Report: Gods of Metal 2007
Gods of Metal 2007
Idroscalo, Milano – 2 e 3 giugno 2007
Ci sarebbe da parlare davvero tanto sull’aspetto non musicale dell’evento metal più grande d’Italia. Noi preferiamo lasciare il palco alla musica e limitare tutta la dimensione esterna a quelle che, secondo il parere di chi scrive, sono state le tre cose migliori e peggiori del Gods of Metal 2007.
Up – Palco secondario
Ottima l’idea, presa dai grandi festival stranieri, di allestire un secondo palco, dove far esibire band “minori”, per riempire l’attesa o offrire un’alternativa a chi magari non è interessato all’esibizione in corso. Ottima anche la mossa di marketing di promuovere le band secondo giuria popolare attraverso myspace. Certo band devastanti come gli Hyades sarebbe bello vederle sul palco principale, ma intanto anche questo nuovo palco è già qualcosa…
Up – Prezzi del cibo
Incredibile ma vero, il costo di cibo e birra all’interno dell’area festa sono calati. Non siamo ancora a livelli di prezzi popolari e la qualità dei prodotti in vendita resta sempre piuttosto scarsa, ma in questa edizione si è vista la voglia di migliorare, e questo non può che farci piacere.
Up – Suoni
Un miglioramento notevole per i suoni di questo Gods of Metal. Per anni abbiamo assistito a veri e propri stupri, tagli, valori sballati, chitarre che si sentivano soltanto da un lato del palco e chi più ne ha più ne metta. Non nel 2007: i problemi sono stati minimi, e le prime band finalmente non hanno dovuto fungere da tester per chi avrebbe suonato dal pomeriggio in poi.
Down – Immondizia
Ecco la cosa peggiore in assoluto, qualcosa su cui non possiamo proprio soprassedere: la totale assenza (o quasi) di contenitori per l’immondizia. Risultato: dopo un paio d’ore i quattro bidoni fissi del parco erano già stracolmi, mentre neanche a metà giornata si erano già creati qua e là grossi mucchi di rifiuti, con il classico odore che si propagava nell’aria (specialmente domenica, complici i 30 gradi) e un impatto visivo non esattamente piacevole.
Down – Fango
Si potrebbe dire che in questa edizione il Gods abbia “goduto” di un fango degno dei festival tedeschi. Peccato che sia mancata la prontezza germanica nel gestire una situazione che le previsioni meteo avevano annunciato da diversi giorni. Alla fine il pubblico si è dovuto arrangiare in guadi improvvisati e ripari di fortuna, per tornare a casa infangato fino alle ginocchia.
Down – Band e orari
Da anni questa è la politica del festival: cercare di chiamare più grossi nomi possibile (il che significa più biglietti, quindi dal punto di vista puramente economico il concetto non fa una piega) per poi sacrificarne qualcuno a un minutaggio ristretto, prezzo da pagare per averli tutti. Si può condividere come no. Per quanto riguarda chi scrive, la qualità è sempre più apprezzabile della quantità, e forse è meglio vedere sette bands al massimo piuttosto che dieci amputate di un pezzo della loro storia. Sicuramente ampliare il bacino di gruppi e introdurre qualche nome nuovo, magari rinunciando a qualche act più blasonato, non farebbe male e darebbe l’opportunità di dare a tutti ciò che si meritano, sia fan che artisti. È un peccato vedere band come Blind Guardian, Scorpions, Thin Lizzy e compagnia salire sul palco di pomeriggio, lontano dalle atmosfere che si meritano.
SABATO 2 GIUGNO
PLANET HARD a cura di Alessandro “Zac” Zaccarini
Mentre la maggior parte della gente è ancora alle prese con le file esterne e l’ingresso nell’arena i Placet Hard aprono l’undicesima edizione del Gods of Metal: pochi minuti sono bastati alla band guidata da Marco Sivo per lasciare il segno con la propria musica e mostrare a tutti il proprio valore. Già in sede di recensione avevo parlato di quanto questa band avesse le carte in regola per fare il grande salto, e sul palco del Gods of Metal il giovane combo italiano mi ha dato ragione, conquistando in breve i pochi spettatori presenti.
GLYDER a cura di Alessandro “Zac” Zaccarini
Arrivati nel pacchetto irlandese insieme ai Thin Lizzy, questa neonata formazione (già conosciuta in sede di recensione) ci regala una mezzora di tipico classic rock dell’Isola di Smeraldo. Bravi e professionali, vengono seguiti con piacere da chi già ne ha gustato qualche nota su disco, ma hanno la “pecca” di essere poco conosciuti qui in Italia e così vengono ignorati abbastanza da un pubblico ancora assopito o addirittura completamente disinteressato.
ELDRITCH a cura di Nicola “nik76” Furlan
Onore prima di tutto per il ricordo che i nostrani omaggiano a un ragazzo di recente scomparso e che sarebbe stato uno dei nostri in questo week-end metal in quel dell’Idroscalo. La band è alla seconda apparizione sul palco del Gods of Metal, eppure mostra di sè un lato professionalmente sfrontato, come coloro che sanno di aver la possibilità per dimostrare davvero quanto valgono. Operazione riuscita, perlomeno sul piano tecnico esecutivo. Quasi nessuna sbavatura, anche se non sempre si riesce a percepire quel tiro dal quale si vuol venir colpiti da là sopra. C’è movimento, c’è anche coinvolgimento, ma altrettanto c’è da fare per riuscire a perforare chi ascolta. Sarà un po’ per il target giornaliero abbastanza orientato al vintage del rock appariscente, sarà perchè non tutti erano freschi dei pezzi del nuovo e recente studio album “Blackenday”, ma l’idea è che di strada da fare ce ne sia da percorrere. Profondi complimenti infine a Terence Holler per la prestazione al microfono di una canzone come From Out Of Nowhere dei Faith No More tratta da un capolavoro come The Real Thing e come tale soggetta a sensibilità critica notevole, ma che qui ammetto davvero eseguita alla grande.
TIGERTAILZ a cura di Nicola “nik76” Furlan
I gallesi Tigertailz, bagaglio in mano, eseguono il loro street glam con dovizia e precisione. Pensare alla solita dualità contrapposta tra Europa e America fa credere che effettivamente il nostro continente è in grado di controbattere, ora come al tempo, ogni proposta lanciata dal grande successo del mercato d’oltreoceano. Il chitarrista John Pepper, il bassista Pepsi Tate e compagni salgono on-stage sempre carichi di quella sfrontatezza da star che pomposamente ha fatto lievitare le ambizioni di un genere che conserva ancora tutto il suo fascino attraverso band come queste. L’esibizione è energica, i suoni a dire il vero un po’ meno. Con maggior cura nel settaggio dei bassi la deflagrazione street avrebbe avuto maggior risalto. La setlist appoggia maggiormente sui brani dell’ultimo disco “Bezerk 2.0” (2006), ma la sostanza colta è che se ne vedranno ancora delle belle da questi violenti e romantici personaggi anglosassoni.
WHITE LION a cura di Nicola “nik76” Furlan
Ed ecco arrivare il turno dei White Lion. La storica band americana non ha più quel fascino hair metal di primi anni ’80, però i ragazzi ci sanno ancora fare. Il frontman Mike Tramp canta davvero bene, sempre alto di tono, sempre molto ispirato, sembra non aver perso poi chissà quanto smalto,
nessuna inflessione rilevata così come non peccano nemmeno i compagni di palco. Convince Jamie Law alle sei corde e pure si fà ricordare Henning Wanner dietro la tastiera con le sue linguacce spiritose al pubblico. La band caccia fuori dal cilindro alcune chicche come Broken Heart e Wait per la felicità degli irriducibili rockers e glamsters presenti sotto la pioggerellina di metà giornata. Quello che si è colto è una grandissima attitudine al palco per delle anime rock che ne hanno ancora molte da raccontare.
THIN LIZZY a cura di Alessandro “Zac” Zaccarini
Signori e signore, che emozione! Phil non c’è più, ma come succede per tutte le grandi menti della storia di queste strane creature che chiamiamo esseri umani, non basta la morte a spazzare via il ricordo e l’eredità artistica di chi ha saputo innalzarsi sopra gli altri. Tocca a John Sykes tenere vivo quel pezzo di musica rock che porta il nome di Thin Lizzy, e lo fa in maniera splendida, aiutato ovviamente da una band che ha nel sangue una classe e una sensibilità che non si può né comprare né insegnare. Si parte subito forte con la classicissima Jailbreak, un vero e proprio canto di sirena per tutti coloro che oggi, all’idroscalo, hanno il rock nel cuore. È un piacere vedere le creature del buon Lynott vivere ancora e entusiasmare chi, come il sottoscritto, non appartiene a quella generazione. D’altronde questa è la grandezza della musica: incarnare e allo stesso tempo trascendere il proprio tempo. Tutto questo è ciò che si è respirato all’idroscalo, in quello che è stato quasi un vero e proprio tributo all’uomo di West Bromwich. Una Whiskey in the Jar al posto dell’assolo di batteria avrebbe fatto la felicità di molti, ma anche così, se posso permettermi di osare e col permesso degli Heaven & Hell, i Thin Lizzy rischiano di portarsi a casa il trofeo di miglior band del festival, nonostante un posto in scaletta che non rispecchia quello che questa band ha fatto per il rock.
Setlist: Jailbreak / Waiting For An Alibi / Don’t Believe A Word / Cold Sweat / Are You Ready / Bad Reputation / Suicide / Massacre / Cowboy Song / The Boys Are Back In Town / Black Rose
SCORPIONS a cura di Alessandro “Zac” Zaccarini
Dopo la ‘A Night to Remember’ dello scorso Wacken era tanta la voglia di riassaporare gli Scoprions dal vivo, anche se l’idea di vederli salire sul palco prima dei Velvet Revolver (un gruppo che se non avesse Slash venderebbe quanto gli altri 1000 cloni dei Guns in giro per il pianeta, cioè poco o nulla) lasciava al sottoscritto abbastanza amaro in bocca. A sorpresa però gli Scorpions sono apparsi abbastanza sottotono, specialmente Klaus Meine, il quale più di una volta arretra sulla linee vocali che undici mesi or sono aveva divorato senza problemi. L’esibizione stenta a decollare e necessita dei pezzi da 90 per assestarsi su livelli degni del nome in questione: è appunto quando la band ricorre alle proprie cartucce migliori e butta in pasto all’idroscalo Blackout, Big City Nights e Dinamite, una dietro l’altra, che comincia a uscire la grinta vera degli Scorpions. I problemi si fanno invisibili ma non svaniscono, e si ripresentano nel classicissimo Rock You like An Hurricane, proposto in tonalità notevolmente più bassa per dare modo a Klaus di non sfigurare troppo. Piacevoli, ma sinceramente non entusiasmanti, come invece era lecito aspettarsi date le performances dello scorso anno.
VELVET REVOLVER a cura di Nicola “nik76” Furlan
Una bella emozione vedere là davanti al tuo naso un chitarrista come Slash, presente del rock e storia di una band che ha lasciato nella memoria di tutti un masterpiece come “Appetite for Destruction”. A voler essere precisi Slash e Duff. Certo, l’ex Stone Temple Pilots Scott Weiland non ha una doppia lama al posto dell’ugola, come i più ricorderanno in Axel, però tirando le somme è preferibile così. La personalità c’è, la musica pure. Il combo si esprime a buonissimi livelli, sia in termini di coinvolgimento che di proposta musicale. Per l’occasione vengono riproposti due pezzi del capolavoro sopra citato e più precisamente It’s so Easy e Mr. Brownstone, che vanno a infarcire delle piccole gemme di malsano rock come Sucker Train Blues, Just Sixteen o She Builds Quick Machines (questi ultimi due tratti dall’ultimo full-length Libertad). Come sempre non manca nemmeno Wish You Were Here degli immortali Pink Floyd. Birra in mano il tempo è passato alla grande.
MOTLEY CRUE a cura di Alessandro “Zac” Zaccarini
Niente nani (purtroppo) e poche chiacchere (finalmente) per questo show targato Motley Crue al Gods of Metal 2007. A dire la verità i ragazzacci californiani non sono esattamente in gran forma, e nonostante Mike Mars sia apparso in condizioni di salute migliori dell’ultima volta e Tommy Lee picchi ancora che è un piacere (complici dei suoni assolutamente perfetti) la band perde qualche colpo rispetto all’esibizione di un paio di anni fa. L’anello più debole risulta essere Vince Neil, che tra l’imbarazzo dei compagni di palco si lascia andare anche in una clamorosa gaffe su Primal Screm, cantando il ritornello sui riff della strofa dopo essersi completamente perso per strada.
Ora però veniamo al rock’n’roll: quello non è mancato. Non saranno più i Crue degli anni ’80, ma alla fine dello show – che tocca l’apice di gradimento del pubblico durante un inaspettato trittico di madonne di Tommy Lee – non c’è davvero nessuno che possa dire di non essersi divertito. Si parte con Dr. Feelgood e si arriva a Kickstart My Heart (salvo ancore con la consueta Anarchy In The U.K.) attraverso tutti i momenti topici della carriera dei Motley Crue. In evidenza, oltre al terzetto di apertura Dr. Feelgood/Shout At The Devil/Wild Side e il finale Girls, Girls, Girls/Kickstart My Heart, lo spettacolare momento centrale con Same ‘Ol Situation e Home Sweet Home. Onestamente meno in forma del 2005, ma decisamente più compatta e concreta, il che non guasta e bilancia lo show troppo dilatato del Parco Nord di Bologna.
Saranno pure i soldi a tenere incollati questi quattro folli, ma finchè suonano così e mettono in scena uno show di questo tipo, non c’è proprio da lamentarsi.
Setlist: Dr. Feelgood / Shout At The Devil / Wild Side / Look That Kill / Live Wire / Same ‘Ol Situation / Home Sweet Home / Girl Don’t Go Away Mad / Time For Change / Louder Than Hell / Sick Love Song / Primal Screm / Girls, Girls, Girls / Kickstart My Heart – Anarchy In The U.K.
DOMENICA 3 GIUGNO
ANATHEMA a cura di Mirco “Oas” Aserio
Poco dopo le 12,30 ecco presentarsi all’Idroscalo i Britannici Anathema, consoni di una proposta musicale ormai ben lontana da un palco da Gods of Metal, e un orario di esibizione non certo adeguato al mood del gruppo.
Nonostante ciò il pubblico presente sembra gradire abbastanza il ritorno in Italia dei cinque di Liverpool, che mancavano dalla nostra terra da ormai due anni, complice la preparazione del nuovo album (in uscita) e i problemi di etichetta dopo lo scioglimento della Music For Nations. L’esibizione è molto buona, nonostante all’inizio non manchi qualche problema alla chitarra di Vincent e il suono sia leggermente impastato. La scelta dei brani spazia dalla classica “Fragile Dreams”, proposta in apertura, a pezzi più complessi e meno d’impatto come “Closer” o “A Natural Disaster”, quest’ultima accompagnata sul palco anche dalla bellissima voce di Lee Douglas (ormai sesto membro del gruppo). Non mancano comunque gli sprazzi degli Anathema che furono, con l’esecuzione di “Slepless”, dal primo album del lontano 1993. Il finale è lasciato alla cover Pinkfloydiana “Comfortably Numb” pezzo che risveglia in parte il pubblico. Promossi, e li aspettiamo nei locali una volta che il nuovo attesissimo disco sarà nei negozi.
Setlist: Fragile Dreams / Closer / A Natural Disaster / Judgement-Panic (medley) / Sleepless / Empty / Comfortably Numb (Pink Floyd)
SYMPHONY X a cura di Nicola “nik76” Furlan
Sentire Russel Allen dà sempre molto piacere, da solista ancora di più. Come molte altre band (chi ricorda gli Opeth?…) i festival non sono certo la cornice più consona a ospitarne le prestazioni. I Dream Theater ce l’ hanno fatta, però hanno sparato fuori un certo Images and Words che anche i gatti conoscono. Il progressive dei Symphony X è da intima location, nella quale puoi cogliere ogni minima sfumatura, con l’occhio e naturalmente l’orecchio. Tralasciando la possibilità oggettiva di cogliere visivamente i tecnicismi di Romeo & Co. si deve far presente che nemmeno l’udito ha goduto del necessario per poter allontanarsi felice in direzione del chiosco a fine esibizione. Il settaggio alle casse è stato scadente per l’ennesima volta. Le alte frequenze ed i volumi elevati hanno amalgamato il tutto facendo perdere con reiterata cadenza ogni percezione dell’esecuzione di
arrangiamenti, ritmiche e, non ultimo, degli assoli. Ritengo la cosa incettabile quando si parla di generi musicali dove la papilla gustativa cerca ogni minimo sapore musicale da gustare. Concorderete con me che ci si deve aspettare un quid in più per volare sulle note dei pezzi di “The Divine Wings of Tragedy”. Alla prossima occasione, sperando che qualcuno di competente aiuti la resa sonora.
DARK TRANQUILLITY a cura di Mirco “Oas” Aserio
Poco dopo l’esibizione dei Symphony X, ecco giungere sul palco la band di Stanne e soci. Il nuovo disco, Fiction, è nei negozi ormai da qualche mese e infatti l’esibizione è incentrata principalmente sui pezzi di quest’ultimo e degli album appena precedenti. La band pare come sempre in ottima forma e l’esecuzione è pressoché perfetta. L’incipit è affidato a due pezzi da Fiction, “Terminus” e “The Lesser Faith” si succedono sul palco per aprire lo show degli svedesi.
Stanne fornisce un ottima prestazione vocale e la sua presenza è sempre carismatica e coinvolgente, ma questa non è di certo una novità. Il pubblico è ben coinvolto e anche chi non apprezza solitamente il genere sembra apprezzare la proposta della band. Sul palco si alternano pezzi dagli ultimi album, quali “The Treason Wall”, “Final Resistance”, “Blind at heart” dal nuovo Fiction, e l’ottima “The Wonders At Your Feet”. L’esibizione si avvicina al termine ed ecco l’ormai storica “Punish My Heaven” a rappresentare il primo ciclo della band. La chiusura vera e propria invece è affidata a due pezzi da Character, “The New Build” e “My Negation”. Promossi a pieni voti, inutile dire che fra i gruppi della scena metal degli ultimi anni, i Dark Tranquillity sono indubbiamente fra i più coinvolgenti e bravi sul palco, ora aspettiamo solamente di poter assistere al tour di Fiction nei locali.
DIMMU BORGIR a cura di Nicola “nik76” Furlan
Non sono soddisfatto. Riservavo estrema curiosità per Shagrath e compagni, riponevo altrettanto entusiasmo per aspettative emozionali che credevo mi avrebbero abbracciato con violenza e adrenalina, soprattutto dopo aver metabolizzato per bene “In Sorte Diaboli”, ultimo album dei norvegesi. Invece sono rimasto deluso. Primo: suoni settati malissimo, buttati su a casaccio hanno messo in sordina soprattutto le parti di chitarra, con continuo disappunto facciale di Mr. Silenoz che sembrava fulminare con lo sguardo il fonico a ogni secondo. Secondo: deludente l’interazione di un
seppur violentissimo ed espressivo Shagrath, messo sul palco quasi per forza, esegue la sua porca prestazione senza deludere, ma con palpabile sufficienza. Irrispettoso Hellhammer che appena concluso lo show si alza e se ne scappa via da dietro le pelli per sparire nel back stage. Non ultimo ICS Vortex per il quale vale lo stresso identico discorso fatto per il singer. Citazione di estrema positività invece per Galder, che ha mostrato grande personalità e dinamicità nel corso di tutta la setlist. Certo sono passate dalle casse le varie A Succubus In Rapture, Indoctrination, The Serpentine Offering, The Chosen Legacy e Mourning Palace; valide, però mi aspettavo molto di più.
BLIND GUARDIAN a cura di Alessandro “Zac” Zaccarini
Un minutaggio troppo troppo stretto costringe i Blind Guardian a collassare in dodici canzoni una carriera talmente eclettica da faticare già da qualche anno a essere rappresentata degnamente negli show autunnali da 2 ore – e infatti ecco che la band nel 2003 si inventa il proprio festival per regalare ai fan oltre 4 ore di musica – figuriamoci su miseri 75 minuti. Al Gods 2007 la band tedesca è infatti forzata a una scaletta che finisce col concentrarsi inevitabilmente sugli ultimi quattro dischi, con la sola immancabile ‘The Bard’s Song (In the Forest)’ a rappresentare la prima era dei bardi di Krefeld. L’unica novità è la prima in terra italiana dell’ottima ‘This Will Never End’, che prende il posto di ‘Another Stranger Me’ negli estratti dell’ultimo ‘A Twist in the Myth’.
La band è precisa e cordiale come al solito, non si perde in inutili chiacchere o esibizioni personali, ma paga un Hansi non in serata, che fatica sulle linee vocali più difficili. L’apatia di un pubblico tra i peggiori mai visti in un lungo repertorio in terra italica non aiuta sicuramente lo show, e il concerto si chiude sì su livelli dignitosi, ma dei capolavori di emozioni a cui siamo abituati (vedi Milano 2006, per stare nel recente passato) questo concerto non è nemmeno un lontano parente. A Wacken, con un altro pubblico e un posto da healiner assoluto del festival, sarà sicuramente tutta un’altra cosa.
Setlist: Into the Storm / Born in a Mourning Hall / Nightfall / The Script for My Requiem / Fly / Valalla / Time Stands Still (At the Iron Hill) / This Will Never End / And Then there Was Silence / Imaginations from the Other Side / The Bard’s Song (In the Forest) / Mirror Mirror
DREAM THEATER a cura di Andrea “Ryche74” Loi
Stremati da una giornata dove il sole ha fatto da protagonista quasi per contrappasso con l’ incessante pioggia del giorno prima, ci apprestiamo ad assistere allo show dei Dream Theater. I compleanni vanno festeggiati degnamente e infatti le note di “Pull me Under” vengono accolte da un boato, inebriando di gioia il pubblico presente sotto al palco. La Brie in buona forma insieme a tutto il resto del gruppo, annuncia l’ esecuzione per intero di “Images and Words”. Automaticamente la scaletta viene svelata e neanche il tempo di riprendersi dallo stupore, che le inconfondibili note di “Another Day” fanno capolino. Assolutamente di alto livello e molto fedeli al disco le esecuzioni di due pezzi da novanta come la palpitante “Take the Time” e la dolce “Sourrended” – che ci delizia anche di un piacevole quanto inaspettato intermezzo dei Marillion: “Sugar Mice”, song tratta da Clutching at Straws (album del 1987, l’ ultimo con Fish). Sappiamo tutti cosa ci aspetta ora: Metropolis Pt. 1: “The Miracle and the Sleeper”, quasi dieci minuti per la loro song più rappresentativa. Il resto ci prepara al gran finale; “Wait For Sleep” e “Under a glass Moon” ci cullano nell’ attesa di quella che io ritengo il pezzo capolavoro del disco: “Learning To Live” che accentua e legittima la fama del gruppo di stare ad alti livelli con impatto live assolutamente di primo piano nonostante, a mio parere, possano fare di più. Ma sono dettagli. Lo show del quintetto di Long Island volge al termine. “As I Am” dal discusso “Train of Thought” e “Home” dal concept del 1999 “Scenes from a Memory” fanno scendere il sipario.
HEAVEN AND HELL a cura di Marcello Catozzi
Ore 21.45. Le inquietanti note di E5150 si diffondono nell’aria, mentre una nebbiolina avvolge le tre finestre illuminate, sospese in alto, al centro dell’originale scenografia. Accolte da un boato, le sagome dei protagonisti prendono posto sul palco, una a una: Ronnie James Dio – vocals, Toni Iommi – guitar, Geezer Butler – bass, Vinnie Apice – drums, Scott Warren – keyboards.
Mentre sfumano le note dell’intro, ecco irrompere il classico, aspro riffone di chitarra che apre MOB RULES in un tripudio di folla impantanata nel fango. CHILDREN OF THE SEA ci riporta indietro nel tempo, regalandoci una suggestiva atmosfera in cui si alternano mirabili melodie (grazie ai sapienti arpeggi di Toni e alla dolcezza della voce di Ronnie) a episodi di grinta bestiale, in cui chitarra e voce tracciano i solchi graffianti di una delle più belle canzoni della storia. Si prosegue con la trascinante I, tratta da Dehumanizer (1992), seguita dalla mistica THE SIGN OF THE SOUTHERN CROSS. La voce di Dio è profonda e potente come sempre; l’assolo di Iommi ha il consueto sound, corposo e deciso, inconfondibile e toccante. Non ci sono sbavature o imperfezioni e l’intesa fra questi indistruttibili marpioni è impressionante. Ci troviamo davanti alla più grande band esistente, non ci sono dubbi. VOODOO trasmette emozioni a non finire, caratterizzata dagli stupefacenti vocalizzi dell’ispiratissimo folletto. COMPUTER GOD è un’esplosione di energia, con stacchi mozzafiato e compattezza granitica. Il DRUM SOLO si rivela tirato e piacevolissimo, un mix di potenza e precisione, con il drum kit che traballa sotto le mazzate di un Vinnie in gran spolvero. FALLING OFF THE EDGE OF THE WORLD tocca le corde dell’anima, grazie all’interpretazione densa di pathos di quella leggenda vivente che risponde al nome di Ronnie James Dio. SHADOW OF THE WIND è la novità, in linea con la tradizione e lo stile sabbathiano. DIE YOUNG evidenzia il tocco sapiente di Toni Iommi, che si sposa alla perfezione con gli acuti possenti e puliti di Dio in un crescendo di pelle d’oca. HEAVEN AND HELL rappresenta l’ennesima celebrazione del mito, con tutto il pubblico che canta il coro, il faro di luce rossa che illumina la figura di Ronnie e il suo ghigno malefico. NEON KNIGHTS è il bis che chiude un’esibizione purtroppo breve, ma destinata a restare ben impressa nella mente dei fortunati presenti.