Report: Evolution fest 2007 (Firenze, 7/07/2007)

Di Redazione - 22 Luglio 2007 - 11:12
Report: Evolution fest 2007 (Firenze, 7/07/2007)

Torna l’Evolution, festival che nell’arco di soli tre anni è riuscito ad affermarsi come uno dei momenti più attesi della stagione estiva italiana. L’anno scorso assistemmo a un vero e proprio capolavoro: band strepitose che nessuno aveva mai avuto il coraggio di chiamare in Italia e location da brividi, con le montagne che si stagliavano dietro il palco e il Lago di Garda a 10 metri dalla zona concerti, pronto a offrire uno svago tutto speciale contro il caldo. Molte delle band presenti all’edizione 2006 hanno ammesso di non aver mai visto nulla di simile se non allo sloveno Metal Camp. A chiudere un quadro perfetto, una serie di campeggi e un ampio spazio adibito al pernottamento gratuito. Nonostante tutto questo l’affluenza non era stata degna dei nomi e dei contorni offerti. Così, la scarsa partecipazione e il problema traffico hanno spinto l’Evolution in una location più facile da raggiungere, più centrale rispetto a Toscolano Maderno, anche se questo ha significato ridurre il programma a un’unica giornata e affidare a terzi diverse delle componenti del festival.

Come nello stile che aveva contraddistinto la strepitosa edizione 2006, l’intento è quello di portare sul palco band dai palati fini, che difficilmente trovano spazio sui grandi palchi italiani: Behemoth, Cynic, Fates Warning e Kataklysm, tanto per fare qualche nome, e quei Sodom che in Italia stentano ad avere un minutaggio degno del loro nome e dello spettacolo che sanno offrire.

Tanta ombra, diversi stand con una discreta proposta culinaria per la media dei festival metal italiani, molte panchine e sedie per i più pigri. Di contro una fila interminabile alla griglia dei panini e prezzi che purtroppo non sono popolari come quelli della precedente edizione (dove l’organizzazione aveva imposto ai gestori del reparto birra e cibo a quote accessibili).

 

Flashback of Anger
(Alessandro ‘Zac’ Zaccarini)

Devono aprire l’Evolution combattendo un sole che picchia senza pietà su Firenze e un pubblico a dir poco ancora disinteressato, reduce da una nottata alcolica passata tra i cespugli del parco che fronteggia l’ippodromo o abbattuto dalle temperature elevatissime. Se la cavano bene, facendo tutto quello che ci si aspetta da un gruppo giovane chiamato ad aprire un festival importante. Peccano sicuramente di originalità, ma suonano il loro metal in maniera compatta e concedono agli amanti delle sonorità classiche, veloci e dirette, una boccata d’aria prima di un bill che tornerà su questi sentieri soltanto in parte con i Kamelot ma soprattutto con gli schiacciasassi Sodom nel tardo pomeriggio.

Kingcrow
(Nicola “nik76” Furlan)

Una bella sorpresa davvero i romani Kingcrow, prog rock band che per seconda sale sul palco di questo Evolution Festival 07. Dovessi riassumere la prima impressione che mi hanno dato, lo farei con due termini: determinati ed efficaci. Determinati perchè in tutto il corso dell’esibizione hanno saputo esprimere con marcato e caratteristico rock-style ogni singolo brano della setlist; efficaci perchè hanno ampiamente dimostrato di saperci fare sia dal punto di vista tecnico che dell’interazione. Freschi da fine 2006 del nuovo full-length “Timetropia” la band presenta dallo stesso ben tre brani, ovvero l’opener Between Now and Forever, Fractured e la tanto attesa A Merry-Go-Round, semi-masterpiece di un disco che rappresenta ottimamente una scena nostrana in continua crescita e che non sta riscuotendo i giusti onori. La tripletta di apertura permette ai musicisti di dare prova delle capacità tecniche ormai consolidate. Tra il cantato caldo e profondo di Gelsomini, alle esecuzioni precisissime degli axemen Diego Cafolla e Nastasi si instaurano dei comparti ritmici di grande presa grazie alle pesanti battute rock di Thundra Caffola e dei virtuosismi fusion oriented di Angelo Orlando. La mescola del tutto realizza uno show godibilissimo, vario nelle interpretazioni e in definitiva vincente anche grazie a dei suoni davvero ben settati. Chiude la scaletta The Killing Hand, mentre resta fuori un brano dalla scaletta prevista, per mancanza di tempo. Piacciano o no (la soggettività è sempre un valore molto personale) hanno saputo dare ulteriore conferma che il panorama nostrano è in continua crescita e nel loro caso possono davvero annoverarsi come uno dei gruppi di punta della scena progressive rock del nostro stivale, e questo è motivo di orgoglio. Avanti così.

Setlist: Between Now and Forever, Fractured, A Merry-Go-Round, The Killing Hand

Gory Blister
(Andrea Frego)

E’ finito il turno dei KingCrow, lo speaker sale sul palco e sbraita a squarciagola : chiede supporto per la prossima band, una band nostrana che tiene alto l’onore del metal italiano, 100% death! Sembra tutto perfetto ma qualcosa va storto… Si comincia con l’intro Procession To Apocalypse, come da cd (Skymorphosis). Al suo termine i Gory aspettano una decina di secondi prima di attaccare la folla con Asteroid, il che rovina quell’impatto che dona il cd di un passaggio immediato dei synth introduttivi alla prima vera e propria track. E da qui qualcosa non va per il verso giusto : l’assolo introduttivo di Asteroid è molto debole; il basso, unico strumento che garantisce il tappeto ritmico sotto le parti solistiche (non c’è la seconda chitarra) si sente davvero poco…troppo poco! Quell’impatto che donano i volumi perfetti del cd non si è presentato sul palco dell’Evolution e tutto ciò a causa di una pessima regolazione dei volumi. Che sia colpa della fretta? Il festival è iniziato con circa una mezz’ora di ritardo e oltre ai volumi i Gory sono stati penalizzati da 5 minuti a loro tolti che non hanno permesso di eseguire Sailing To Achernar, uno dei pezzi più belli e geniali presentati nell’ultimo album. Dal punto di vista musicale però non si può negare loro assolutamente nulla : le canzoni sono state eseguite perfettamente  e hanno saputo coinvolgere in ogni caso il pubblico che ne è rimasto soddisfatto. La tracklist comprende tutte canzoni tratte dall’ultimo album fatta eccezione per Anticlimax. Buona la prestazione di Clode, che si dimostra gia rodato ed integrato nel resto della lineup! Emozionante la chiusura del concerto con la cover di 1000 Eyes  (in cui è scoppiato un pogo assurdo) e il successivo outro (come da cd) con la voce di Chuck. I Gory Blister sono quindi un gruppo che sa regalare emozioni su cd ma che sa fare molto meglio dal vivo. Una regolazione non adeguata dei volumi ha sicuramente peggiorato un’esecuzione che sarebbe stata impeccabile e di grande successo.

Behemoth
(Nicola “nik76” Furlan)

Non era di certo l’ora adatta per uno show dei polacchi, ma ripensandoci bene lo è stata. Perchè? E’ presto detto: era un inferno, e le temperature ardenti di metà mattinata hanno amplificato la percezione e il dolore partorito dagli strumenti di tortura dei quattro polacchi e della malvagia ugola di Nergal. Ho assistito di recente a concerti in cui brutal o grind costituivano i dettami per una serata all’insegna del massacro sonoro, ma mai in vita mia ho visto una band saper sputare sangue infiammato come loro. Il rendimento on-stage è stato mantenuto a livelli elevati per tutta la durata dello show alimentando, brano dopo brano, la voglia di assaggiare quello che di più brutal offre al momento il mercato in sede live. Tra i brani che vengono passati in rassegna si ascrivono Conquer All, Summoning of the Ancient Gods, Prometherion (vera perla tratta dall’ultimo full-length di recente release “The Apostasy”), Slave Shall Serve e in chiusura quel capolavoro che di nome fa Chant for Eschaton 2000. I valori condivisi dal combo sono malvagità, epicità e veemenza. È come se su quel paclo si fossero presentati quattro generali dell’armata dell’inferno e, a suon di oscuro e gutturale clamore, avessero ulteriormente aizzato l’entusiasmo dei presenti per un soddisfacimento generale che si spargeva di bocca in bocca ai chioschi dopo la conclusione dei brani. Non si può che parlar bene di un gruppo così capace e in continua crescita (sentire “The Apostasy” per credere). Bene anche la pulizia dei suoni a corollario del tutto. Promossi con lode.

Kataklysm
(Claudio Casero)

Dopo un breve cambio palco è la volta dei canadesi Kataklysm che, forti del loro ultimo lavoro “In the arms of devastation” si presentano sul palco pronti a macinare violenza. Purtroppo però le cose non vanno per il verso giusto: prima di tutto i suoni (unico vero grosso problema che ci perseguiterà per tutto il festival N.d.R.) non sono sicuramente dei migliori, tant’è vero che la band è costretta a fermarsi più volte durante lo show, perdendo così mordente e distogliendo l’attenzione da parte del pubblico. Come se non bastasse la band non sembra di certo in forma smagliante costellando la performance con errori di vario genere. Solo dopo, durante la conferenza stampa si verrà a conoscenza del fatto che le spie sul palco praticamente non funzionavano e che i componenti della band non sentivano quasi nulla di quello che facevano. Nonostante questi enormi problemi, i Kataklysm sono però riusciti a proporre uno spettacolo più che dignitoso soprattutto per quanto concerne l’esecuzione di brani maggiormente datati appartenenti a “Sorcery & the mystical gate of reincarnation” e “Temple of knowledge” che riscuotono un ottimo successo da parte del pubblico che inizia ad agitarsi e a pogare. Anche la band canadese è costretta a ridurre la durata dello spettacolo che dura poco più di mezzora che ci lascia l’amaro in bocca e la voglia di sentire di nuovo i veri Kataklysm!

Cynic
(Nicola “nik76” Furlan)

Un gruppo che rappresenta un intero periodo storico. Chi ha vissuto la scena death metal degli anni novanta sa di cosa parlo. Gli anni d’oro del made in Florida (e non solo) hanno trovato l’età dell’oro proprio nel primo lustro 90’s. E, come ogni periodo fortemente ispirato, quegli anni hanno visto un maremoto di band pronte a sommergere interi continenti con la loro musica estrema. Ci sono state però anche alcune gocce che sono schizzate via nell’impatto dell’onda col mercato discografico mondiale. Gocce la cui conformazione presentava anomalie rispetto il trand generale: maggiore valore tecnico, sperimentazione di suoni e songwriting, perfezione e assoluta innnovazione. I Cynic di Masvidal e Reinert sono stati una di queste gemme di limpida purezza artistica. Ritrovarli ora all’Evolution davanti a pochi intimi a riproporre le mistiche atmosfere di Veil of Maya, il viaggio metamusicale di Celestial Voyage, l’eco asettico e spaziale di una Sentiment o le marcate strutture fusion di che mr. Chris Kringel ha saputo ricamare su Textures (per citarne alcune), mi hanno lasciato quasi interdetto tra la voglia di esplodere l’energia interna e la necessita di  adagiarmi estasiato davanti a tanta perzia tecnico/espressiva. E c’è stato anche il tempo per Evolutionary Sleeper, nuovo brano che lascia molto ben sperare per il prossimo studio album in lavorazione. Insomma questa era un’occasione da non perdere: maestri, geni, mostri di bravura, chiamateli come volete, al di là di tutto questo concerto è stato un capolavoro per esecuzione e per l’importanza storica dell’aver potuto assistere alla messa on-stage di un masterpiece come “Focus”. Unica pecca una bella frittura di amplificazione sul solo di Reinert e dei suoni che non hanno totalmente reso onore alla qualità del quartetto. Bravissimo Giacomo Bortone, vincitore del concorso indetto dal combo statunitense che avrebbe fatto salire sul palco un giovane a cantare Uroboric Froms. Il cantante dei toscani Dysthymia, sebbene visibilmente emozionato, ha dato molto riuscendo a conquistarsi, oltre che il merito di condividere con Masvidal e soci l’esibizione, anche una buona memoria di se ai presenti. Applauso meritato. Concludendo: fortunato chi c’è stato, mea culpa a chi li ha amati e non ha colto l’opportunità fiorentina.

Setlist: Veil of Maya, Celestial Voyage, The Eagle Nature, Sentiment, I’m But A Wave To…, Evolutionary Sleeper, Textures, Uroboric Forms (ospite alla voce Giacomo Bortone), How Could I

Kamelot
(Riccardo Angelini)

La scorpacciata di metal estremo deve ancora concludersi, ma tocca ora ai Kamelot concedere una breve parentesi melodica a un pubblico messo alla prova da ore di headbanging sotto il sole di mezzodì. L’impressione sovente lasciata dalle ultime prove da studio della band è sintetizzabile in un agrodolce “bravi, ma…”: non troppo dissimile il giudizio che ricade sulla sua prova odierna. Certamente l’esecuzione è pulita e scorrevole, la setlist regala perle come “Forever” e “March of Mephisto” che il pubblico dimostra di gradire, ciononostante il concerto stenta a decollare. Lo stesso Roy Khan, dopo un esordio interlocutorio, non riesce a coinvolgere la folla come sarebbe lecito aspettarsi, e ben presto l’attenzione dei curiosi finisce per scemare, lasciando i soli fan sotto il palco ad acclamare i propri beniamini. Alla fine si può dire che la band abbia svolto diligentemente il proprio compitino, ma da gente come loro ci si aspetta sempre di più.

Sodom
(Claudio Casero)

Giunge finalmente il turno dei teutonici Sodom, attesi da parecchie persone e anche dal sottoscritto. Non appena i nostri salgono sul palco tra il pubblico inizia a scatenarsi l’inferno; lo scenario diventa poi a dir poco apocalittico fin dalle prime note: il pogo allucinante alza un polverone degno del Sahara per la contentezza di Angelripper e soci che sorridono compiaciuti alla vista di tanto entusiasmo. Passano così fin troppo veloci i pochi minuti in cui viene relegato lo spettacolo del terzetto tedesco, costretti a tagliare la scaletta a causa dei ritardi accumulati in precedenza. Ciò nonostante il combo non manca di stupire con classici come “Agent orange”, “Blasphemer” e “Bombenhagel” che arrivano ai nostri padiglioni auricolari come un muro impenetrabile di potenza ed energia riuscendo a fare scatenare anche coloro che non si trovavano nelle prime file. Il vero tripudio avviene però sulle note della cover di “Ace of spades” suonata ancora più veloce rispetto all’originale song dei Motorhead. Anche questa volta i Sodom non hanno deluso riuscendo a proporsi in maniera divertente e violenta al tempo stesso; sia chiaro che gli errori ci sono stati, ma passano sicuramente in secondo piano nel complesso.

Fates Warning
(Riccardo Angelini)

Più d’uno si sarà chiesto quanto potesse essere appropriato l’inserimento di una formazione di ingegneri del pentagramma come i Fates Warning in un festival dominato da band di forsennati picchiatori armati di mazze e spade. Tuttavia, non appena il team di Matheos fa il suo ingresso sul palco tutti i dubbi sono spazzati via in un istante. Impressionante la tenuta tecnica – ma questo si sapeva – e ancora più impressionante la presa che pezzi come “One” o “Point of View” dimostrano di avere dal vivo, con il folletto Ray Alder a coinvolgere un pubblico subito partecipe ed entusiasta. Peccato soltanto che dopo l’esibizione dei Sodom i problemi fonici si moltiplichino a dismisura (forse neanche gli altoparlanti sono passati indenni sotto il torchio di Onkel Tom?), a detrimento della qualità del suono per tutte le band successive, a partire dagli stessi Fates. Tali impedimenti tecnici non impediscono tuttavia ai ragazzi del Connecticut di mettere in piedi un’esibizione da applausi, serrata e coinvolgente, che senza dubbio i presenti ricorderanno a lungo. Speriamo solo che dopo questo squisito primo assaggio quei quattro non ci facciano aspettare troppo a lungo prima di rimettere piede nello Stivale.

Virgin Steele
(Riccardo Angelini)

C’è grande attesa per lo show di Defeis e soci, a conti fatti l’unica formazione fedele al Verbo della tradizione heavy classica presente al festival. Comprensibile lo sconcerto che si dipinge sui volti dei presenti di fronte a una terrificante “Immortal I Stand” pressoché ridotta a strumentale dalle incessanti traversie dell’impianto sonoro. I problemi al microfono sono infatti lungi dall’essere risolti, e a poco valgono gli sforzi di un Defeis che forza in continuazione l’acuto sul ritornello nel tentativo di far udire la propria voce, ottenendo soltanto di incappare in qualche stecca di troppo. Serviranno ancora un paio di pezzi prima che il livello dei suoni si stabilizzi in modo accettabile, poi finalmente la band ingrana. E quando ingrana, non ce n’è più per nessuno. Il buon vecchio David macina chilometri correndo e saltando per tutto il palco con l’ardore di un ragazzino – a dimostrazione del fatto che l’attitudine non si compra al supermercato – mentre le chitarre sputano i riff di fuoco di classici quali “The Wine of Violence”, “The Voice as Weapon” o “Great Sword of Flame”. In prossimità del finale chitarra e batteria si ritagliano anche una fetta di gloria personale nell’immancabile cerimonia degli assoli. Il climax di esaltazione raggiunge infine il proprio apogeo nell’aulica “Veni, Vidi, Vici”, epico commiato di una band che con ventisei anni suonati di storia alle spalle dimostra di avere ancora tanto da insegnare alle nuove generazioni.

Nevermore
(Nicola “nik76” Furlan)

C’è qualcosa che non va. Passano i primi brani e, complici pure dei suoni del tutto inopportuni, la band continua a non rendere per quello che mi aspetto. Poco coinvolgimento e un muoversi sul palco in maniera alquanto contenuta non erano di certo ciò che mi attendevo dalla band di Warrel Dane & Co. Solo poi si è venuti a sapere che il singer aveva avuto, nel corso di tutta la giornata, un mal di schiena che ha intaccato la sua intera esecuzione. Prendo allora atto e valuto di misura lo show. La band ha suonato bene: niente sbavature per una prova ineccepibile dal punto di vista tecnico, soprattutto sulle indimenticabili esecuzioni delle parti soliste di Jeff Loomis. Se poi ci si mettono pure i problemi di tempo (si era in leggero ritardo sulla tabella di marcia e i problemi di ciò hanno condizionato anche gli headliner n.d.r.) che inducono il combo statunitense a tagliare la scaletta, allora non si può parlare di pieno soddisfacimento da questa esibizione. Ho avuto l’impressione che i brani tratti da “Dreaming Neon Black” abbiano costituito i momenti più vincenti della serata (nello specifico sono rimasto molto ben impressionato soprattutto da No More Will e Deconstruction) alla pari con la messa in opera della title track di “This Godless Endeavor” e dell’immancabile capolavoro Born (penalizzata anche qui da settaggi sonori alquanto scarsi). In conclusione una serata un po’ sfortunata: suoni, problemi fisici, taglio della setlist hanno ridotto il potenziale artistico di una band da cui è lecito aspettarsi molto, ma che limitata in questo altro non ha potuto far che suonare come sa. E lo ha fatto, perchè se c’è una cosa che non si può additare ai cinque è la bravura. Capiterà altra occasione per poterli apprezzare a 360°, su questo non c’è dubbio.

Sebastian Bach
(Alessandro ‘Zac’ Zaccarini)

Partiamo dalla fine. Il “taglio” di Youth Gone Wild. Ovviamente, come sempre, la maggior parte del pubblico si è subito schierato dalla parte dell’artista senza pensarci due volte, additando forze dell’ordine e organizzatori come le entità maligne che hanno rovinato il classicissimo di chiusura; ma la verità è ben diversa. Le ragioni dell’accaduto sono già state chiarite dagli organizzatori con un comunicato chiaro e ineccepibile, ma vale la pena ribadirle in questa sede.

Insomma, com’è possibile che Sebastian Bach, professionista ben pagato che da 20 anni gira palchi di tutto il mondo, ancora non sappia gestire il proprio show nei tempi che gli vengono assegnati? O forse il peccato è di superbia, cioè Bach pensava di poter fare il bel e cattivo tempo, ignorando i ripetuti avvisi e spalando col sorriso dai limiti orari concessi? Non si sa, quello che è sicuro è che a rimetterci sono stati ancora una volta gli spettatori, che questa volta è meglio che lascino stare chi come le forze dell’ordine stava facendo il proprio lavoro (con l’attitudine di un avvoltoio, sì, ma pur sempre il proprio lavoro) o chi ha provato in tutti i modi di far notare a Bach il tempo tiranno (tour manager, organizzazione, fonici del palco). Qui non si tratta tanto di elasticità mentale (che comunque è mancata, al solito, da parte delle forze dell’ordine) o di due minuti in più; si tratta di saper fare il proprio lavoro con professionalità. Cosa che purtroppo Sebastian Bach questa volta non ha fatto.

L’ex Skid Row si presenta sul palco nel suo classico stile e toglie ogni dubbio sull’impronta dello show aprendo con Slave to the Grind. Traccia dopo traccia la scaletta risulta essere quella di sempre, la stessa di ‘Bring’ em Bach Alive’ e la stessa che da qualche anno Bach porta in giro per il mondo. Solito boato per ‘18 & Life’, proposta nei primi venti minuti dello show, e gradimento che va salendo a intervalli irregolari: più il brano è un classico, più la gente risponde positivamente. L’ottima ‘Monkey Business’ è solo un preludio alla monumentale accoppiata finale che propone i due classicissimi di casa Skid Row: la strappalacrime ‘I Remember You’ e ‘Youth Gone Wild’, che Sebastian canta illuminandosi il volto con una piccola torcia per combattere il buio giunto a fare da preludio al taglio che da lì a poco avrebbe mutilato lo show proprio nel suo momento migliore.

In definitiva un concerto nella norma per il cantante del New Jersey, che non ha perso l’abitudine di ruotare il microfono stile lazo e di interagire con le prime file con una notevole attitudine da rock star. Piuttosto mediocre invece la prestazione dei compagni di palco: una band moscia e disinteressata, più intenta a portarsi a casa il pane quotidiano come un buon mercenario piuttosto che cercare di aggiungere qualcosa allo show del proprio capitano. Alla fine sembra che dal palco ci sia passato solo il vecchio Seba, e sia nel bene che nel male, almeno lui, il suo segno l’ha lasciato.