Report: Dream Theater – Bologna, 30 ottobre 2005

Di Riccardo Angelini - 3 Novembre 2005 - 22:25
Report: Dream Theater – Bologna, 30 ottobre 2005

Chi va a un concerto dei Dream Theater, porta inevitabilmente con sé una certezza e un dubbio. La certezza verte naturalmente sul lato tecnico-esecutivo. Dopo un ventennio di carriera la band statunitense ha raggiunto una padronanza del proprio repertorio che non concede sbavature. Ciò che invece è meno sicuro riguarda la presenza scenica. Non sempre in passato i cinque americani avevano saputo rievocare dal vivo le stesse emozioni sprigionate dai dischi, sacrificando la spontaneità in favore della precisione. L’ingrediente segreto, l’imperfezione che fa l’arte, è ciò di cui molti in passato avevano sentito la mancanza. Una mancanza spesso decisiva.

Nell’ultima domenica di ottobre, i fan riunitisi a Bologna in un Palamalaguti pieno per metà erano chiamati dunque a testimoniare l’effettivo stato di forma della band e gli eventuali progressi da questo punto di vista.

Free Image Hosting at www.ImageShack.usFree Image Hosting at www.ImageShack.usPiù di un’ora di attesa. Poi, finalmente, le luci si spengono, cade il telone, brillano i riflettori: che lo spettacolo abbia inizio. Si parte dalla fine, con l’incedere trascinante di The Root of All Evil, e si prosegue con la Muse-oriented Never Enough: gli strumenti si scaldano e il pubblico canta, incitato da un Labrie visibilmente dimagrito e apparentemente in buona forma. L’alchimia tra gli strumenti è naturale oltre che precisa, il suono esce dalle casse omogeneo, potente e compatto.
Tutto bello, tutti bravi, ma dopo due brani nuovi di zecca, qualcuno comincia a sentire nostalgia delle canzoni degli anni che furono. Non c’è neanche il tempo di formulare il desiderio, che sul grande schermo il tempo comincia scorrere a ritroso. 2005, 2003, 2002, 1999, 1997, 1994, 1992, 1989… 1987… 1985! Un boato accoglie un’immagine sfocata in bianco e nero, accompagnata da un logo che nella sua rudimentale semplicità ruba un battito al cuore dei fan più incalliti: Majesty!
Sulle note della preistorica Another Won, il pubblico assiste esterrefatto allo spettacolo imbastito da questi cinque folli, che rispolverano una gemma lasciata troppo a lungo in soffitta arricchita da nuove melodie vocali. Quanti, tra il giovane pubblico, erano veramente coscienti di quel che stavano ascoltando? Quanti hanno davvero saputo apprezzare questa chicca senza prezzo e senza età? Ma a quei cinque gliene importava qualcosa?
Questi, signori, sono i Dream Theater.

Free Image Hosting at www.ImageShack.usFree Image Hosting at www.ImageShack.usIl ritorno al passato, tuttavia, è appena agli inizi: un boato accoglie A Fortune in Lies, con un Labrie esemplare a raccogliere nel migliore dei modi l’eredità di Charlie Dominici, e un Portnoy che strappa gli applausi del pubblico locale quando, alzatosi per dispensare qualche percossa ai piatti più lontani, sfoggia l’inconfondibile casacca rossoblu del Bologna F.C..
Ancora un balzo in avanti: tutti la aspettavano, non poteva mancare, e infatti non manca. Quando Petrucci inizia ad accarezzare le corde, bastano tre note per riconoscere la magia di Pull Me Under. Fin qui Labrie si era mosso bene, la sua prestazione estranea alla minima sbavatura, movendosi sul palco con autorità e orchestrando i cori del pubblico. Ma ora il ragazzo comincia davvero a fare sul serio. Sfoderando acuti che nulla hanno da invidiare a quelli incisi sul leggendario disco del 1992, il canadese interpreta con grinta e piena padronanza le linee vocali più impegnative, quasi a sfidare le orecchie dei presenti a trovare anche una piccola flessione, una sola microscopica nota stonata in quella voce improvvisamente ringiovanita. Di più: mentre la folla esaltata intona un refrain immortale, quei cinque là sopra scoprono un’altra carta dal loro mazzo classico. In pochi istanti la velocità del pezzo raddoppia, triplica, quadruplica: in un’accelerazione fulminea gli strumenti divorano il tempo strappando applausi e grida di giubilo a una moltitudine in visibilio.
E’ un climax di potenza che cresce con l’incedere marziale di The Mirror e l’energia di Lie, acclamati ritorni dal fondamentale Awake. Grande spazio alle chitarre e al basso, con Myung e Petrucci sugli scudi spesso vicini per dar libero sfogo alla carica esplosiva dei rispettivi strumenti. All’apice dell’esaltazione, pare giunere il turno di Falling to Infinity, e tutti sanno già che cosa aspettarsi… o forse no. Ecco la seconda, enorme sorpresa della serata: invano qualcuno avrà ripercorso mentalmente le tracklist di tutti gli album ufficiali dei cinque americani alla ricerca di Speak to Me, ma è proprio la ballad che non ti aspetti a concedere un momento di requie dopo gli ultimi bolidi,

Free Image Hosting at www.ImageShack.usPoi, un attimo di buio sul palco, prima che i riflettori diano luce all’angolo personale di Jordan Rudess. Tutto il suo repertorio, classico e moderno, condensato in una manciata di narcisistici minuti in cui il vulcanico tastierista trova un uso a ogni appendice del suo cibernetico arsenale, danzando sui tasti secondo un percorso creato in presa diretta, fuso con naturalezza a un’accoppiata classica di Scenes from a Memory, Through My Words/Fatal Tragedy: non servono ulteriori commenti.
Prima di una breve sosta, che permetta ai musicisti di ricaricare le batterie e agli spettatori di tirare il fiato, c’è ancora tempo per un’altra coppia di lusso. Così, da About to Crash (reprise) a Losing Time/Gran Finale, il pubblico accompagna la musica a braccia alzate, gli sguardi allibiti tutti rivolti a quel frontman che, come fosse la cosa più normale del mondo, passeggia su vette vocali da capogiro indugiando sulle cime più alte senza la minima vertigine. Una vertigine pienamente avvertita, invece, da chi lo mira dal basso. E gli altri quattro? Incapaci di sbagliare una sola nota, cercano nuovi modi di differenziare la proposta live da quella in studio. Così, proprio all’apice sommo del crescendo strumentale più esaltante, ecco che quei folli sul palco si bloccano come un sol uomo, e per qualche secondo il tempo si ferma, mentre un boato della folla esaltata riempie un silenzio innaturale. Pochi istanti e il tempo ricomincia a scorrere: il confine tra spacconata e spettacolo puro è labile, ma chi ama i Dream Theater li ama anche per questo.

Free Image Hosting at www.ImageShack.usFree Image Hosting at www.ImageShack.usDopo la pausa, si ricomincia con l’unica presenza di Train of Thought. Anche chi non la ha mai gradita, come il sottoscritto, non può negare che dal vivo As I Am suoni decisamente meglio che non sull’album, grazie al suo incedere secco e sfacciato che Labrie si permette di interpretare a modo suo cambiando, non senza un certo effetto comico, le parole del penultimo ritornello. Di qui alla fine solo Octavarium: la caratura tecnica dei brani, relativamente inferiore al solito, è l’occasione buona per qualche fuori programma. Così i due John si avvicinano spesso, divertendosi talvolta ad allungare la mano per suonare lo strumento dell’altro, mentre il lama Portnoy, che tra un piatto e un tamburo non nega qualche battuta anche al proprio cranio, continua a bersagliare la pedana di proiettili salivari che parrebbero bastanti a creare piccole pozzanghere di umidità palustre ai piedi del povero James.
Siamo all’epilogo: un’introduzione dilatata a discrezione di Rudess apre la via alla lenta e continua progressione di Octavarium. Memorabile l’esecuzione, che raggiunge l’apice nella tempesta strumentale a metà brano, semplicemente da brividi, con un fiume impetuoso di note e immagini si abbatte su una folla estasiata. Crescendo apocalittico e gran finale sinfonico, con un Labrie improvvisato direttore d’orchestra conduce cori partecipi e riconoscenti.
Fine? Certo che no. Il pubblico vorrebbe Metropolis, ma i Dream Theater suonano quel che pare a loro. Ecco dunque una straordinaria Learning to Live mettere a tacere subitamente ogni possibile rimpianto: con canzoni di tale livello, poco importano i titoli. E così Portnoy mostra che gli anni per lui non sono mai passati, Myung saltella sulle corde del basso con precisione certosina, Rudess ripercorre fedelmente le impronte del suo celebre precursore, Petrucci si piazza al centro della scena per esaltare ed esaltarsi, Labrie – singer e trascinatore – insiste nel non voler sbagliare una nota, cantando come se il concerto fosse appena agli inizi. Applausi, saluti, applausi, inchino, applausi. Tutti meritati.

Ecco quel che gli spettatori hanno potuto testimoniare: una band in forma, in grande forma, capace quest’oggi di scuotere il pubblico senza rinunciare al perfezionismo tecnico di cui si è fatta effige nel tempo. In poco meno di tre ore, la prog band americana ha saputo sbriciolare l’abusato stereotipo che la dipingeva come una precisa ma fredda macchina musicale. Domenica sera i Dream Theater hanno fatto musica. E chi c’era, è tornato a casa con un sorriso soddisfatto e un piacevole brivido sotto la pelle.

Setlist:

The Root of All Evil
Never Enough
Another Won
A Fortune in Lies
Pull Me Under
Mirror
Lies
Speak to Me
Jordan Rudess Keybord Solo
Through my Words
Fatal Tragedy
About to Crash (reprise)
Losing Time/Gran Finale
As I Am
These Walls
I Walk Beside You
Sacrified Sons
Octavarium

Encore:

Learning to Live