Report: 60/70 Rock Band
Report di Marcello Catozzi
Torino – Corner House: 16 settembre 2005
Le recenti notizie circolate fra gli appassionati e gli addetti ai lavori,
relative all’inatteso “split” verificatosi all’interno
dei 60/70, vale a dire una delle “tribute – band” più
storiche e gloriose, mi hanno sinceramente inquietato ed è per questo
motivo – oltre all’indubbio piacere di riascoltare dei musicisti
di assoluto valore – che decido di farmi un viaggio alla volta di Torino
per assistere, dopo un po’ di tempo, al concerto della famosa 60/70 Rock
Band, leggermente rimaneggiata rispetto alla formazione originaria.
Arrivo al Corner House in tempo per gustarmi una classica accoppiata pizza
& birra e scambiare quattro chiacchiere con gli amici della band. Il che
mi consente di soddisfare, soprattutto, la mia fame… di notizie in merito
alla divisione venutasi a creare all’interno di questo gruppo dopo tanti
anni di onorata militanza.
Ci facciamo un’amichevole e interessante chiacchierata, quindi giunge
il momento di lasciare la parola al Rock, quello vero, sano e genuino. I ragazzi
vanno a cambiarsi e, a questo punto, mi chiedo se Roberto (il bassista) sfoggerà
anche stasera una delle sue classiche “mise” anni 70 alle quali
è tanto affezionato!
Nel giro di pochi minuti il quintetto prende possesso del palco. La line-up
è la seguente:
• Piero Leporale: voce
• Fabrizio Fratucelli: chitarra
• Roberto Cassetta: basso
• Mirko Melis: tastiere
• Renzo Coniglio: batteria
Do
uno sguardo panoramico e constato che il locale è gremitissimo: l’attesa,
in effetti, era davvero grande, considerati gli eventi extra musicali che hanno
preceduto l’evento; del resto, nei giorni scorsi sui vari forum di Deep
Purple – fans e altri siti specializzati si sono sprecati gli interventi,
i comunicati, i commenti e le diverse smentite, ufficiali o meno, sulla triste
“querelle” riguardante i 60/70. Ma confesso che – dopo aver
io stesso temuto per la fine di questo blasonato gruppo, che tanto ha dato in
più di vent’anni di carriera – una sottile e rassicurante
vena di soddisfazione mi pervade, osservando Fabrizio, Piero e Roberto “on
stage”, nonostante gli accennati rivolgimenti. Here we go, si comincia!
L’inconfondibile voce di Piero annuncia la prima di una lunga serie di
canzoni che ci faranno sicuramente sognare, come sempre.
Con Highway Star si entra subito nell’atmosfera giusta. Il suono è
fedelissimo all’originale ed il ritmo impresso da Renzo trascina i cinque
in un’esecuzione che definirei perfetta. L’ugola di Piero si scalda
quanto basta per affrontare la prossima Might Just Take Your Life, vivace, ritmata
e smaccatamente “purpleiana” nella sua essenza e quindi nel sound,
che permette al timido Mirko (non va dimenticato che si tratta della prima volta
in cui si cimenta nel “Deep Purple tribute”) di mettersi in luce
con le sue tastiere ben impostate, direi quasi “heavy” nella circostanza.
La gente applaude calorosamente, dimostrando di aver gradito l’approccio.
Il calore è al massimo, in tutti i sensi, sia come temperatura microclimatica
che come partecipazione. Sul mega schermo e sui monitor disseminati intorno
alla sala scorrono vecchie immagini dei Deep Purple e si alternano scene di
un famoso concerto del 1972, in bianco e nero, con altre più recenti,
a colori, a testimonianza del “sacro fuoco” di un mito che non accenna
a spegnersi nonostante il trascorrere degli anni. Gli occhi si posano, a volte,
su quelle immagini che costituiscono un magico trait d’union tra passato
e presente: le dita di Fratucelli scorrono sulla tastiera proprio come i polpastrelli
di Blackmore e ci regalano emozioni non meno intense di quelle provate alcuni
lustri or sono.
Gli stacchi iniziali preannunciano ora la notissima Strange Kind Of Woman, in
cui il quintetto mette in mostra un affiatamento a dir poco stupendo. Il famosissimo
duetto voce – chitarra ci riporta ai tempi di “Made in Japan”
ed è in questi momenti che sentiamo il piacere di essere saliti sull’ascensore
del tempo per approdare in quel glorioso decennio… Nella chiusura il volume
degli strumenti gareggia con l’intensità degli applausi e delle
urla di approvazione.
L’ascensore si ferma al piano dell’era Coverdale/Hughes, con la
tiratissima Stormbringer, nella quale le corde vocali di Piero danno un saggio
della loro estensione. Lo stesso discorso vale per Lady Double Dealer, sparata
a velocità supersonica. Con la rabbia e la grinta che ci mettono, sembra
quasi che questi 60/70 ci tengano a ribadire che i veri Deep Purple sono loro!
A proposito di “magic moments”, Child In Time suggella una performance
di grandissimo livello: i nostri sguardi si posano di tanto in tanto, con un
velo di nostalgia, sugli schermi che proiettano un giovane Ian Gillan ed a maggior
ragione ci godiamo la fantastica voce di Piero che si sposa alla perfezione
con gli struggenti assoli di Fabrizio!
Quest’atmosfera di magia non ci abbandona, ma anzi ci pervade interamente,
con le note di Perfect Strangers, splendida canzone con improvvisi cambi di
ritmo e impennate che esaltano le qualità dei musicisti sul palco. Il
pubblico è veramente preso dall’entusiasmo; un corpulento fan con
canottiera mimetica si agita in prima fila, in piena “trance” da
concerto e si vede proprio che fa una fatica bestiale a non salire sul palco
per abbracciarsi chitarrista e drummer. Per loro fortuna, Dr. Jeckyll prevale
su Mr. Hyde: l’energumeno resta al suo posto e le sue ascelle in ebollizione
rimangono a distanza di sicurezza!
Con Mistreated, caratterizzata da una piacevole “intro” fratucelliana
impregnata di sano blues, sono io ad andare in “trance” e mi godo
in pieno questa immortale e meravigliosa canzone che ogni volta riesce a scuotermi
lo stomaco (altro che pranayama!), in particolare il lungo assolo centrale di
chitarra, che mi manda letteralmente in estasi; alla fine mi accorgo però
di non essere il solo a sentirmi così gratificato, giacché tutti
quanti esplodiamo in un’ovazione che pare non avere fine.
Piero ci invita allora ad intonare il coro di Black Night, e così cantiamo
tutti insieme a lui ed accompagniamo la band nell’esecuzione di quest’altra
pietra miliare della storia del Rock. La partecipazione è totale.
La scelta della set-list si rivela molto oculata, visto che ora è la
volta della commovente When A Blind Man Cries: la voce di Piero si intreccia
con le corde della Fender in un gradevole connubio di melodia e potenza, per
la gioia di tutti i presenti.
Anche la successiva Space Trucking evidenzia un ottimo “gioco di squadra”,
ben finalizzato dagli acuti del “bomber” Piero Leporale, che pare
davvero inesauribile. Smoke On The Water costituisce la ciliegina sulla torta
finale e consente al pubblico di partecipare al coro, urlando a squarciagola
il ritornello. A questo punto quelli delle prime file (compreso l’uomo
dalle ascelle di fuoco) perdono quei “freni inibitori” che hanno
finora impedito loro di saltare sul palco e si lanciano, finalmente, ad abbracciare
Fabrizio, Piero e Renzo (peraltro protagonista di un breve ma piacevole drum
– solo). Il resto della gente non si accontenta e pretende almeno due
“bis”. Ed eccoci subito premiati, con Difficult To Cure, vale a
dire la famosa “9a Sinfonia” di Ludwig van Beethoven, che Ritchie
Blackmore ha sapientemente adattato con geniale originalità alle corde
della sua straordinaria sei corde. Fabrizio si trova perfettamente a suo agio
con questo pezzo classico tradotto in versione rock e le falangi della sua mano
sinistra scorrono su e giù per la tastiera con eccezionale maestria.
A seguire: l’indimenticabile Burn, trascinante ed esplosiva, che chiude
nel modo migliore questa serata. O almeno, così dovrebbe essere, perché
– a quanto pare – il pubblico non se ne vuole andare e costringe praticamente
la band a restare sul palco. C’e qualcuno che, addirittura a mani giunte,
prega Fabrizio di rimettersi la tracolla. E così, rieccoli tutti e cinque
pronti a regalarci un altro brano: Highway Star, con il quale si era aperto
lo show, diventa il fuoco d’artificio finale, per il piacere di tutti
noi insaziabili assatanati di musica. Direi che, questa sera, dobbiamo senza
dubbio ritenerci più che soddisfatti, visto il livello della performance
che hanno messo in pista i ragazzi.
La
prima considerazione che mi viene spontanea, su questa serata, riguarda l’atteggiamento
dei musicisti sul palco. Innumerevoli sono le occasioni in cui ho presenziato
ai loro concerti, ma stavolta li ho trovati particolarmente tonici, carichi
e grintosi. Fabrizio era letteralmente scatenato, come se volesse affettare
qualcuno con le note della sua Fender!
Roberto Cassetta (che fra l’altro è reduce da un tour in Giappone
con l’altra sua band, “Arti e Mestieri”) è apparso
in forma smagliante nel suo originalissimo look “rétro”,
sempre preciso e affidabile come un orologio svizzero, ovviamente “anni
70”, vista la sua devozione a quell’epoca storica.
Sul batterista ero piuttosto curioso, viste le famose vicende che hanno portato
allo “split” ed il poco tempo a disposizione per le prove; tuttavia
devo riconoscere che Renzo si è dimostrato, sicuramente, all’altezza
dell’incarico che gli era stato affidato all’ultimo momento. Il
suo stile è composto, ma, pur non concedendo nulla allo spettacolo, come
si suol dire, il nostro drummer dà sostanza al lavoro del gruppo, con
un timing robusto e deciso, senza mai eccedere in virtuosismi; per fare una
similitudine sportiva, mi ricorda uno di quei mediani tosti e rocciosi, che
sorreggono il gioco di centrocampo per tutti i 90 minuti e, senza funambolismi,
fanno giocate semplici ma efficaci. A questo punto, visto che spesso sorgono
spontanei i paragoni, qualcuno si chiederà cosa sia cambiato rispetto
a prima: bene, mi pare di poter affermare tranquillamente che l’economia
della band non abbia risentito minimamente del cambio di drummer, anzi. La base
ritmica si presenta bella tosta, robusta e tirata al punto giusto e, in particolare,
la timbrica della Ludwig di Renzo risulta apprezzabilissima e si sposa alla
perfezione con il contesto generale del sound.
Per quanto riguarda il tastierista, anche Mirko ha avuto pochissimo tempo a
disposizione per prepararsi all’impegno; tuttavia il giovane emulo di
Jon Lord fornisce il suo onesto contributo e riesce anche a “metterci
del suo”, specie in Space Trucking e in Difficult To Cure, con la scelta
di registri molto “hard” e azzeccati.
Per quel che concerne Piero, direi che ancora una volta ha confermato le sue
straordinarie doti. In Child In Time è semplicemente stupendo, da pelle
d’oca; le sue corde vocali riescono a raggiungere altezze proibite ai
comuni mortali (tra i quali va purtroppo annoverato, ormai, anche l’attuale
Ian Gillan, considerato che egli stesso non osa avventurarsi più, da
anni, in certi pezzi così impegnativi e rischiosi). Con Stormbringer
la sua voce ti entra nello stomaco ed evoca il migliore Glenn Hughes. Con Mistreated
(una delle mie preferite, lo confesso, sia nella versione di Coverdale sia di
Hughes sia di Dio) mi riporta alla mente – in alcuni momenti, come durante
l’intonazione del finale: “I’ve been losing my mind”
– la più grande voce della storia, ovvero l’inimitabile ed
inarrivabile Ronnie James Dio. Ad un certo punto, poi, Piero si lancia in una
gradita quanto inattesa improvvisazione vocale sul tema di “The man on
the silver mountain”, intrattenendo e coinvolgendo la folla in un simpatico
ed intenso botta e risposta. Grandissimo!
E infine, la chitarra. Su Fabrizio Fratucelli sono state dette e scritte un’infinità
di cose e mi risulta, sinceramente, difficile non ripetermi nel descrivere le
qualità di colui che reputo un grande artista, unico nel suo genere.
A prescindere dall’aspetto tecnico, va sottolineato – secondo me – il
suo grande “senso tattico” ed il suo equilibrio nel condurre la
squadra. Mi scuso per quest’altra similitudine calcistica, ma con tale
affermazione intendo semplicemente sottolineare che Fabrizio è un grande
leader: lo si avverte guardandolo sul palco, con i suoi caratteristici ammiccamenti,
la sua mimica facciale, i suoi sguardi che rivolge ora all’uno, ora all’altro
componente della band, coordinandone le entrate e gli stacchi. L’intesa
dev’essere sempre perfetta e la sua grande forza di coesione è
proprio uno degli elementi essenziali per la buona riuscita di uno show. Un
altro fattore non meno importante è dato dalla tipicità del sound
che Fratucelli, dopo anni di attento studio, riesce a riprodurre con la sua
Stratocaster. La scrupolosa ricerca dei suoni “giusti” ha infatti
portato il nostro guitar-hero ad un livello di fedeltà assoluto, al punto
che tutti, dagli addetti ai lavori ai semplici appassionati, hanno espresso
tonnellate di riconoscimenti per il suo lavoro. Del resto, ciascuno dei più
fedeli fans dei Deep Purple sa che tutto è cambiato da quando il Man
in Black ha lasciato la band per diventare un menestrello e, pertanto, l’unica
chance per gustarsi uno show “come ai vecchi tempi”, con un sound
ed uno stile al 100% blackmoriano, è rappresentata da un concerto dei
60/70. E Fabrizio, onestamente, non tradisce mai le attese, nel senso che regala
sempre intense emozioni agli appassionati che hanno la fortuna di vivere tale
esperienza: i suoi arpeggi gustosi, i suoi passaggi vivaci, le sue scale ed
i suoi accordi così spiccatamente “Blackmore oriented” ne
fanno un interprete davvero speciale. Conosco Fabrizio da tanti anni ormai e
so quanta “anima” ci metta nel suo lavoro: proprio per questo motivo
lo seguo con un certo affetto e lo ritengo un grande.
Mentre faccio queste riflessioni, i 60/70 ringraziano tutti i fans che si avvicinano
per complimentarsi con loro, ad uno ad uno.
Grazie a voi, ragazzi, per la vostra musica! Le vostre note mi terranno compagnia
sulla strada del ritorno, riecheggiando familiari nella mia mente ed aiutandomi
così a respingere gli attacchi del vecchio Morphy. Alla prossima!
Long live Rock and Roll…!