - senza nulla togliere agli altri componenti – che da dietro le sue tastiere ha fatto il diavolo a quattro. Durante il concerto il singer Pino Scotto non ha accennato il minimo cedimento, alla pari del suo mentore Lemmy Kilmister dei Motorhead, a documentare che ormai anni di abusi hanno temprato il suo fisico rendendolo immune al passare del tempo. I Fire Trails chiudono con la cover Long Live Rock'n'Roll una prestazione da incorniciare, degna della posizione di co-headliner loro attribuita. Se tutto va bene il concerto uscirà fra un po' come Dvd ufficiale della band.
Stefano Ricetti
Inutile nasconderlo: moltissimi dei presenti sono convenuti all'Idroscalo di Milano per rivedere dal vivo Bud Ancillotti affiancato da Enzo Mascolo, accompagnati nell'occasione dai due giovani – rispetto a loro - Cappanera, per consegnare ai metallari italiani un sogno covato sotto la cenere da lustri: far brillare di nuovo per una notte la stella della Strana Officina. Dietro la loro performance vi sono mesi di lavoro fatti di prove e di sacrifici, particolare che si estrinseca alla grande. Bud è giustamente emozionato ma implacabile e carismatico come sempre, Enzo è il solito professionale che poco lascia allo spettacolo puntando solamente alla sostanza mentre i due Cappanera sono la vera rivelazione della serata. Il chitarrista Dario sprigiona feeling ed entusiasmo da tutti i pori: spettacolare – con posa alla Zakk, tanto per intenderci! – e veloce negli assoli. Il batterista Rolando risulta tremendamente efficace e preciso: da incorniciare la sua performance in piedi durante l'ultimo pezzo eseguito. Il risultato è un muro di potenza terrificante: questo ha fatto percepire la Strana Officina nella notte di venerdì. I classiconi storici sono stati suonati più o meno tutti, compresi i pezzi mai incisi ma famosi come Officina, Profumo di Puttana e Non Sei Normale, tra il tripudio dei convenuti. Una notte magica, probabilmente unica, che resterà scolpita nel cuore di tutti i metallari che aspettavano da anni e anni di rivedere il vecchio Bud a fianco di Enzo con il logo della Strana alle loro spalle. Da lassù Roberto, Fabio e Marcello sono sicuro che avranno apprezzato… grazie di cuore ragazzi!
Stefano Ricetti
[post_title] => Gods Of Metal 2006 - Day Two - 2 giugno 2006
[post_excerpt] =>
[post_status] => publish
[comment_status] => open
[ping_status] => open
[post_password] =>
[post_name] => gods-of-metal-2006-day-two-2-giugno-2006
[to_ping] =>
[pinged] =>
[post_modified] => 2020-10-16 13:45:05
[post_modified_gmt] => 2020-10-16 11:45:05
[post_content_filtered] =>
[post_parent] => 0
[guid] =>
[menu_order] => 1
[post_type] => post
[post_mime_type] => OK
[comment_count] => 34560
[filter] => raw
)
[15] => WP_Post Object
(
[ID] => 34309
[post_author] => 35
[post_date] => 2006-06-19 00:00:00
[post_date_gmt] => 2006-06-19 00:00:00
[post_content] =>
Foto di Alberto 'Hellbound' Fittarelli [cliccate sulle foto per ingrandirle]
Ed eccoci anche per il 2006 a riportarvi il più fedelmente possibile l'esperienza del Gods Of Metal: la versione 2006 si presenta accattivante, forse più che negli anni passati, e strutturalmente ben organizzata ma... non del tutto esente da qualche pecca. Per un discorso generale sul festival vi rimandiamo all'ultima parte di questo nostro report "a puntate": ora via con la descrizione dei gruppi del primo giorno.
Milano, Idroscalo, 1 giugno 2006
I Cappanera? Sorry, la trafila burocratica che si rende necessaria per ottenere il miliardo di pass, accrediti e tagliandini vari per poter entrare a lavorare a questo fantastico report ci costringe a perderli, complice anche la lunga attesa fuori dai cancelli e il fatto che inizino a suonare prima ancora che la gente possa accedere all'interno dell'arena.
Arena che si dimostra forse un po' ridotta per le aspettative che può suscitare un evento del genere,che vede all'opera alcuni dei gruppi di rock duro più accattivanti che la scena odierna proponga. Ma sono dettagli che non c'è il tempo di approfondire dato che si presentano velocemente sul palco i finnici Amorphis, forti di un album grandioso come Eclipse: il combo è affiatato, propone una scaletta eterogenea e che pesca da un po' tutta la loro ormai lunga carriera, e offre un cantante davvero all'altezza. In the Beginning e Against Widows sono accolte da un boato della folla, il growl è perfetto e rimanda direttamente al suono pieno di feeling proprio dei dischi da cui provengono e la band si mostra in palla al punto giusto. Si va a citare addirittura il lontano debutto, così come album più recenti come Tuonela, ma la parte del leone la fa giustamente Eclipse, la cui riuscita in sede live deve molto alla varietà del materiale che contiene. Lo show doveva essere suggellato dalla divina Black Winter Day, ma a causa di ritardi abbastanza pesanti sulla tabella di marcia il set viene mutilato di almeno un paio di brani, tra cui la gemma di Tales of a Thousand Lakes. Un gran bel concerto insomma, potente e pieno del feeling nordico che li ammanta, grazie anche alla prestazione del nuovo singer che sembra non soffreire il pesante paragone con Pasi Koskinen. Il neoarrivato passa dalle linee pulite al growl con grande maestria, riuscendo nell'atra grande impresa di mantenere vivo il sentimento originale della musica del combo finnico.
Alberto 'Hellbound' Fittarelli, Alessandro 'Zac' Zaccarini
Pochi minuti di attesa e viene il turno dei tedeschi Caliban, richiamati all'ultimo momento dopo la defezione dei Dimmu Borgir. Un cambio non certo conveniente per gli spettatori che cominciano a riempire l'arena di fronte al palco. Mezz'oretta abbondante di metalcore, ricco di energia ma alquanto inflezionato, che vede una band che fa di tutto per coinvolgere il pubblico con una prestazione buona ma che non fa gridare di certo al miracolo. Riff quadrati e cadenzati, voce urlata con forza, buona presenza scenica, ma niente di più di quello che avreste potuto vedere con un qualsiasi altro gruppo dello stesso genere. Per quanto ancora dovremo sorbirci gruppi simili, tutte formazioni volenterose ma senza la personalità per potersi affermare.
Stefano Risso
Nati nei giorni del black metal intransigente per poi cavalcare l'onda di un progressivo allontanamento degli stilemi minimalisti degli albori, i Satyricon sono oggi tra i gruppi che più hanno cambiato nel corso della loro produzione discografica. Salgono sul palco del Gods of Metal con grande determinazione e convincono grazie a una prova compatta e precisa, come da copione guidata dalle ritmiche taglienti di Frost e dal carisma di Satyr. La band nordica deve affrontare una specie di 'prova del fuoco' di fronte ai fans italiani, notoriamente conservatori, che vogliono ascoltare il nuovo, discusso Now, Diabolical alla prova del palco. Ed all'inizio la band sembra volerseli accattivare, consegnando ai fan in visibilio una Dominions of Satyricon ottimamente eseguita, tratta direttamente dal capolavoro The Shadowthrone. Rotto il ghiaccio, ed è il caso di dirlo, si passa i brani dei nuovi lavori, su cui spiccano le ormai note Repined Bastard Nation e Fuel For Hatred, intervallate dalle non dissimili Now, Diabolical e The Pentagram Burns dal nuovo album. Una performance abbastanza coinvolgente, forse un pelo sotto lo standard della band di Satyr, il quale è sembrato a tratti poco coinvolto. Sarà anche il fatto di suonare in pieno giorno che li danneggia, ma la chiusura con Mother North riesce a far venire i brividi anche coi 30° dell'Idroscalo...
Alberto 'Hellbound' Fittarelli, Alessandro 'Zac' Zaccarini
Da venticinque anni scorrazzano su e giù per i palchi dei festival di tutta Europa, spesso condannati e relegati a minutaggi e gerarchie che non rispecchiano il reale valore della band. Nonostante tutto ciò i Sodom sanno comunque come conquistare il pubblico del Gods of Metal: thrash metal teutonico a presa diretta. Scaletta inevitabilmente incentrata sull'ultima fatica da studio della band, ma ad andare a segno più di tutti sono i classicissimi come Napalm in the Morning e Ausgegtbomb. Tom Angelripper guida il trittico all'assalto sonoro e trova la sua banda più che disposta a mettere in campo dieci anni di serrata collaborazione: il risultato è un'oretta di show targato in maniera tremendamente canonica Sodom, nè più nè meno.
Alessandro 'Zac' Zaccarini
Giusto il tempo di riprendersi e tocca ai Nevermore calcare il palco, formazione che purtroppo si presenta rimaneggiata dal momento che il chitarrista Steve Smyth si trova impossibilitato a causa di problemi di salute ai reni, dovendo rinunciare a tutti gli impegni estivi della band. Augurando una pronta guarigione a Smyth, andiamo a ripercorrere la prestazione dei nostri, che nonostante i problemi di line-up forniscono una prova sicuramente di buonissimo livello. Certo, chi ha avuto la fortuna di vedere i Nevermore nella data meneghina del settembre scorso, sarà rimasto un po' dispiaciuto nel vedere i Nevermore di quest'oggi, ovvero una macchina da guerra a cui è stato tolto gran parte del potenziale a disposizione. Inutile girarci attorno, la mancanza di una seconda chitarra si sente eccome, nonostante il talento di Jeff Loomis riesca per lo meno a colmare parzialmente il vuoto con i suoi assoli al fulmicotone -eseguiti manco a dirlo alla perfezione- e con ritmiche potentissime. Si inizia alla grande con una prorompente Final Product, estratta dal capolavoro This Godless Endeavor, in cui mi è sembrato di rivedere i Nevermore che ricordavo... Un Warrell Dane estremamente coinvolgente, coadiuvato dal lavoro "sporco" di Jim Sheppard al basso e di un Van Williams sugli scudi, in cui tutto gira per il meglio. Se fino a questo punto la resa sonora degli amplificatori non era stata eccezionale (trend che proseguirà un po' per tutto il concerto), con la seguente Engines of Hate si tocca proprio il fondo. Dopo qualche secondo dopo l'inizio del brano salta completamente tutta l'amplificazione, costringendo i nostri a ricominciare da capo dopo aver atteso qualche attimo per poter risistemare tutto quanto. E come se non bastasse il microfono di Dane ha continuato a dare problemi, funzionando a scatti, e provocando una certa (e comprensibile) insofferenza da parte del cantante, che nonostante tutto si è dimostrato, come il resto della band, molto professionale a proseguire il concerto come se niente fosse. Problemi a parte, sono stati proposto brani che hanno toccato un po' tutti i lavori della band di Seattle (ad eccezione del debutto), come The Seven Tongues of God da The Politics of Ecstasy, passando per The River Dragon Has Come e Narcosynthesis, tratte da Dead Heart in a Dead World, giungendo al penultimo album, Enemies of Reality con I, Voyager e Enemies of Reality, dando ovviamente spazio anche a This Godless Endeavor, con la title-track e Born in chiusura. Tirando le somme posso dire di aver visto un'esibizione decisamente valida, ma che per vari motivi non è stata all'altezza delle potenzialità che i Nevermore hanno saputo esprimere in altre circostanze. Comunque una garanzia.
Stefano Risso
Quando salgono sul palco i Testament non ha ancora finito di posarsi l'immensa nuvola di terra sollevata durante il violento pogo scatenatosi coi Nevermore. I thrasher, che si sono posizionati tra le band più apprezzate della giornata, non sbagliano un colpo proponendo al pubblico una setlist piuttosto classica, praticamente da greatest hits e da massacro (letteralmente fisico per chi stava... "Into the Pit"). L'esibizione mantiene caldo il Gods per tutto il tempo: d'altronde i Testament sono ormai dei veterani sugli stage, per cui è totalmente superfluo complimentarsi con loro per come sanno entusiasmare la folla. Unica nota di demerito: aver lasciato completamente fuori The Gathering dalla scelta dei pezzi... Mi sarei aspettata almeno una True Believer. Peccato. In ogni caso con Over the Wall, Disciples of the Watch, Burnt Offerings, Electric Crown, Raging Waters, The Preacher, Trial by fire, Into the pit, Practice What You Preach e Souls of Black, è stata sicuramente proposta un'ora di thrash metal di alto livello.
Paola Bonizzato
Dei Down di Phil Anselmo, francamente, non siamo riusciti a cogliere molto: il lavoro resosi necessario per le numerose interviste della giornata e presso lo stand di TrueMetal ci hanno costretti a perdere gran parte della loro esibizione. Cosa dire dei pochi brani visti? Che la miscela sludge/southern/doom della band di New Orleans è nota, ma ancor più nota è la smania di protagonismo connatura con un Phil Anselmo ormai "scoppiato", che basa sul proprio 'personaggio' gran parte dello show, togliendo spazio legittimo all'interesse destinato alla band. Peccato, anche perchè Phil è ben lontano dai suoi giorni d'oro: la voce non esiste più, trasformata in un urlo acido e francamente banale, e ormai la luce riflessa dei Pantera sta iniziando a svanire, almeno per lui...
Alberto 'Hellbound' Fittarelli
In assenza dei Dimmu Borgir, la posizione più alta del bill dopo quella degli headliner viene affidata agli Opeth: posizione del resto del tutto meritata, che premia l'impressionante continuità dei colossi svedesi. Già le prime note di The Grand Conjuration, hit imprescindibile del recente successo Ghost Reveries, mostrano una band in forma sontuosa - ma non è certo il versante tecnico-esecutivo a destare perplessità. Piuttosto, considerata l'elaboratezza della proposta della band, a essere messa alla prova è la capacità di rendere accattivanti anche dal vivo brani lunghi e complessi, che fanno di atmosfere e profondità sonora le loro armi vincenti. E se effettivamente lascia soddisfatti a metà un pezzo come Closure, tra i migliori di Damnation, incapace però di esprimere tutto il suo potenziale in sede live, ci pesa il devastante trittico finale, composto dall'acclamata The Leeper Affinity, dalla trascinante Damnation e dalla primordiale gemma oscura Demon of the Fall, a spazzar via ogni perplessità circa la riuscita totale dell'esibizione. Merito tra gli altri di uno straordinario Akerfeldt, evocativo nel pulito e semplicemente perfetto nel growl, capace tra un cambio di chitarra e l'altro di accattivarsi le simpatie del pubblico con pacata arguzia e sferzante ironia. I brani sono solo sei, ma la durata elevata consuma rapidamente l'ora di tempo concessa, gli Opeth lasciano il palco tra gli applausi:tocca agli headliner.
Riccardo Angelini
Calata italica per i Venom: doveva essere uno dei concerti dell'anno, è stato uno degli show forse meno brillanti e continui del primo giorno, complici band che hanno tirato fuori dal cilindro prestazioni davvero entusiasmanti (vedi gli Amorphis). Dovevano essere una macchina da guerra pronta al devasto totale ma l'assalto vero e proprio si è intravisto solo qua e là. Come da programma, intorno alle 22 il trittico si presenta sulle assi dell'idroscalo. Cronos, Antton e l'ex-Cathedral Mike "Mykus" Hickey salgono sul palco del Gods of Metal in tenuta Venom e buttano la scintilla sulle polveri. L'apertura a ferro e fuoco con Black Metal è una vera e propria razzia di anime ma poi, pian piano, la band comincia a dare segni di cedimento. Il tempo passa, Cronos resiste più di molti altri ma si deve affidare a diversi stratagemmi vocali e non per reggere tutto il concerto su livelli decorosi. Con il passare dei brani tra le fila del pubblico cominciano ad alzarsi alcuni mormorii di disapprovazione per la prestazione della band. I pezzi sfilano uno dopo l'altro ma la reazione dei presenti non è all'apice, specialmente nei fan di vecchia data e negli ascoltatori delle retrovie, difficile terreno di conquista e frangia disposta a lasciarsi trascinare soltanto da prove veramente coi fiocchi. La band macina il suo repertorio, ma è solo con le cose migliori del nuovo (mediocre) disco, come The Antichrist, e le vecchie glorie come In League with Satan e Countess Bathory che i Venom fanno tuonare l'impianto meneghino. Die Hard vede l'ingresso di un Phil Anselmo visibilmente emozionato, ma la prestazione congiunta del leader dei Down con il buon Cronos non risulta indimenticabile, anzi. Accolta con un boato invece la citazione dei Motorhead piazzata a inizio show in uno dei tanti stacchi che le ritmiche dei Venom prevedono.
Marci, violenti e sgraziati: questi sono i Venom; così li volevamo e così li abbiamo avuti. Certo si poteva essere più marci, violenti e sgraziati di così…. insomma più convincenti. Concerto positivo ma non eccezionale, che tra le altre cose pone l'accento sul divario qualitativo tra i pezzi targati 1981-982-1983 e quelli del nuovo Metal Black, alla cui title-track è affidata la chiusura dello show.
Alessandro 'Zac' Zaccarini
Nota sui Venom: quello che lasciato francamente allibiti è stata la non eccessiva partecipazione dei presenti, che spessissimo lasciavano il povero Cronos in pericolosi "vuoti" nel momento in cui lui, con gli atteggiamenti standard previsti dalla sua immagine, si aspettava boati di ritorno che in realtà non arrivavano. Abbastanza triste, lasciatecelo dire, anche l'uso di cori d'incitamento registrati, a dare l'impressione di un "tifo" che in realtà c'era solo in parte... solo su In League With Satan, pezzo marziale e perfetto per il palco, il pubblico è sembrato smuoversi davvero da una certa apatia.
Alberto 'Hellbound' Fittarelli
[post_title] => Gods Of Metal 2006 - Day One - 1 giugno 2006
[post_excerpt] =>
[post_status] => publish
[comment_status] => open
[ping_status] => open
[post_password] =>
[post_name] => gods-of-metal-2006-day-one-1-giugno-2006
[to_ping] =>
[pinged] =>
[post_modified] => 2020-10-16 13:45:05
[post_modified_gmt] => 2020-10-16 11:45:05
[post_content_filtered] =>
[post_parent] => 0
[guid] =>
[menu_order] => 1
[post_type] => post
[post_mime_type] => OK
[comment_count] => 34575
[filter] => raw
)
[16] => WP_Post Object
(
[ID] => 34581
[post_author] => 1132
[post_date] => 2006-05-27 14:14:44
[post_date_gmt] => 2006-05-27 14:14:44
[post_content] => Prima candelina per Metal Maniacs, che coglie l'occasione per festeggiare il suo primo anno di attività in quel dell'Estragon live di Bologna – per l'occasione molto disorganizzato, con prezzi che non risultano essere quelli presenti in sede di promozione e lista accrediti totalmente annullata.
Battle Ram
(Federico 'Immanitas' Mahmoud)
A inaugurare i festeggiamenti, per la verità rimandati da un'atmosfera tiepida e un Estragon ancora semi-vuoto, tocca ai Battle Ram. Astro nascente nel firmamento underground tricolore, la formazione picena allestisce un breve set a base di pezzi propri e un paio di cover (la clamorosa In The Fallout, targata Fifth Angel, e Speed King) che hanno il merito di scuotere le prime file, beneficiando di suoni positivi sin dalle note iniziali. La band sciorina con classe il solito concentrato di heavy metal epico e maestoso, che ha nelle potenti Behind The Mask (direttamente dal debutto dei Nostri, di prossima uscita) e Battering Ram, autentico manifesto del Battle Ram sound, le più riuscite incarnazioni; l'efficacia dei brani nasce anche, e soprattutto, dalla palpabile intesa che lega i vari componenti, in giro ormai da un lustro e dotati di quella malizia che contraddistingue solo le line-up più affiatate: è con questo spirito che si mette in mostra la chitarra di Gianluca Silvi - apprezzabile non soltanto quando si tratta di organizzare concerti (puntualmente ignorati) - nel granitico tandem completato da Davide Natali. Nonostante uno show contenuto e seguito distrattamente dai presenti, il quintetto di Ascoli Piceno ha ribadito con sicurezza le proprie ragioni, mostrandosi ormai pronto per il tanto agognato esordio sulla lunga distanza. Le premesse non sono certo quelle di un best-seller, ma un posto nel cuore dei fedeli appassionati è riservato da un pezzo!
Markonee
(Alessandro 'Zac' Zaccarini)
Sin dalla “prima volta” ho sempre avuto una certa stima per i Markonee, band capace di mischiare con bravura il sentimento sbarazzino dello street/glam a stelle e strisce con un hard rock che ha sempre e comunque affondato le radici in un background di classe. Il concerto si apre proprio con una cover di gran classe – o di “Grand classe” come l'ha definita in modo azzeccato il buon Federico – ovvero niente di meno che una We're an American Band dei Grand Funk Railroad. Da lì è tutto in discesa per il combo bolognese, che coglie l'occasione per presentare diversi pezzi dal proprio disco di debutto, da poco disponibile. Dunque avanti a tutta con i brani di The Spirit of Radio (no, i Rush non c'entrano) tra coretti spensierati alla “Fat Bottomed Girl” a brani più energici. A tirare la band, come nella miglior tradizione rock, è l'accoppiata chitarra-voce, che nei Markonee unisce le doti canore di Gurio alle sei corde di Pera, ormai diventato una sorta di guitar-hero della scena bolognese. Vivaci sul palco, puliti nelle esecuzioni e con una certa dose di carisma, i Markonee danno vita a uno show davvero piacevolissimo. Rock'n'roll!
Rain
(Federico 'Immanitas' Mahmoud)
Quando salgono sul palco i Rain, piccoli grandi eroi della scena bolognese e spalla ormai fedele di Paul Di' Anno, l'atmosfera comincia a surriscaldarsi seriamente. Inutile dire che il ruolo di headliner, complice la toccata e fuga dell'ex-Maiden e il supporto incondizionato del pubblico di casa, spetti virtualmente al combo felsineo. I Nostri rispondono al calore degli astanti con una prestazione che ha nell'energia e nella passione le sue più apprezzate doti, puntualmente ribadite per l'occasione: è su questa base che poggia la scaletta della serata, divisa tra pezzi nuovi (Dad Is Dead e Mr. 2 Words, gustoso antipasto in attesa del seguito di Headshaker) e classici del repertorio, che riconoscono nella dimensione live il loro habitat naturale. Pezzi come la micidiale Blood Sport, Heavy Metal, Viking, Fight For the Power (direttamente dagli Ottanta) e l'anthemica Only For The Rain Crew rappresentano quanto di meglio si possa desiderare da un concerto, tra ritornelli esaltanti, scorribande a metà tra heavy metal e rock & roll e litri di sudore profuso; proprio nell'attitudine genuina e tipicamente figlia dell'Emilia (che ha dato i natali a tanti rocker) i Rain trovano la marcia in più per coinvolgere anche lo spettatore più distratto, inscenando uno spettacolo ad alta gradazione alcolica che ha in Alessio 'Amos' Amorati (chitarra) e Gianni 'Gino' Zenari (basso) gli assoluti protagonisti. In primo piano anche l'ugola halfordiana di Alessandro 'Tronco' Tronconi, le cui indiscutibili doti non sono più una sorpresa, ma una certezza di cui si può difficilmente fare a meno. Che altro aggiungere? I Rain non perdono occasione per assestare l'ennesimo colpo vincente, meritando sul campo l'affetto e la stima di chi li segue così tenacemente un po' in tutto il Paese. Il resto sono chiacchiere.
Children of the Damned
(Alessandro 'Zac' Zaccarini)
Forse sono un patetico sentimentale di un certo modo di intendere la musica, ma vedere una cover band suonare dopo ragazzi come Rain, Markonee e Battle Ram, gente che mette sudore e passione nel tentativo di portare avanti una propria personalità musicale… bhè, mi mette una certa tristezza. I Children of the Damned saranno pure bravi a fare quello che fanno, molto bravi, nessuno lo mette in dubbio, ma l'idea che cercare di emulare una band strafamosa in tutto e per tutto possa valere più della farina che altri ragazzi hanno faticosamente tirato fuori dal proprio sacco con anni di gavetta mi ripugna abbastanza. Il music business, anche nel piccolo di queste serate, purtroppo funziona così, e finché la mentalità dominante sarà questa, e il pubblico preferirà l'ennesima Fear of the Dark o l'ennesima The Trooper piuttosto che sentirsi una band che punta sulle proprie idee, le cose andranno sempre in questo modo. Come già accennato la scaletta è delle più canoniche, nessuna sorpresa e nessun tipo di stimolo se non quello di risentire per l'ennesima volta pezzi che credo chiunque segua il metal da più di qualche mese ormai si trova ovunque e in ogni salsa. I Children of the Damned sono tra i migliori in questo tipo di proposta, questo è fuori discussione, ma a parere di chi scrive, in questa serata il supporto andava riservato ad altri.
Setlist: The Wicker Man / Can I PlayWith Madness / The Trooper / Fear of the Dark / Halloweed Be Thy Name / Run to the Hills.
Paul DiAnno
(Alessandro 'Zac' Zaccarini, Federico 'Immanitas' Mahmoud)
L'esibizione di Di'Anno entrerà probabilmente negli annali come la più breve mai tenuta da un headliner: mezz'oretta o poco più. Chiariamo, mezz'oretta o poco più che è comunque bastata a farci riabbracciare quegli Iron Maiden che ormai sembrano sempre più destinati al dimenticatoio delle nuove e vecchie generazioni, ma sono sempre e comunque 30 minutini. La forma è imparagonabile a quella di venti anni or sono: tra abusi di ogni tipo è difficile mantenere una forma fisica decorosa e tutelare il proprio talento canoro. In ogni caso le scelte di Paul sono state queste e indietro non si può tornare.
L'ossatura dei Children of the Damned rimane, salvo il cambio dietro al microfono e l'innesto di un chitarrista di fiducia di Paul, e si può partire. Si inizia con un'accoppiata da pelle d'oca, due vecchie glorie che formano un ormai consolidato abbinamento di routine nelle aperture delle esibizioni di Paul: Wrathchild e Prowler. Da lì sono solo Iron Maiden e Killers, con una scappatella nella piuttosto opaca carriera solista di Paul (The Beast Arise) e un tributo finale ai grandi Ramones, formazione che DiAnno evoca come la sua preferita di sempre e “la più grande band di tutti i tempi nella storia della musica”. L'ex frontman della Vergine di Ferro ostenta le sue radici punk più volte, riserva parole non proprio simpatiche per la scena hard rock e metal (ehm, Paul, sarebbe un concerto metal questo…) ma il pubblico o non capisce o sembra disposto a passarci sopra… A conti fatti forse è meno disposto a passare sopra all'aver dovuto fare chilometri e aver sborsato per vedere uno show di mezzora. Serata senza dubbio salvata dalle prime tre band, gruppi di cui l'Italia dovrebbe cominciare a essere orgogliosa.
Setlist: Wrathchild / Prowler / Killers / The Beast Arise / Phantom of the Opera / Running Free / Blitzkrieg Bop
[post_title] => Report: Metal Maniac Night - DiAnno e altri (Bologna, 14/5/06)
[post_excerpt] =>
[post_status] => publish
[comment_status] => open
[ping_status] => open
[post_password] =>
[post_name] => report-metal-maniac-night-dianno-e-altri-bologna-14-5-06
[to_ping] =>
[pinged] =>
[post_modified] => 2020-10-16 14:04:20
[post_modified_gmt] => 2020-10-16 12:04:20
[post_content_filtered] =>
[post_parent] => 0
[guid] =>
[menu_order] => 1
[post_type] => post
[post_mime_type] => OK
[comment_count] => 34847
[filter] => raw
)
[17] => WP_Post Object
(
[ID] => 34661
[post_author] => 1132
[post_date] => 2006-05-22 12:11:47
[post_date_gmt] => 2006-05-22 12:11:47
[post_content] =>
Serata per pochi intimi quella che si è svolta ieri sera al Transilvania Live
di Milano. Una platea che ha contato un centinaio di persone (contando forse
anche il personale del locale) ha salutato l'arrivo in Italia degli Hate
Eternal, che a causa di annullamenti e vicissitudini varie si erano fatti
attendere dai sostenitori italiani per lungo tempo. Un'attesa che è stata
ripagata con uno show diretto, brutale e senza fronzoli. Ad accompagnare gli
americani sono stati chiamati i polacchi Shadows Land, i Fall Of
Serenity -autori di due prestazioni che hanno lasciato quasi indifferenti il
pubblico- e gli Spawn Of Possession, a cui va attribuito il merito di
aver risollevato una serata fino ad allora deficitaria.
SHADOWS LAND
Ero abbastanza curioso di vedere all'opera il combo polacco, autore di un
disco altalenante come Ante Christum (Natum), che lasciava però intendere
buone capacità tecniche e compositive da parte dei nostri, in attesa di
ascoltare qualcosa di nuovo dell'ultimo album della band, Terminus Ante
Quem. Certamente il clima dimesso che regnava dentro il locale non avrà
aiutato i ragazzi, ma gli Shadows Land non mi hanno dato l'impressione di
voler accattivarsi l'attenzione del pubblico presente: poche e svogliate parole
di presentazione, poca presenza scenica, e un atteggiamento generale di chi
vuole sbrigare subito la pratica. Anche la musica proposta (resa in modo
insufficiente dagli amplificatori del locale) ha giocato un brutto scherzo a chi
magari non aveva mai sentito parlare di loro: death/black metal molto
frammentato, contorto, pieno (fin troppo) di stop and go, ripartenze... insomma
se anche su disco le impressioni erano quelle di una band intenta a mettere
troppa carne al fuoco senza badare troppo ai contenuti e allo svolgimento dei
brani, dal vivo non ho potuto altro che confermare questa tesi. Quindici minuti
scarsi ed è tempo di lasciare il palco. Bocciati.
FALL OF SERENITY
Poteva mancare il death melodico svedese con le arcinote influenze metalcore?
Con i tedeschi Fall Of Serenity si colma questa grave lacuna e si passa
dalla padella alla brace, con un set che non convince, composto da brani che
hanno tutti del gia sentito e abusato. Almeno i nostri ci mettono molta più
grinta dei polacchi esibitisi in precedenza, con il cantante Renè Betzold
sempre intento a dimenarsi e nel cercare di sollecitare i presenti. Anche a loro
è stato concesso solo un quarto d'ora di tempo circa per accaparrarsi qualche
fan, con uno show tutto sommato dignitoso sotto il profilo dell'energia profusa,
ma a mio avviso di poco spessore artistico. Se qualcuno alla fine del concerto
ha acquistato il terzo e nuovo album dei Fall Of Serenity, Bloodred
Salvation, perchè conquistato dal concerto proposto lo faccia sapere.
Non una grande scelta averli affiancati agli altri gruppi in scaletta. Fino ad
ora una serata da dimenticare... fino ad ora appunto.
SPAWN OF POSSESSION
Un gruppo di ben altra pasta, gli Spawn Of Possession risollevano gli
animi dei presenti con una prestazione che ha letteralmente cancellato chi li ha
preceduti. Tecnicissimi e potentissimi, agli svedesi viene concesso per fortuna
maggior tempo per poter proporre una manciata di brani estratti dal debutto,
Cabinet, e far assaggiare qualcosa del nuovo album Noctambulant.
Niente da dire sulle capacità strumentali di questi ragazzi, ai quali mi sento
di perdonare una presenza scenica un po' poco incisiva. Tutti giustamente
concentrati sui funambolici fraseggi eseguiti con una naturalezza strabiliante.
Unico vero mattatore del concerto dei nostri è il cantante Jonas Renvaktar,
letteralmente scatenato nell'accompagnare con headbanging e cenni d'intensa coi
fan i numerosi passaggi strumentali. Brani lunghi, dinamici, ampiamente
variegati, un death metal estremamente tecnico e violento, che ha messo a dura
prova le articolazioni delle mani dei due chitarristi Jonas Bryssling e
Jonas Karlsson... anche seguendo attentamente con lo sguardo le dita dei
due andare su e giù per la tastiera era sbalorditivo ascoltare la quantità di
note e riff che riuscivano a produrre. Una band di sicuro valore, che ha tutte
le carte in regola per continuare su questa linea e migliorarsi ulteriormente.
HATE ETERNAL
Dopo un rapido sound-check e una breve intro rumoristica, il trio
capitanato da Erik Rutan comincia a mietere vittime, con Two Demons.
Pochi convenevoli da parte dei nostri, che imbracciano gli strumenti e si
preoccupano più a suonare in comunione con la propria musica, piuttosto che a
"far spettacolo". Ma lo spettacolo davanti a musicisti del genere è vedere
eseguire passaggi alla velocità della luce con una naturalezza a tratti
imbarazzante, senza un minimo cenno di tentennamento o qualsivoglia sbavatura.
Il bassista Randy Piro, posizionato sulla sinistra del palco, è il più
mobile (per forza di cose) dei tre, sempre puntuale nelle backing-vocals,
coinvolgente al punto giusto, e preciso nel sostenere i ritmi infernali imposti
dalle sei corde di Rutan. Erik dal canto suo, si lascia
trasportare interamente dalla musica solo nei pochi momenti in cui gli viene
concesso, altrimenti sempre occupato al microfono (che voce!!) e nell'esecuzione
degli assoli; gambe ben divaricate, atteggiamento carismatico e in pieno stile
death metal (o come dovrebbe essere...), quindi scambi di intesa col pubblico
mai troppo calorosi, espressione del viso corrugata e "cattiva". Totalmente
l'opposto di quando si trova in mezzo ai fan, sempre molto disponibile a
scambiare due chiacchiere con chi lo volesse. Per ultimo il nuovo arrivato
Reno Killerich, chiamato a sostituire nel tour europeo il defezionario
Derek Roddy, che per quanto riguarda velocità e precisione non fa certo
rimpiangere il suo predecessore. I pattern di batteria ascoltati nei dischi
vengono riproposti in maniera impeccabile durante l'esibizione, mettendo in
mostra una buonissima intesa con gli altri membri del gruppo. Ad aprire lo show
degli americani è posta Two Demons, estratta dall'ultimo album
I, Monarch,
che come era prevedibile sarà il disco con il maggior numero di brani eseguiti.
Segue poi una terrificante Servants Of The Gods, dal secondo
King Of All
Kings, passando poi per le più recenti The Victorious Reign, To
Know Our Enemies, I, Monarch, Behold Judas ecc...tutte
eseguite fedelmente alla versione in studio, dando spazio anche a
Conquering
The Throne, con la coppia Praise Of The Almighty e Catacombs,
proponendo anche The Obscure Terror e Powers That Be (da King
Of All Kings). Il tutto sorretto da una buona resa sonora, che avrebbe
potuto essere certamente migliore, anche se riprodurre al meglio il muro sonoro
eretto dai nostri non deve essere una cosa semplice. Poche pause tra un brano e
l'altro, poche parole spese, e tanta, tanta sostanza. Unica pecca a cui gli
Hate Eternal potrebbero ovviare è la mancanza di un secondo chitarrista, la
cui assenza si avverte non tanto durante l'intera esecuzione dei brani (vi
assicuro che la potenza sprigionata dalla sola chitarra di Rutan è
impressionante), ma durante gli assoli, in cui la tensione generale cala
lievemente, laddove il basso di Piro non riesce a riempire completamente,
come una chitarra dovrebbe fare, il vuoto di una rythm-guitar. A parte questo
una prestazione esemplare di come si debba suonare brutal ai massimi livelli,
con il giusto atteggiamento, con un grande bagaglio tecnico e con una grande
umiltà. Dico solo che appena finito di suonare Randy Piro è corso come
niente fosse alla bancarella del merchandise (altrimenti rimasta vuota),
ringraziando con ampi sorrisi gli acquirenti accorsi. Band del genere vanno solo
supportate. Così come hanno aperto il concerto, ovvero in maniera dirompente,
così gli Hate Eternal si sono congedati con il pubblico di Milano,
solamente con un "See you next time!", in maniera tanto schietta e
brutale, in pieno stile Hate Eternal.
Stefano Risso
[post_title] => Report: Hate Eternal, Spawn Of Possession, Fall Of Serenity, Shadows Land 21/05
[post_excerpt] =>
[post_status] => publish
[comment_status] => open
[ping_status] => open
[post_password] =>
[post_name] => report-hate-eternal-spawn-of-possession-fall-of-serenity-shadows-land-21-05
[to_ping] =>
[pinged] =>
[post_modified] => 2020-10-16 14:04:21
[post_modified_gmt] => 2020-10-16 12:04:21
[post_content_filtered] =>
[post_parent] => 0
[guid] =>
[menu_order] => 1
[post_type] => post
[post_mime_type] => OK
[comment_count] => 34927
[filter] => raw
)
[18] => WP_Post Object
(
[ID] => 34665
[post_author] => 1132
[post_date] => 2006-05-21 21:22:57
[post_date_gmt] => 2006-05-21 21:22:57
[post_content] => Mayhem - 20 maggio 2006 - Krossower, Scordia (CT)
La prima, storica, volta dei Mayhem in Sicilia, unita alla mancanza di concerti in ambito estremo da circa un anno a questa parte, facevano presagire una buona affluenza, ma non prevedevamo che si creasse una certa confusione di macchine su una strada di solito desolata. Niente incidenti, comunque, nonostante il pessimo stato delle infrastrutture siciliane che, malgrado le continue, demagogiche promesse dei soliti noti, restano insufficienti.
Oltre 600 persone partecipano alla serata, riempiendo il Krossower, come da un po' di tempo non si vedeva; altri disertano, probabilmente perché per loro è uno spettacolo già visto, dato che i Mayhem avevano partecipato all'Agglutination Festival nel 2005. E', comunque, evidente che, quando il gruppo chiamato è conosciuto, il locale si riempie: anche se da parte nostra sarebbe giusto partecipare anche quando suonano formazioni meno note, è normale che chi viene da Trapani, ad esempio, si faccia i conti in tasca due volte, tra costo della benzina e del biglietto, entrambi in crescita, valutando l'offerta proposta.
Alle 23 iniziano i deathster
Spoilshroud da Catania, che iniziano con “The Hyperblasting Armageddon”, seguita da “Extinction of Human Race” e da “Awaken of Thy Father”: tre brani mediamente brevi, ma compatti ed incisivi, che appariranno sul prossimo album “A Portal to Cosmic Decay”. Poco spazio è lasciato all'immaginazione, dato che la band punta tutto sull'impatto: sarà stato il cambio di formazione, o i problemi audio, oppure la durata dell'esibizione, di soli quindici minuti, ma il gruppo appare un po' statico sul palco ed è meno travolgente del solito. Nessun dubbio sull'attitudine, che non manca, ma è probabile che, alla prima esibizione con la nuova formazione, occorra ancora un po' di amalgama.
Intorno alle 23.30 salgono sul palco i
Traumagain da Reggio Calabria, artefici di un death molto tirato, in cui i passaggi tecnici non hanno molto spazio ma, quando occorrono, sono sfoderati discretamente. Anche per loro abbastanza problemi audio, dato che il suono rimbomba parecchio, molto di più che in altri concerti death/black del passato. Il gruppo tiene il palco con esperienza e il cantante riesce a trascinare il pubblico, impresa non facile, ed ottiene risposta in particolare durante la notevole versione di “Territory” dei Sepultura: inizia un furioso headbanging che ha termine solo alla fine del pezzo, quando i musicisti concludono l'esibizione, di circa venti minuti.
L'attesa dell'esibizione dei
Mayhem è interminabile, accompagnata da un fastidioso dj set a base di alternative e nu metal, che nulla dovrebbero avere a che vedere con noi, almeno in teoria, mentre il caldo comincia a farsi sentire impietoso, dato che il locale è quasi pieno e in Sicilia la temperatura si è alzata all'improvviso negli ultimi due giorni.
Verso mezzanotte e mezza appaiono i Mayhem, leggende del black metal, seguiti da un misterioso incappucciato vestito con un saio rosso: è il cantante Attila, che urla nel microfono tutta la sua rabbia, con pessimi risultati, visto che il rimbombo audio è eccessivo, e le prime tre canzoni scorrono tutte uguali, devastanti ma monotone. L'audio migliora leggermente in seguito, restando comunque mediocre, e si riconosce la decennale “Life Eternal”; si passa poi alla storica “Deathcrush” ed è il tripudio, mentre Attila, che si muove molto ed ha imparato qualche bestemmia in italiano, per il visibilio degli irriducibili, appare visibilmente compiaciuto. Tra gli altri pezzi, ricordiamo poi “Ancient Skin”, durante la quale il cantante toglie il saio, probabilmente per il caldo, ma la sua tenuta scenica borchiata rimane intatta, anche se ogni tanto, forse, esagera con il divismo e l'autocompiacimento. La canzone migliore, a nostro parere, è certamente “Freezing Moon” che, pur rovinata dall'audio, lascia spazio alla tecnica con il buon assolo del chitarrista Blasphemer che, insieme al discreto bassista Necrobutcher, appare un po' defilato sul palco, dominato da Attila; il cantante propone, nelle canzoni terminali, effetti vocali con il microfono, che putroppo producono solo gorgoglii incomprensibili, mentre il batterista Hellhammer tiene ritmi forsennati e trascinanti. La chiusura è affidata a “Pure ***** Armageddon”, con cui i norvegesi lasciano il palco dopo meno di un'ora e senza bis che, in fondo, avrebbero spezzato l'impatto e la devastazione sonora.
In conclusione, il pubblico ha risposto ammirevolmente alla chiamata metallica, ma è stato il metallo a mancare parzialmente all'appuntamento. Far suonare i due gruppi spalla per così poco tempo (supponiamo che ciò sia avvenuto per lasciare lo spazio ai divi) non limita le loro potenzialità? Un audio di tal genere, il peggiore a nostra memoria, è normale quando si parla di una band di livello internazionale? Lasciare il palco dopo neanche un'ora, in un contesto audio dove c'è stato più rumore che musica, è attitudine black metal o è solo approfittare della pazienza degli spettatori? Non siamo soliti lamentarci degli spettacoli, ma ci immedesiamo nella buona parte dei presenti che, essendo composto da studenti e lavoratori e non da ladri o parassiti mantenuti, avrebbe meritato qualcosa di più, visto che non tutti erano supporter dei Mayhem accecati dal fanatismo, pertanto disposti a perdonare qualsiasi cosa ai loro idoli.
Ringraziamo, comunque, gli organizzatori della Nihil Productions perché, nonostante tutto, la sempre dimenticata Sicilia ha vissuto un'altra serata di respiro europeo, e il Krossower, per la disponibilità del locale. Speriamo, come sempre, in altri concerti futuri, magari dando spazio ai settori heavy metal che in Sicilia, chissà perché, continuano ad essere discriminati (come il gothic, l'epic, il thrash o il doom). Se per una volta fossero i blackster ad aprire le menti, a “sopportare” qualcosa di minore impatto, ma di maggior qualità tecnica, ed a capire che l'heavy metal è unico ed indivisibile?
Giuliano Latina
[post_title] => Report: Mayhem al Krossower di Scordia (CT)
[post_excerpt] =>
[post_status] => publish
[comment_status] => open
[ping_status] => open
[post_password] =>
[post_name] => report-mayhem-al-krossower-di-scordia-ct
[to_ping] =>
[pinged] =>
[post_modified] => 2020-10-16 14:04:22
[post_modified_gmt] => 2020-10-16 12:04:22
[post_content_filtered] =>
[post_parent] => 0
[guid] =>
[menu_order] => 1
[post_type] => post
[post_mime_type] => OK
[comment_count] => 34931
[filter] => raw
)
[19] => WP_Post Object
(
[ID] => 34896
[post_author] => 1132
[post_date] => 2006-05-04 21:52:34
[post_date_gmt] => 2006-05-04 21:52:34
[post_content] =>
Dopo la reunion, dopo il Gods of Metal, dopo la data di luglio... gli Anthrax, quelli veri, tornano in Italia. Risultato? NICE. FUCKIN'. LIFE.
Live Music Club, Trezzo d'Adda (Milano) – 28 aprile 2006
In previsione del lungo weekend che si avvicina e dell'oscenità di traffico che si profila sulla tangenziale di Milano, decido di mettermi in movimento nel primo pomeriggio, con la mia vecchia Opel Ascona, la “rock car” mia fedele compagna di tanti viaggi e di tanti concerti: in tal modo riesco a limitare i danni, sorbendomi qualche coda peraltro sopportabile, ma arrivando al Live in tempo per assistere al sound check della band di supporto. Con piacere rivedo i miei amici della Niji Management, alle prese con le ultime date di questo lungo Tour europeo. I ragazzi stanno già pensando all'organizzazione dell'imminente Dio Tour europeo, ma questo è un altro discorso e non vorrei andare subito fuori tema!
Ogni tanto, nell'attesa, dall'alto di una scala esterna di emergenza do un'occhiata fuori e vedo arrivare, a frotte, metal trashers in tenuta nera di ordinanza che affollano la zona antistante alla cassa, mentre il cielo diventa scuro e minaccioso. Verso le 21.30 il locale è già quasi completamente gremito. Verso le 22.00 fa il suo ingresso la prima band della serata, ovvero Beyond Fear; ecco la line-up:
- TIM RIPPER OWENS voice
- JOHN COMPRIX lead guitar
- DWANE BIHARY rhythm guitar
- DENNIS HAYES bass
- ERIC ELKINS drums
L'eroe del momento è lui, T.Ripper! I più maligni fra i lettori non leggano “tripper” insinuando, così, che il mio sia un modo subdolo per sottolineare la “forma” fisica di Owens! Va detto che, a un aspetto sinceramente un po' appesantito, fa riscontro l'ottima forma delle sue corde vocali, senza dubbio in gran spolvero, come peraltro ebbi già modo di notare durante le prove.
Tim canta proprio alla grande, non c'è che dire, conducendo i suoi compagni durante un'ora scarsa di metal tosto, a ritmo alquanto sostenuto, con le sue tipiche movenze che lasciano intendere una quantità enorme di energia che pare esplodere da un momento all'altro. Benché i suoni non siano una meraviglia, risultando anzi piuttosto “impastati” (chissà come mai questo fenomeno è così ricorrente: mistero!), la band offre una prestazione di ottimo livello, con note di merito per il drummer (preciso e velocissimo) e per John Comprix, chitarrista dalla buona tecnica, il quale (ma non c'entra nulla con la musica) nell'aspetto mi ricorda il fratello minore di Alexis Lalas, primo giocatore di calcio americano importato in Italia (che, guarda caso, suonava pure lui la chitarra). C'è un gruppetto di fans, proprio davanti a me. Uno di loro si gira e, forse perché mi aveva visto in precedenza parlare con il tour manager, mi chiede: “Ripper is English or American?”. Rispondo: “He is American” e poi mi domando per quale motivo io stia parlando in inglese con altri italiani. Mah!?
Osservo Ripper e non posso fare a meno di pensare, istintivamente, alla sua particolare (e per molti versi assolutamente invidiabile) storia, che lo portò – da sconosciuto cantante di una tribute band – ad assurgere a famoso vocalist dei suoi idoli (Judas Priest, a beneficio di quei pochi che non lo sapessero) e che per questo motivo ha ispirato lo straordinario film “Rock Star”. Il repertorio che ci viene proposto abbraccia un periodo di tempo che riguarda, appunto, i Judas' e poi gli americani Iced Earth (ricordiamo il buonissimo album “The Glorious Burden”, grondante sangue e metallo, gloria e onore, nel rispetto della più rigida tradizione power), per finire con quest'ultimo suo progetto, Beyond Fear, il cui esordio avvenne nel 2005 in occasione del Monterrey Metal Fest, in Messico. Mi viene a questo punto un'idea: perché non organizzare un “Fear Festival” con la partecipazione di: Primal Fear, Fear Factory, Raising Fear e Beyond Fear? A parte questa battutaccia (sarà la stanchezza che ormai comincia a farsi sentire…), fra le canzoni cito, a memoria, BURN IN HELL, ONE ON ONE, RED BARON e SCREAM MACHINE. In definitiva, direi che la performance è nel complesso ottima, suggellata dall'intensa partecipazione di un pubblico tanto giovane quanto preparato!
È il momento di rifocillarsi con una birra: la zona del bancone sembra l'ufficio postale vicino a casa mia a fine mese, regolarmente preso d'assalto dai pensionati come Fort Alamo! A proposito di pensionati: guardandomi attorno devo ancora una volta prendere atto, purtroppo, del fatto che sono sempre il più vecchio in mezzo a questa folla di metallari; un giorno o l'altro incontrerò mia figlia ad un concerto: spero solo di non trovarla in compagnia di qualche derelitto!
Sono quasi le 23.00 e i preparativi sul palco sono terminati: ecco le note dei BLUES BROTHERS, che fanno da intro a quei burloni degli Anthrax, i quali arrivano uno a uno accompagnati, ciascuno, da un'ovazione.
- JOEY BELLADONNA voice
- DAN SPITZ lead guitar
- SCOTT IAN rhythm guitar
- FRANK BELLO bass
- CHARLIE BENANTE drums
Mi avvicino, facendomi largo tra la folla già scatenata ai massimi livelli: miracolosamente riesco ad arrivare fino alle transenne del lato sinistro del palco, senza riportare danni fisici a causa del pogo scatenato messo in pista da qualche centinaio di esagitati. I nostri eroi sono in forma smagliante e sprizzano energia da tutti i pori, specie il frontman, che agita la chioma corvina ammiccando come di consueto ed interagendo con le prime file, mostrando tutto il repertorio delle sue classiche espressioni cartoonesche.
Do uno sguardo panoramico e noto una partecipazione pazzesca e totale: durante AMONG THE LIVING e poi GOT THE TIME, ma soprattutto durante l'esecuzione di vecchi successi del passato quali METAL THRASHING MAD e ANTISOCIAL, ciascuno scatena i propri istinti ancestrali e mi rendo conto che la musica degli Anthrax è proprio la molla giusta per tirare fuori questa sorta di energia primordiale. La band propone con grande mestiere, una dopo l'altro, i momenti più significativi di una lunghissima e gloriosa carriera: AIR, NFL, CAUGHT IN A MOSH, DEATHRIDER, e ancora (cito a memoria) I AM THE LAW, e poi la storica BE ALL, END ALL, per il puro godimento degli aficionados. Tra i pogatori osservo un esemplare di metallaro un po' datato, brevilineo e tarchiato, dall'età apparente di 35/40 anni, con occhiali spessi e pelatina tipica da impiegato del catasto: indossa un giubbotto di jeans molto vissuto e completamente borchiato, bracciali di cuoio rigorosamente borchiati che contrastano con i suoi lineamenti così poco metal. Col suo viso imperlato di sudore e gli occhiali appannati, salta e si dimena come un ossesso in preda al classico delirio da concerto. Ad un certo punto Belladonna, dopo essersi asciugato il sudore per l'ennesima volta, lancia l'asciugamani verso di me; istintivamente mi scanso, mentre il metal-impiegato ed altri tre assatanati si lanciano sulla preda come squali affamati. Ciascuno di loro tira a due mani il cimelio verso di sé e il gruppetto ondeggia in ogni direzione: un pogo nel pogo, un microcosmo nel macrocosmo! Nessuno intende cedere e nessuno molla la presa: never surrender! – direbbero i Saxon. Decido di disinteressarmi dello show sul palco, per assistere a questa lotta fra predatori degna del National Geographic Channel. Il tira e molla dura la bellezza di dieci minuti, fino a quando il pelato occhialuto (evidentemente l'individuo più evoluto del branco) estrae un temperino e lacera l'asciugamano, accontentando così ogni componente del quartetto, che può finalmente esibire con orgoglio l'anelato trofeo ai propri simili, suscitando in loro sentimenti di pura invidia.
Terminato questo delizioso siparietto, riprendo a occuparmi del concerto e faccio alcune riflessioni sui componenti di questa immarcescibile band. Charlie è tanto regolare e preciso, quanto pesante e massiccio nel suo drumming incessante. Scott è una vera macchina da guerra, tanto da essersi guadagnato degnamente la fama di migliore chitarra ritmica del metal. Frankie si distingue per la sua energia inesauribile e per un suono di basso molto presente, direi “secco”, essenzialmente metal, che ha pochi eguali al mondo. Danny è certo poco appariscente, ma tremendamente incisivo nel suo apporto: i movimenti lenti del capo, gli sguardi penetranti hanno un qualcosa di ieratico. Joey, infine, è un istrione irriducibile, molto tamarro nei suoi atteggiamenti, ma di immediata presa emotiva e di enorme simpatia. Per tutta la durata del concerto il pentolone della folla non ha mai cessato di ribollire di pogo; gli episodi di “people surfing”, poi, si sono succeduti con regolare costanza, per la gioia degli addetti alla sicurezza. Una nota di demerito va alla security, che nell'occasione non è stata in grado impedire l'irruzione di uno scalmanato che è riuscito a salire sul palco per abbracciare l'esterrefatto Joey!
La conclusione dello show si traduce in un meritato trionfo per i cinque protagonisti di questa serata. Ho la schiena a pezzi e avrei bisogno di un bel massaggio, ma ho anche un appuntamento da non perdere: l'after-show. Ho subito l'occasione di fare i complimenti a Joey per la sua “conquista” sul palco, ben conoscendo i suoi gusti di tutt'altro tipo e scatenando, così, la sua ilarità. Ci scambiamo poi qualche considerazione sulla serata e sul successo della band: l'inossidabile voce della band, che indossa una maglietta nera con il numero 8 ed il cognome stampato sul retro, ostenta una buona forma fisica e saltella come un grillo, più dinamico che mai. Scherziamo sul fatto che – a causa del tempo infelice – non abbiamo avuto la possibilità di stare spaparanzati al sole, come l'anno scorso in Grecia, in occasione del Rockwave Festival. A parte le battute, Joey si dichiara molto soddisfatto di questo tour che volge ormai al termine: tanta gente e tanto entusiasmo dovunque, insomma è indubbio che gli Anthrax stiano attraversando un ottimo momento.
Con grande piacere riabbraccio Dan Spitz, in camicia bianca, completamente rilassato dopo uno show che l'ha soddisfatto. Anch'egli si dice contento dell'andamento generale della tournée, la quale avrà una sua logica continuazione negli States. Dopo di che ci sarà un meritato periodo di riposo per tutti. Magari sarà l'occasione per tornare in Italia, visto che Danny è un fan del nostro Paese. Di seguito una breve intervista molto informale con l'ascia degli Anthrax:
Allora, Dan, come hai trovato il Duomo?
Magnifico, come sempre. E' la terza volta che lo vedo, ma non mi stancherei mai di ammirare il Duomo, con quella fantastica architettura.
L'hai ammirato così tanto, che hai perso addirittura il treno per tornare al locale?
Ah ah! Guarda: io, Tim e gli altri (Beyond Fear, ndr) stavamo prendendo il treno, quando si sono chiuse le porte e così non siamo riusciti a salire a bordo. E dopo le 18.00 non ci sarebbero più stati altri treni, a causa dello sciopero, per cui abbiamo dovuto chiamare qualcuno per venire a prelevarci.
Allora: ho visto che siete tutti in grande forma. Toglimi una curiosità: quando non siete in tour, quante prove fate alla settimana?
Prove? Mah… forse una. Non servono tante prove… Vedi, ormai abbiamo un affiatamento tale e, soprattutto, la musica nel sangue. Il che ci permette di trovarci, anche dopo molto tempo, e di suonare come se fossimo stati in sala prove la sera prima!
Davvero, in un certo senso ti capisco. Quando a Londra Doug Aldrich mi ha rivelato che, per prepararsi alla parte finale del tour con Ronnie James Dio, ha avuto soltanto una settimana di tempo, sono rimasto a bocca aperta.
Infatti. Siamo gente con la musica nel sangue, eh eh! Quello che conta è la mano destra!
La mano destra? Pensavo la sinistra… A proposito di mani, come va la tua attività di orologiaio?
Bene, grazie. I miei laboratori (uno a New York, l'altro a Las Vegas, ndr) funzionano alla grande e la mia passione continua; come sai, fin da giovanissimo avevo la mania di aggiustare orologi e, quando ne ho avuto la possibilità, mi sono preso quel prestigioso diploma in Svizzera e mi sono buttato in questa attività che mi ha dato e mi dà un sacco di soddisfazione!
Ma come fai a trovare il tempo di suonare, tra un Rolex e un Panerai?
Il tempo si trova: come ti avevo detto, mi piace molto suonare nei club e quando c'è la possibilità non mi tiro indietro, la cosa mi diverte sempre.
Già. Il puro piacere di suonare. Per te è sempre stato così, giusto?
Esattamente. Fin dagli inizi della carriera, tutte le mie esperienze, a cominciare dai Judas' Priest per un brevissimo periodo, poi Overkill e infine Anthrax, sono sempre state contraddistinte da una grande passione che mi animava. Ma dimmi, piuttosto: come sta Ronnie? Vedo che hai sempre il tuo plettro marchiato Dio al collo!
Ehhh… Ronnie: non lo vedo da ottobre dell'anno scorso, in occasione del concerto di Londra!
Sai che in Internet si parla di una sua reunion con i Black Sabbath? Da parte mia ti posso dire che ci sono stati dei contatti tra Toni Iommi e lo stesso RJD, per una collaborazione in un paio di canzoni. Certo che sarebbe fantastico se riuscissero a concepire… “Heaven and Hell 2”!
Mah… ho avuto notizia dell'incontro, però sinceramente mi sa che questo progetto rimarrà un sogno! E, sempre a proposito di Black Sabbath, come sta tuo fratello? (ndr: si tratta di Dave “the Beast” Spitz, bassista fra l'altro di White Lion, Impellitteri, Great White, nonché dei Black Sabbath, appunto, dal 1985 al 1987, partecipando a “Seventh Star”, “Eternal Idol”, “Sabbath Stones”)
Bene, grazie. Da qualche mese ha aperto uno Studio Legale indipendente, in Florida, e la sua attività sta procedendo alla grande.
E la tua famiglia?
Bene, grazie; anzi, mi fai ricordare che ora devo chiamare mia moglie. Accomodati pure, arrivo tra poco.
No, fai pure, Danny. Ti lascio tranquillo. Spero di vederti presto…
Guarda. io e mia moglie abbiamo intenzione di organizzare una vacanza in Italia. Ti farò sapere.
Ok, se me lo dici in tempo farò dare una spolverata al tuo amato Duomo, ah ah!
Tieni: questo è un regalo per la tua bimba.
Oh, un plettro bucato! Ma la tua firma?
E' sul retro.
Ah, sì. Proprio come sulla cassa di uno dei tuoi orologi.
Dopo l'ultimo abbraccio a Dan, mi trascino con la schiena a pezzi verso l'uscita, scendo le scale, do un saluto al manager che sta cercando di infilarsi nel tour bus (la sua stazza è notevole) e mi dirigo verso la mia cra vecchia Opel, rimasta sola in mezzo alle intemperie; per raggiungerla devo dribblare un esemplare di metallaro completamente ubriaco, esile come il suo chiodo, che sta vagando nel piazzale dalle 16.00 del pomeriggio, bofonchiando discorsi incomprensibili persino a se stesso. Credo che non sia neppure riuscito ad entrare e vedersi il concerto..!
Finalmente salgo a bordo e mi metto alla ricerca del casello autostradale: una vera impresa, considerati i lavori in corso e le interruzioni. Sono le 3.30 e mi sento un po' stordito a causa del volume devastante sprigionato dalle casse alle quali sono stato, praticamente, quasi incollato durante il concerto, per evitare il pogo! Per fortuna domani è sabato! Cosa non si fa in nome del Rock!!!
Tempo Rock, Gualtieri (Reggio Emilia) – 29 aprile 2006
Se c'è qualcosa che non è mai mancato agli Anthrax, presa qualsivoglia incarnazione, si tratta senza dubbio della micidiale potenza di fuoco con cui i Nostri devastano regolarmente il (malcapitato) pubblico di turno. Non fa eccezione la serata di Gualtieri, che riporta in Emilia lo stesso terremotante spettacolo apprezzato un anno prima al Gods Of Metal bolognese: uno show unicamente a base di vecchie glorie, in testa Among The Living, per la gioia dei nostalgici ma anche di coloro che, all'anagrafe, vent'anni fa ignoravano nella loro innocenza le gesta della formazione di New York. A onor del vero, negli undici mesi intercorsi Ian e soci hanno ulteriormente aggiustato il tiro, affinando un'intesa già pregevole nelle precedenti uscite; ciliegina sulla torta la prestazione di Joey Belladonna, che tra una lampada e l'altra ha recuperato un certo smalto, anche e soprattutto dal punto di vista canoro (se non altro in termini di resistenza).
Per la cronaca il sipario si apre con i Beyond Fear, neonato progetto di Tim ‘Ripper' Owens – già sostituto di Rob Halford nei Judas Priest e voce attuale degli Iced Earth – impegnato nella promozione dell'omonimo debutto. Dal vivo resta l'impressione di un prodotto incompleto, che pesca dalla tradizione ottantiana ma affoga tutto in suoni distorti e pastosi, al punto da sprecare letteralmente l'ugola eccezionale di Owens; buone idee affiorano qua e là da The Human Race e Scream Machine (probabilmente il brano più efficace, nella sua semplicità, di un album piuttosto controverso), ma è all'ascolto di One On One e Blood Stained – dal catalogo priestiano – che si registrano le reazioni più calorose degli astanti. Elemento che, tenendo conto della relativa e diffusa repulsione verso l'era-Ripper, la dice lunga sull'effettiva bontà del materiale proprio. Le vendite e i commenti entusiastici di certa stampa sembrerebbero però premiarne la (fantomatica) freschezza… Misteri!
I presenti – almeno una decina di volte più numerosi di quelli che avevano presenziato lo show di Jon Oliva esattamente sette giorni prima – cominciano l'esodo per guadagnarsi i posti migliori. Tra grandi manovre collettive la pista centrale del Tempo Rock si riempie di una fauna piuttosto variegata: dal convinto thrasher con pantaloni attillati e giubbetto di jenas ricolmo di trofei, a personaggi usciti da aree musicali e culturali ben diverse; dall'alternativo al crossover. Fortunatamente la scaletta darà ragione ai primi (quelli con i jenas aderenti e il giubbetto smaniato, per intederci). A questo punto, il pubblico che ha osato sfidare le trame stradali della pianura padana si trova a fronteggiare il vero unico grande problema della serata: un allestimento poco felice del palcoscenico, allo stesso livello del pubblico, che ha garantito una discreta visibilità solo alle prime file, costringendo gli sfortunati possessori di un'altezza sotto i 175 centimetri a intravedere soltanto (per non dire ‘intuire') gli eventi che prendevano forma sul palcoscenico.
Mezz'ora abbondante ed è il turno degli acclamati eroi, quegli Anthrax capaci di stipare il Tempo Rock con relativa facilità, a testimonianza del rinato interesse per certe, immortali, sonorità. La partenza è al cardiopalma, con la (pur prevedibile) doppietta Among The Living - Metal Thrashing Mad a scatenare la bolgia nella discoteca reggiana: ottimi i suoni sin dalle prime battute e combo newyorkese in piena sintonia. Il resto è all'altezza di un ipotetico best-of, con le immancabili Got The Time, Caught In A Mosh, Antisocial, NFL e gli innesti mirati di Skeleton In The Closet e Madhouse (che ha preso in controtempo chi si aspettava A.I.R.) a confermare, qualora ce ne fosse bisogno, l'ottimo stato di forma esibito dal quintetto statunitense. Promossi tutti, dal figliol prodigo Dan Spitz (che a una velata indifferenza ha contrapposto il suo tocco insostituibile) alla premiata ditta Ian/Bello/Benante, pacchetto ritmico tra i più devastanti della storia del genere. Su Belladonna si sono già spese parole di meritato elogio: basterà aggiungere in questa sede una nota sulla grande simpatia che da sempre contraddistingue il cantante italo-americano, che, a fronte di qualche posa equivoca, sa sempre come intrattenere i paganti, specie con qualche espressione colorita. O, come più si addice a un vocalist di razza, graffiando come ai vecchi tempi sulle note di Indians, assoluto masterpiece nella discografia targata Anthrax. Il brano chiude la prima, intensissima parte del set e concede una rapida boccata d'ossigeno prima del rush finale, affidato a Be All, End All, I'm The Man (divertente, accolta con una certa perplessità e con nessuno scambio di ruoli) e il manifesto conclusivo I'm The Law. Se i titoli si commentano da sé, non ci rimane che documentare l'ennesima prova di carattere e professionalità da parte di una band, che, per quanto negli anni sia spesso incorsa nelle ire dei più affezionati tradizionalisti (nella cui schiera non esitiamo a presenziare), dal vivo non ha mai deluso nessuno.
Si poteva sperare in uno show più lungo, si poteva bramare il rientro in setlist di un brano come Armed & Dangerous, si poteva chiedere qualcosa di più da Persistence of Time… ma resta il fatto che rinunciare a tale spettacolo ha il sapore del masochismo.
Setlist:
Among the living
Metal Thrashin' Mad
Got the time
Caught in a Mosh
Madhouse
Skeleton in the closet
Anti Social
NFL
Medusa
Indians
---
Be All and All
I'm the Man
I'm the Law
Per la data di Trezzo d'Adda: Marcello Catozzi
Per la data di Gualtieri: Federico ‘Immanitas' Mahmoud e Alessandro ‘Zac' Zaccarini
[post_title] => Report: Anthrax (28-29/04/2006 - Milano e Reggio Emilia)
[post_excerpt] =>
[post_status] => publish
[comment_status] => open
[ping_status] => open
[post_password] =>
[post_name] => report-anthrax-28-29-04-2006-milano-e-reggio-emilia
[to_ping] =>
[pinged] =>
[post_modified] => 2020-10-16 14:04:22
[post_modified_gmt] => 2020-10-16 12:04:22
[post_content_filtered] =>
[post_parent] => 0
[guid] =>
[menu_order] => 1
[post_type] => post
[post_mime_type] => OK
[comment_count] => 35162
[filter] => raw
)
)
[post_count] => 20
[current_post] => -1
[before_loop] => 1
[in_the_loop] =>
[post] => WP_Post Object
(
[ID] => 32328
[post_author] => 1132
[post_date] => 2006-11-11 00:56:08
[post_date_gmt] => 2006-11-11 00:56:08
[post_content] => TrueMetal ringrazia ImagoLive (
www.imagolive.com) per la gentile concessione delle foto. (Cliccare sulle immagini per ingrandirle)
Macbeth + Soul Takers @ Transilvania Live di Milano
13 Ottobre 2006
SOUL TAKERS
MACBETH
[post_title] => Fotoreport: Macbeth e Soul Takers a Milano
[post_excerpt] =>
[post_status] => publish
[comment_status] => open
[ping_status] => open
[post_password] =>
[post_name] => fotoreport-macbeth-e-soul-takers-a-milano
[to_ping] =>
[pinged] =>
[post_modified] => 2020-11-16 11:41:31
[post_modified_gmt] => 2020-11-16 10:41:31
[post_content_filtered] =>
[post_parent] => 0
[guid] =>
[menu_order] => 1
[post_type] => post
[post_mime_type] => OK
[comment_count] => 32594
[filter] => raw
)
[comment_count] => 0
[current_comment] => -1
[found_posts] => 1649
[max_num_pages] => 83
[max_num_comment_pages] => 0
[is_single] =>
[is_preview] =>
[is_page] =>
[is_archive] => 1
[is_date] =>
[is_year] =>
[is_month] =>
[is_day] =>
[is_time] =>
[is_author] =>
[is_category] => 1
[is_tag] =>
[is_tax] =>
[is_search] =>
[is_feed] =>
[is_comment_feed] =>
[is_trackback] =>
[is_home] =>
[is_privacy_policy] =>
[is_404] =>
[is_embed] =>
[is_paged] => 1
[is_admin] =>
[is_attachment] =>
[is_singular] =>
[is_robots] =>
[is_favicon] =>
[is_posts_page] =>
[is_post_type_archive] =>
[query_vars_hash:WP_Query:private] => de3e0f4780c93b30c24ef5e5e79e5039
[query_vars_changed:WP_Query:private] => 1
[thumbnails_cached] =>
[allow_query_attachment_by_filename:protected] =>
[stopwords:WP_Query:private] =>
[compat_fields:WP_Query:private] => Array
(
[0] => query_vars_hash
[1] => query_vars_changed
)
[compat_methods:WP_Query:private] => Array
(
[0] => init_query_flags
[1] => parse_tax_query
)
)
-->