Report: Cryptopsy + Guests – Misano Adriatico (Boulevard) – 22/11/2008
Qual’è il più grande gruppo brutal di tutti i tempi? Suffocation, Cannibal Corpse, Nile? Può anche essere, ma se i Cryptopsy non sono la band più importante del loro genere di sicuro stanno tra le migliori cinque e nella loro carriera hanno
influenzato ben più di un musicista con il loro stile, forse addirittura risultando i precursori di tutta la corrente
ultratecnica che oggi spopola nel mondo e nella loro terra (il Canada) in particolare, producendo come uno dei risultati più
interessanti della scena i Beneath The Massacre. Vecchio e nuovo che si incontra dunque oggi al Boulevard Music club di Misano
Adriatico, chi sarà destinato a vincere? E’ con questa grandissima curiosità che giungo sul posto, in largo anticipo sull’inizio
della carneficina in quanto prima ho da fare qualche intervista; devo ammettere che inizialmente mi faccio venire qualche
perplessità sulla bontà di un locale abbarbicato sulle colline che stanno immediatamente dietro alla riviera romagnola e che,
almeno in apparenza, non è di facile raggiungibilità e nemmeno possiede una grandissima tradizione per quanto riguarda i concerti
in campo estremo. Flo Munier sembra condividere le mie perplessità quando, dopo l’intervista, mi chiede di rimanere anche per la
serata e nel momento in cui salgono sul palco i Trigger the Bloodshed non più di una trentina di persone sono presenti nella sala
adibita a zona concerto. Tragedia? Ignominia verso la provincialità dei metallari italiani? Assolutamente no, ma per sapere la fine
di questa storia dovrete leggere fino in fondo.
Gruppo di sbarbatelli con capelli che manco un putto dentro una chiesa barocca i Trigger the Bloodshed erano da me conosciuti
solo in quanto durante il soundcheck avevano accennato una versione di Slaying the Prophet of Isa. In quel momento avevo pensato
che avrebbero fatto meglio a pensare a fare il loro piuttosto che tentare di emulare i Behemoth, ma sono costretto a ricredermi
non appena parte la prima nota del loro concerto: questi ragazzini hanno talento da vendere e nei venti minuti a loro accordati
sfoderano una prestazione incredibile con canzoni di brutal death metal paragonabili come atmosfere ed epicità ai Nile ed ai già
citati Behemoth. La band è composta da musicisti affiatati e probabilmente con un sacco di sala prove alle spalle, in particolare
l’accoppiata chitarrista solista / cantante si caratterizza per una prestazione da primato a livello vocale, con alcune
sovrapposizioni vocali (scream del vocalist con sotto growl del guitar hero) davvero da appliausi. Censurabile invece il
bassista, dimenticato dal fonico a livello di volumi, incapace di distinguersi se non per un exploit isolato in tapping (di cui
comunque non si è potuta saggiare la bontà in qanto il basso non si sentiva) e pure dotato di tappi nelle orecchie che ok, gli
saranno serviti per preservare l’udito, ma in un concerto brutal sinceramente sono come andare alle sfilate di Milano in
ciabatte. La cosa comunque è di secondaria importanza in quanto le canzoni proposte dai nostri sono davvero assassine e
presentano pure qualche isolato breakdown, che tuttavia rimane un episodio isolato in un mare di buonissima musica.
Un gruppo da tenere d’occhio dunque, anche se lo show eccessivamente corto non permette di valutare se i suoi componenti sappiano
creare canzoni abbastanza varie da tenere alta l’attenzione anche per un intero full length oppure se alla lunga scadano nel
comporre brani ridondanti. Ma se vogliamo saperlo basta che ci compriamo il loro disco…
Pur essendo molto bravi singolarmanente come musicisti ed affiatatissimi come band gli Ignominious Incarceration si guadagnano la
palma di gruppo più anonimo della serata in virtù di una proposta tecnica, ma non altrettanto rispetto a quella degli
inarrivabili Beneath the Massacre e Cryptopsy, melodica, con qualche uscita che addirittura ricorda gli unearth ma risulta
estemporanea all’interno di una proposta che vorrebbe essere molto più brutale, e che molto deve alle sonorità -core, sebbene
alla lunga i breakdowns stanchino. Un minestrone di diverse sonorità che porta i nostri a non costruirsi un’identità ben precisa
dunque, lasciando che l’unica caratteristica utile a contraddistinguerli sia il fatto che essi sono tatuati letteralmente dalla
testa ai piedi: non che la cosa sia un male, per carità, ma a parte qualche ragazzina che scatta foto a ripetizione non sono in
molti ad essere interessati alla proposta dei nostri, tanto più che il locale è ancora semivuoto.
Il concerto passa rapido ed indolore dunque, senza che il sottoscritto riesca a scomporsi di fronte alle solite uscite in tapping
o a qualche sciamatina all’unisono effettuata dalla coppia di Axemen. I 5 inglesi di tecnica ne hanno da vendere, ma dovrebbero
migliorare dal punto di vista compositivo per uscire dalla massa.
Dall’Inghilterra si passa al Canada e la differenza si sente eccome: basta che Christopher Bradley salga sul palco e provi un
attimo le distorsioni per scatenare un delirio sonoro incredibile, con volumi da spazzare via le persone nelle prime file ed un
livello di gain talmente alto da saturare tutto lo spazio sonoro. La cosa, come si vedrà in seguito, non è completamente positiva
in quanto il livello ineguagliabile riservato alle chitarre in sede di mixing fagociterà in un colpo solo sia basso che batteria
(un vero peccato), ma non pregiudicherà la validità di un concerto incredibilmente violento, una dimostrazione di forza
incontrovertibile da parte dei Beneath the Massacre.
Arriviamo dunque all’inizio dello show e sinceramente io mi lascio prendere da qualche dubbio: Elliot Desgagnés qualche ora prima
in sede di intervista mi aveva detto senza mezzi termini che la sua band non aveva esitato in passato ad interrompere concerti
dove il pubblico non si era dimostrato abbastanza partecipe e da quello che si è visto finora la fauna presente al Boulevard,
oltre ad essere ridotta dal punto di vista numerico, si è pure dimostrata abbastanza “posata”, per usare un eufemismo. Basta che
i nostri partano con Our Common Grave comunque che tutte le incertezze vengono spazzate via: la pista si riempie fino all’orlo in
maniera quasi magica e qualche metro dietro di me si scatena l’inferno a livello di mosh. A livello esecutivo i nostri sono delle
macchine da guerra, con una compattezza che sfiora livelli sentiti dal sottoscritto unicamente con band come Suffocation e
Aborted… pure i Nile all’Estragon avevano fatto peggio. Per risolvere il problema cronico di qualsiasi produzione brutal, ossia
il fatto che il livello sonoro rimanga costante in ogni situazione causando un calo di attenzione nell’ascoltatore dopo poco
tempo, Christopher Bradley si inventa un metodo sorprendente: il segnale della sua chitarra viene indirizzato a due diverse
testate, le quali vengono tenute entrambe accese per le parti tiratissime caratterizzate da scale simmetriche sparate a mille ed
alternate invece durante gli stop n go ed i breakdown. Il calo di volume conseguente non solo permette all’orecchio di rifiatare,
ma causa una momentanea interruzione nel muro di suono facendo riattivare il cervello dei presenti. Grande anche la prestazione
del cantante, che al sottoscritto è sembrato un po’ un emule di Frank Mullen, risulta invece abbastanza anonimo il bassista
Dennis Bradley, il quale sfrutta il suo sei corde non tanto per tentare virtuosismi inenarrabili, ma piuttosto per suonare
abbastanza facile nello stesso range della chitarra, trasformandosi in questo modo più in un secondo axeman, solo meno bravo, che
in un supporto di prestigio che suona un’ottava sotto. L’attività di suonare il basso ha un proprio stile ed una propria dignità,
bisogna sempre ricordarselo.
Dopo l’highlight Society’s Disponsable Son, posta in seconda posizione, lo show scorre brutale ed assassino per tutta la sua
mezz’ora, con una band che si concentra più che sull’ultima uscita Dystopia sul precedente album Mechanics of Dysfunction,
arrivando addirittura ad escludere dalla scaletta canzoni come Condamned. Sinceramente un peccato, che tuttavia non pregiudica la
dimostrazione di forza dei nostri, i quali si dimostrano una delle migliori new entries brutal in circolazione.
Facciamo subito outing: il primo disco che io abbia mai ascoltato dei Cryptopsy è stato The Unspoken King. Essendo dunque che mi
sono innamorato della band di Flo Munier a partire dalla sua ultima creatura non sono uno di quelli rimasti delusi dalle sue
evoluzioni recenti, dal suo aver aggiunto fantomatiche influenze deathcore (che peraltro lo stesso Flo nega senza mezzi termini),
dal suo essersi ammorbidita. In ogni caso quando il concerto parte con Worship your Daemons viene davvero da chiedersi cosa
diavolo abbiano da lamentarsi i fans di vecchia data: un’ondata di violenza sonora che rivaleggia pure con quella dei ben più
monolitici Beneath the Massacre investe il pubblico ed il cantante Matt McGachy spazza via ogni dubbio che si potrebbe avere su
di lui in sede live… a dispetto del suo aspetto da ragazzino cresciuto a pane e metalcore infatti il vocalist tira fuori un
ruggito degno dei più grandi interpreti del genere, con in più una capacità non indifferente di svariare tra i registri ed
arringare la folla che fanno di lui un frontman completo. Si continua con The Headsman, eseguita esattamente come su disco in
modo da nascondere il passaggio da un pezzo all’altro, e si chiude il trittico iniziale con una We Bleed che stabilisce senza
mezzi termini le gerarchie all’interno di un bill pur valido in ogni sua parte.
Ma come fanno i cinque canadesi ad essere tanto superiori alla concorrenza? Il fatto è che, a differenza anche dei Beneath the
Massacre che pure nelle parti tirate “da apertura di brano” sono maestri indiscussi, i Cryptopsy sanno giostrarsi con una
maestria non indifferente tra tutti i “momenti” che una canzone brutal deve avere per colpire nel segno e stamparsi nella
memoria. Alle parti sparate direttamente in faccia ai mille allora dunque i nostri alternano sezioni maggiormente groovy in
cassa/rullante più tipicamente Suffocation, stop n go eseguiti alla perfezione (con tutti gli strumenti che si fermano per un
attimo e poi una ripartenza a velocità incredibile) nonchè, grazie proprio a The Unspoken King, qualche breakdown e parti
maggiormente atmosferiche che permettono al pubblico di rifiatare. Naturalmente poi, e non c’è nemmeno il bisogno di dirlo, Flo
Munier è un valore aggiunto ineguagliabile, con la sua capacità di dare dinamica al pezzo contemporaneamente risultando una
macchina a livello di metronomo. Superiore.
Dopo la prima mezz’ora di show, non riuscendo più a trattenermi, svesto i panni di giornalista ed indosso quelli di fan sfegatato
concedendomi un paio di crowd surfing ed una bella sessione di pogo nella quale rimedio più di un livido. Partecipo anche al wall
of death finale, chiamato da Matt McGachy ed effettutato dal locale intero per tutta la sua lunghezza. A dire la verità la
partecipazione a questo ultimo momento di massacro simbolico è piuttosto scarsina e la cosa mi fa intuire che, a parte un
centinaio di persone venute effettivamente a sentire i loro idoli, il resto del pubblico sia composto da gente che preferisce
altri generi, ma viene sempre e che dunque non si era preoccupata di sapere chi ci fosse a suonare prima di fare la scelta di
dove andare. Questa sensazione è avvallata anche dal fatto che in prima fila con me, nell’intervallo tra Beneath e Cryptopsy,
stava un ragazzo il quale mi aveva chiesto candidamente: “Chi suona adesso?”. A voler essere completamente oggettivi bisogna
comunque dire che lo show non è stato pienamente soddisfacente per tutti: nonostante la chiusura effettuata con Cold Hate, Warm
Blood e Phobophile i nostri si sono dimenticati praticamente tutta la loro discografia passata eseguendo un solo pezzo da Once
Was Not, uno solo da …And Then You’ll Beg e sempre, solo uno da Whisper Supremacy. Anche se il sottoscritto non ha sofferto
questa mancanza altri invece se ne sono andati molto dispiaciuti.
CONCLUSIONI:
Come avrete oramai capito la serata, dopo un’iniziale empasse dovuta probabilmente al fatto che molta gente era disinteressata ai
due gruppi di apertura, si è rivelata un successo, con centinaia di persone ad assistere all’evento ed un gestore talmente felice
da chiamare pure il fotografo di turno ad immortalare la folla vista dal palco. Come già detto probabilmente non tutti erano lì
per sentire il concerto, ma la cosa alla fine non è contata più di tanto, l’atmosfera era perfetta e tanto è bastato a Matt
McGachy per ringraziare calorosamente il pubblico italiano, assicurando che non sono cose che dice tutti i giorni.
Il locale si è dimostrato all’altezza della situazione, sebbene l’impianto fosse di dimensioni forse un po’ ridotte e la cosa
abbia costretto il fonico a tenerlo a volumi altissimi, causando una perdita in termini di qualità del suono (poco headroom, per
dirla in termini tecnici) e soprattutto distruggendo le orecchie di coloro che si trovavano nelle prime file. Il gestore mi ha
comunque assicurato che è in corso un processo di ristrutturazione totale e questa cosa, unita alla gratitudine per aver avuto il
coraggio di portare un tour del genere in un locale famoso tra le altre cose per le cover-band, mi rende grato nei suoi
confronti, nonché ansioso di ritornare al Boulevard per sentire altri gruppi del genere in situazioni ancora migliori.