Report: Bang Your Head 2007, 22 giugno
Ore 3.00: si parte, nonostante la mancanza del talloncino di rinnovo sulla mia patente scaduta, che attendo ormai dal 15 febbraio scorso (data della visita medica presso l’ASL), grazie alla nota efficienza della Motorizzazione di Roma. Prego gli dei del Metallo affinché il mio tragitto verso il Bang Your Head non venga interrotto da qualche spiacevole imprevisto, e mi avvio verso il confine, toccando ferro, anzi… acciaio!
Il viaggio scorre via liscio lungo le strade italiana e svizzera, sotto un cielo carico di pioggia, con l’impianto stereo che accompagna lo scorrere dei chilometri (circa 500) alternando Black Sabbath, Dio, Rainbow e Whitesnake…
Ore 9.00. Il mio infallibile navigatore mi anticipa l’orario previsto per l’ arrivo a Balingen: 9.50, quindi giusto in tempo per l’inizio del festival, fissato per le ore 10.00. Sta andando proprio tutto bene – penso, mentre mi avvio al posto di frontiera di Schaffausen (CH).
La coda è fluida e scorrevole, perlomeno fino a quando la mia auto giunge al check point: infatti il poliziotto tedesco, dopo avere sbirciato la targa italiana, mi ferma e mi chiede la patente (N.B.: non la carta di identità o il passaporto: la patente). Gliela consegno e mi preparo alla spiegazione sul certificato sostitutivo rilasciatomi al momento della visita per il rinnovo della patente. “Zertifikato non valìdo” è la sua risposta, mentre mi invita a seguirlo in ufficio. E’ l’inizio della mia disavventura: dopo un ulteriore accurato controllo della restante documentazione (carta di identità, libretto di circolazione, assicurazione, bagagliaio ecc.), entro nell’ufficio di polizia e aspetto per mezzora; il solerte funzionario ritorna, si siede al pc e inizia a verbalizzare, precisando che ho commesso una “illegal offense” secondo la legge tedesca e, pertanto, sono tenuto a pagare una contravvenzione di 200 Euro. Comincio a visualizzare quattro banconote da 50 Euro, sangue del mio sangue, che svolazzano nelle casse della Bundesdeutscherepublik; e reagisco: preciso che sono un avvocato e conosco le leggi e, non ravvisando alcuna commissione di reato, non intendo pagare, in quanto – di fatto – non ho guidato in territorio tedesco, essendo stato fermato dalla Polizia proprio sulla linea di confine. L’ineffabile agente chiama il suo capo, un tipo corpulento con pizzetto biondo e capello rasato: praticamente, un birraio con la divisa da poliziotto. Diamo inizio a una lunga discussione che tralascerò per questioni di tempo e di spazio; riporterò solo la parte finale: il soggetto estrae un foglio di carta, traccia una linea che rappresenta il confine, disegna un rettangolino (la mia auto) e mi spiega che ho guidato in territorio tedesco per “ein zentimètro” e, di conseguenza, sono obbligato al pagamento della sanzione prevista, “perché in Germania facciamo rispettare le leggi”. Dopo altri inutili tentativi di convincimento, mi rassegno e, strizzando con mani tremanti il mio portafoglio, snocciolo 200 Euro (non essendo possibile effettuare il pagamento mediante carta di credito); a malincuore, deposito il bottino sulla scrivania dei due ladroni in divisa. Prima di allontanarmi, minaccio di scrivere alla Corte di Costanza e alla Corte Europea per la restituzione del denaro illegalmente sottrattomi (magra soddisfazione). Sono ormai trascorse due ore e mezza, tuttavia, avendo rischiato l’arresto e il sequestro dell’auto, se proprio vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno, non è andata poi così male, visto che – pur sotto il diluvio – ci stiamo dirigendo verso la meta, grazie al provvidenziale aiuto di amici italiani diretti a Balingen in camper e sopraggiunti in mio soccorso come angeli custodi. Se fossi stato solo, mi sarebbe toccato un inglorioso ritorno in patria in autostop o in treno. Chiusa la triste parentesi, che spero possa servire da monito per chi intenda avventurarsi all’estero con le carte non perfettamente in regola.
Verso le 12.30 la regione del Baden Wuttenberg ci dà il benvenuto (!!!) con le sue ridenti (beate loro) colline e i suoi tranquilli villaggi. Da una dozzina d’anni a questa parte, durante l’ultimo weekend di giugno, questa bucolica quiete viene regolarmente scombussolata dalle tonnellate di decibel scaricate dai potentissimi impianti dell’Open Air Festival, nonché dalle orde di invasori che, marciando sotto le insegne del Metallo, provengono da ogni Paese europeo.
Il tessuto verde intenso dei prati si presenta inframmezzato, qua e là, da tante pezze colorate: si tratta delle tende (in verità inzuppate d’acqua piovana) delle legioni metal, i cui accampamenti stringeranno d’assedio Balingen per un paio di giorni.
Lungo la strada statale alcune sparute pattuglie di rockers, a piedi e in moto, con le nere divise d’ordinanza, stanno muovendo verso il luogo della manifestazione.
Il gigantesco palco è visibile da lontano e sovrasta tutta la location, alto come un palazzo di dieci piani, mentre un cielo plumbeo e minaccioso non promette nulla di buono. Poiché nelle precedenti edizioni del festival ho già subito ogni sorta di rovescio atmosferico, stavolta mi sono attrezzato con stivaloni da cacciatore (siamo o non siamo alle porte della Foresta Nera?), calzoni mimetici Udo-style e lungo impermeabilone cerato modello “maniac”, pronto a fronteggiare le ire di Giove Pluvio.
A causa del citato contrattempo alla Dogana, mi sono perso i concerti di ADRAMELCH (i nostri connazionali alfieri dell’epic metal, i quali – stando a quanto mi riferisce un amico tedesco molto attendibile – si sono comportati molto bene), WOLF (distintisi per un’ottima prestazione, sempre a detta del mio informatore) e GIRLSCHOOL (pare che le scatenate fanciulle hard rock abbiano proprio spaccato, scatenando grande entusiasmo tra le poche centinaia di presenti innaffiati da impietosi acquazzoni).
Sono quasi le 13.00 quando i PRAYING MANTIS appaiono sul palco, accompagnati da un tiepido sole che timidamente si sta affacciando dietro le nuvole, dopo le abbondanti docce che, per qualche ora, hanno tormentato gli sfortunati presenti. Il biondo cantante, capelli corti e camicia bianca, guida il gruppo con discreta padronanza per una quarantina di minuti, durante i quali vengono proposte canzoni datate quali CHILDREN OF THE EARTH e LOVERS TO THE GRAVE (dal loro debut album “Time tells no lies”), mettendo in mostra un rock melodico di buon livello e regalando vecchie e nuove emozioni a tutti gli amanti del genere.
I LETHAL si presentano con le caratteristiche che li hanno resi noti come una sorta di cloni dei Queensryche. Tom Mallicoat, con il suo inseparabile cappello da cowboy, deambula lungo la passerella e mette in mostra una discreta forma, sciorinando tutto il suo repertorio di acuti alla Rob Halford (o forse dovrei dire alla Geoff Tate?). Il lavoro alla chitarra di Eric Cook conferisce un suono strong alle caratteristiche melodie. L’effetto è decisamente metal, ma si possono anche avvertire influssi prog, peraltro in linea con la formazione professionale dei musicisti. I pezzi che la band sciorina, uno dietro l’altro, senza pause, sono: FIRE IN YOUR SKIN, PROGRAMMED, SWIM OR DROWN, WHAT THEY’VE DONE, OBSCURE THE SKY, KILLING MACHINE, IMMUNE.
Alle 14.25 arriva il momento tanto atteso dai fedelissimi del power metal a stelle e strisce. Dopo la sigla, ecco risuonare nell’aria, sempre più calda, il sound caratteristico dei VICIOUS RUMORS, composto di rabbiose schitarrate e discreti arrangiamenti, coordinato dalle indiscusse capacità del leader, il navigato Geoff Thorpe, elemento di continuità nell’articolata storia della band.
Senza tanti preamboli, i cinque sparano sulla folla accaldata il loro possente power thrash, sorretto dall’affidabile e rodata sezione ritmica Dave Starr – Larry Howe, il quale dietro le pelli sfoggia un agilissimo gioco di gambe fornendo un tiro veramente “speed”. Geoff non è da meno, così come l’ammiccante e dinamico James Rivera; la platea mostra di apprezzare il repertorio classico, peraltro scelto preventivamente dai fans attraverso un sondaggio preferenziale via web: DIGITAL DICTATOR, MINUTE TO KILL, SOLDIERS OF THE NIGHT (coinvolgente e cantata all’unisono dal pubblico), DON’T WAIT FOR ME, ON THE EDGE, SONIC REBELLION, IMMORTAL (entrambe dall’ultimo lavoro “Warball”), ABANDONED, YOU ONLY LIVE TWICE, la trascinante MARCH OR DIE, HELLRAZOR.
Poiché la mia schiena comincia a dare segni di insofferenza, decido di farmi una passeggiata defaticante in attesa del prossimo concerto, approfittando del tempo che pare aver messo giudizio. Guardandomi in giro, vedo che le bionde (intese come birre) hanno già mietuto parecchie vittime, e mi chiedo in quali condizioni si troveranno questi sventurati alla fine della giornata, considerato che sono appena le 15.30..!
Ora il sole splende alto nel cielo terso e, dunque, è proprio il caso di togliersi impermeabile, felpa e (perché no?) anche la maglietta, visto che la temperatura segna una brusca impennata. Ci sono un sacco di bancarelle lungo il perimetro della zona festival, con allettanti articoli di merchandise, e se non fossi stato depredato dai due inflessibili poliziotti di frontiera, farei un pieno di magliette e altri gadget interessanti. Grr…!
Lancio un’occhiata al palco e noto che, anche quest’anno, l’organizzazione è impeccabile e il programma sta procedendo con rigorosa e teutonica puntualità.
Ore 15.45. Gli svedesi EVERGREY si presentano in gran spolvero, con la tecnica cristallina di Tom S. Englund (voce e chitarra) che si eleva sul resto del gruppo. La band sfoggia il suo classico repertorio, fatto di tematiche dark e toni oscuri, ma anche di piacevoli melodie, alcune delle quali invero un po’ melanconiche. BLINDED, END OF OUR DAYS, MORE THAN EVER, SOLITUDE WITHIN, THE MASTERPLAN, NOSFERATU, MONDAY MORNING APOCALYPSE rappresentano un po’ la “summa” del lavoro di questi innovativi musicisti. Il concerto scorre via liscio, con indovinati cori sinfonici e cambi di ritmo tali da conferire un tocco di varietà e originalità al prodotto, che risulta assai gradito ai più giovani tra i metalheads, a giudicare da come ondeggia la massa di teste delle prime file. Si può senza dubbio affermare che questi versatili svedesoni abbiano dato un’ottima conferma delle loro qualità.
La frenetica e precisa attività degli addetti consente ai DARK TRANQUILLITY di presentarsi in scena all’orario stabilito (sono le 17.00). Il biondo Mikael Stanne inizia a macinare km. su e giù per la passerella, deliziando i fedelissimi con le sue tipiche impennate gutturali, nel segno del cosiddetto death metal melodico. THE LESSER FAITH evidenzia subito il buon tiro e la potenza della band, che vanta ormai una quindicina d’anni di carriera. THE TREASON WALL, THE WONDERS AT YOUR FEET, PUNISH MY HEAVEN, TERMINUS, MYSERY CROWN sono pure caratterizzate da una notevole dose di energia che il pubblico, arroventato dal sole, mostra di apprezzare. In definitiva, anche i Dark Tranquillity si sono rivelati all’altezza delle aspettative.
La mia povera schiena ha bisogno di un altro break, dopo tutte queste ore in piedi: mi sdraio su una panca della zona del “meet and greet” recuperando un po’ di energie per i prossimi concerti, in considerazione dell’importanza (in ordine crescente) dei gruppi che il billing prevede.
Alle 18.00 riconquisto la posizione eretta e sono di nuovo sotto al palco, ready to rock, mentre si diffondono le note di “Thunderstruck” (AC-DC), sigla di apertura dei britannici THUNDER: un’altra gustosa fetta (di storia) della torta proposta dagli organizzatori del B.Y.H. 2007 si appresta a essere sbranata da tutti i fans dell’Hard Rock presenti alla manifestazione. La band sale sul ring e subito assesta un uno-due da sballo, con LOSER e BACKSTREET SYMPHONY, che ci riporta ai grandi successi del passato (siamo nel 1990). LOW LIFE IN HIGH PLACES e, soprattutto, ROBERT JOHNSON’S TOMBSTONE rivelano chiaramente le radici di questi immarcescibili eroi dell’Hard Rock: il Blues nudo e crudo, signori, quello che fa tremare le budelle, la fonte da cui tutto deriva! Più scorre il tempo e più ci si lascia trasportare dalle note sapientemente miscelate e dalla calda voce di quel vecchio volpone (in questo caso: una volpe argentata) di Danny Bowes.
In YOU CAN’T KEEP A GOOD MAN DOWN il frontman aggiunge un tocco speciale e di grande effetto con le note della sua armonica, nel segno della migliore tradizione blues. Si prosegue con la celebre THE DEVIL MADE ME DO IT, che ci regala un Rock and Roll di primissima qualità, seguita da LOVE WALKED IN, nella quale Luke Morley dà un saggio delle sue doti tecniche e del particolare gusto con il quale sa condire le sue canzoni: non dimentichiamoci che un certo David Coverdale, all’inizio degli anni 90, ha tentato di reclutare questo straordinario chitarrista, ottimo sia in versione acustica sia in versione elettrica. I LOVE YOU MORE THAN ROCK AND ROLL (cantata in coro da tutto il pubblico) e DIRTY LOVE chiudono uno show che – a mio avviso – resta il migliore di quelli finora avvicendatisi sul palco. Onore dunque a Danny Bowes (voce), Luke Morley (chitarra), Ben Matthews (chitarra), Chris Childs (basso) e Harry James (batteria), che si congedano raccogliendo la meritata ovazione dei circa 10.000 presenti.
Il mio spirito rockettaro ora si sente veramente soddisfatto per avere assistito a un bel concertone di prim’ordine, di quelli che ti riempiono l’anima per intenderci; a questo punto mi avvio ai box per un altro pit stop, in attesa degli ultimi due gruppi della giornata.
Alle 19.30 un clangore di spade annuncia che è arrivato il momento degli AMON AMARTH: due guerrieri vichinghi, con tanto di elmi e scudi, stanno duellando sul palco armati di spadoni e, dopo essersi scambiati rabbiosi colpi per alcuni minuti, se ne vanno lasciando il posto al quintetto svedese, che irrompe a modo suo sparando furiose mitragliate di note in nome di Odino. Il biondo barbuto Johan Hegg, che brandisce il microfono come se fosse il martello di Thor, indossa gli immancabili polsini di cuoio e il tradizionale corno appeso alla cintura.
I suoi compagni d’avventura roteano come sempre le loro bionde chiome in sincronia, con grande effetto scenico, mentre il grande lavoro di gambe di Fredrik Andersson si fa sentire nello stomaco, ossessivo e martellante. WITH ODEN ON OUR SIDE, VALHALLA AWAITS ME e RUNES TO MY MEMORY colpiscono con violenza, come vere e proprie mazzate, per la gioia degli appassionati del genere. Il grintoso Johan non si sottrae al rito della bevuta dal corno, proprio sul bordo della passerella: una malcapitata reporter si appiattisce come un geco contro la parete del palco, per evitare la doccia di birra che cola copiosamente dalla barba del biondo condottiero, sgocciolando minacciosa sulle teste dei fotografi. La performance dei nordici prosegue carica di energia: CRY OF THE BLACKBIRDS, THE PURSUIT OF VIKINGS, DEATH IN FIRE sono espressioni di questo brutale death metal, fortemente influenzato dalle connotazioni della mitologia vichinga. La folla, sempre più scatenata, celebra saltando e cantando, al ritmo forsennato delle ormai famose FATE OF NORNS e VERSUS THE WORLD. Infine, MASTERS OF WAR e GODS OF WAR ARISE chiudono nel migliore dei modi l’esibizione dei biondi guerrieri venuti dal Nord, che indubbiamente hanno soddisfatto completamente i loro fans, accendendo gli headbanging più sfrenati nel corso di questo vigorosissimo show.
HEAVEN & HELL: alle 21.30, mentre le prime discrete ombre della notte cominciano a distendersi sopra le nostre 12.000 teste, scocca l’ora del “dream team”, con le inquietanti note dell’introduzione, E5150. Le inconfondibili sagome appaiono a una, accolti da un boato sempre più forte, nel seguente ordine: Vinnie Appice, Geezer Butler, Toni Iommi e, dulcis in fundo, Ronnie James Dio. C’è anche Scott Warren alle tastiere, che però non risulta visibile; tuttavia mi sembra doveroso farne menzione, visto il suo discreto ma significativo apporto.
Con la suggestiva scenografia sullo sfondo (la ringhiera, il muro, le croci celtiche e le tre finestre sospese), il prepotente riff apre MOB RULES, in un’esplosione di energia che scatena gli entusiasmi di una platea sterminata. Il magico folletto percorre il palco in lungo e in largo, per la gioia dei fortunati delle prime file, che si possono godere ogni espressione del volto, la cui forza interpretativa non ha eguali.
L’arpeggio iniziale di CHILDREN OF THE SEA mantiene la sfera emotiva su altissimi livelli: ogni volta che ascolto questo brano, mi viene la pelle d’oca, lo confesso, e mi godo pienamente ogni ritornello: “Oh they say it’s over…”, ricavandone sempre sensazioni nuove e antiche, grazie alle magiche inflessioni di quella voce assolutamente unica e inimitabile.
Non c’è nemmeno il tempo di osannare per questa straordinaria performance: si attacca con I (da “Dehumanizer”): grinta e tecnica sono gli ingredienti di questa spettacolare esecuzione. Un addetto della security mi fissa con sguardo perplesso, forse perché, invece di scattare foto come gli altri reporter, mi lascio prendere dal furore e mi scateno in un headbanging cantando “I, I, I, I am standing alone, but I can rock you, I, I, I…”.
Con l’introduzione di THE SIGN OF THE SOUTHERN CROSS l’emozione cresce di intensità, mentre la luce del giorno si attenua, anche per l’arrivo di alcuni nuvoloni grigi. Anche qui il ritornello scatena entusiasmo e passione, puntando dritto al cuore: la compattezza sonora è semplicemente mostruosa. Non si può non concordare con chi afferma che si tratta della migliore band esistente sulla scena. La gente è scatenata e canta a squarciagola, celebrando il Mito che si ripropone in tutta la sua essenza.
Mentre la pioggia ricomincia a cadere, inesorabile, si attacca con VOODOO, altra perla del passato caratterizzata, in questa versione, da una precisione assoluta del collettivo: a livello individuale, l’assolo di Iommi è unico, come al solito; gli improvvisati vocalizzi di Ronnie sono strepitosi e sensazionali, e dovrebbero costituire un modello da seguire per tutti gli studenti di canto.
“Vinnie Appiceeeeee!” è la presentazione del DRUM SOLO in cui Vinnie dà un saggio della sua classe. L’assolo è suddiviso in due parti, di cui la prima senza base musicale, condito da una rassegna di stacchi e rullate mozzafiato; nella seconda parte il drummer si alza in piedi e delizia la platea con una serie di rullate, tormentando il kit di tom e i piatti a forma di croci uncinate posizionati dietro di lui e facendo ondeggiare paurosamente i tamburi montati lateralmente sulle strutture verticali, dando così un tocco spettacolare alla sua performance.
Ora è la volta di COMPUTER GOD (anch’essa tratta da “Dehumanizer”), esplosiva e graffiante, con un immenso Dio capace di riempire il palco come sempre, ammiccando verso il pubblico col suo sguardo magnetico e penetrante, oltre che con la sua tipica gestualità.
FALLING OFF THE EDGE OF THE WORLD si rivela uno dei momenti più intensi e toccanti, nella sua alternanza di dolcezza ed energia, sapientemente dosate da quei grandi istrioni di Ronnie e Toni. L’amalgama è perfetto, grazie anche a una base ritmica possente che contribuisce, da par suo, alla tipicità del sound sabbathiano.
Nel segno della continuità, ecco SHADOW OF THE WIND, ovvero una delle tre nuove tracce scritte dal duo Dio – Iommi (le altre, che compaiono sul CD “Black Sabbath – The Dio Years”, sono “The devil cries” e “Ear in the wall”). Qui c’è tutta l’essenza di questa band: suoni cupi, riff graffianti, ritmo cadenzato e quella voce potente e pulita, che si eleva fino a toccare le corde dell’anima, ovvero: i Black Sabbath dei tempi d’oro.
La coinvolgente DIE YOUNG mi procura un’altra dose di pelle d’oca, trascinante e tostissima, in un crescendo di energia e ritmo da togliere il fiato, fino alla chiusura pirotecnica: “Die Young”! La voce di Ronnie, col pugno alzato, risuona come un tuono, mentre la folla è in delirio.
L’attesissima, invocata HEAVEN AND HELL viene accompagnata dal coro dei 12.000 discepoli estasiati, fino al momento culmine della luce rossa infermale che illumina la figura diabolica del leggendario frontman, mentre colonne di fumo rossastro si alzano dai tubi posizionati nella parte anteriore del palco e, sullo sfondo, vengono proiettate immagini di fiamme ardenti.
Il demoniaco quartetto si congeda trionfalmente, per ritornare qualche minuto dopo, richiamato dalle urla del popolo del metallo, insaziabile nonostante il freddo che comincia a insinuarsi nelle ossa.
NEON KNIGHT, anch’essa sparata con violenza e passione, conclude alla grande una serata in cui i Black Sabbath… ehm, gli Heaven and Hell, si sono confermati artisti di livello stratosferico, inimitabili nella loro peculiarità e nel loro carisma.
Mentre Geezer, Tony e Vinnie si congedano, un insistente coro “Dio, Dio, Dio…” trattiene Ronnie sulla passerella che, come un molo che si allunga verso il mare agitato, si protende verso le onde di mani levate.
Ore 23.00. Come salmoni che nuotano controcorrente, attraversiamo la folla oceanica trascinandoci stancamente verso il backstage, per un after-show che ci ripaghi di tutti gli sbattimenti della lunga e faticosa giornata, cercando e trovando un po’ di tepore vicino ai bidoni nei quali arde un po’ di legna, che finalmente ci scalda le ossa, con le fiamme che rischiano di incendiare i vestiti di qualche incauta anima infreddolita, mentre l’aria si fa sempre più fredda e umida.
Dopo una mezz’oretta di piacevole intrattenimento, salutiamo i protagonisti della serata, pronti ad affrontare il lungo viaggio in pullman verso il Belgio, ove domani sera regaleranno altra gioia ed emozioni a un pubblico altrettanto numeroso e scatenato.
A causa della mia schiena a pezzi, non vedo l’ora di sdraiarmi: la sfortuna di oggi mi ha impedito di trovare una camera, ma, grazie a un paio di amici, potrò trovare ospitalità nel loro camper. Ci diamo appuntamento in un punto preciso, però devo prima recuperare la mia auto, che avevo posteggiato nel parcheggio di un centro commerciale nei dintorni. Dopo una lunga scarpinata, arrivo al parcheggio, ma scopro che è chiuso da una sbarra. Aaarrghh! E’ l’ultima beffa della giornata, almeno spero! Prelevo il mio zaino e mi avvio a piedi verso il punto di ritrovo, stremato, con schiena e piedi dolenti, mentre da lontano, ovvero dal campeggio degli irriducibili, arrivano le note heavy di quella che si annuncia una lunga notte metallica.
You can’t stop Rock and Roll..!
Marcello Catozzi