Report: Hate Eternal, Cephalic Carnage – 4 Giugno, Dublin
Com’è
possibile definire, in poche parole, il concetto di “attitudine Death
Metal”? Maglie nere, pantaloni militari, polsini Nike e preparazione
tecnica ossessiva? Voglia di far casino e ruggire in un microfono?
Ribellione e puro sfogo contro le convenzioni? Difficile
dirlo, ed
è anche per questo che si va ad un concerto come quello di
questa sera allo storico Whelans, nel pieno centro “notturno” di
Dublino.
La
serata prevede quattro gruppi, di cui due
novità e due conosciuti “mostri” della scena brutal e
grind/math, come Hate Eternal e Cephalic Carnage. Ad aprire le danze
sono però gli scozzesi Man Must Die,
poco conosciuta
realtà che può comunque contare sul supporto
della
Relapse e sull’apprezzamento di musicisti e produttori della scena
brutal mondiale: il perché è facile intuirlo,
vista la
performance terremotante del quartetto. Il loro è un brutal
decisamente carico di groove, che si nutre spesso di breakdown senza
mai risultare pacchiano o modaiolo. Per intenderci, il punto di
contatto conosciuto più vicono per gli appassionati del
genere
sono gli americani Pyrexia, come loro attenti sia alla
brutalità, sia all’impatto e al ritmo. In totale, la band di
Glasgow esegue 20 minuti abbondanti di sberle in faccia a un pubblico
non ancora ai massimi livelli ma già, giustamente,
esaltatissimo, e scalda a dovere gli animi in vista dei gruppi
successivi.
Peccato
solo che a seguire tocchi agli Skeletonwitch,
dall’Ohio, un gruppo dedito a un mix di death (poco), thrash (tanto) e
black (una spruzzata, specie nei brani più vecchi) che
però non esalta come potrebbe. Il gruppo è
scatenato, con
il cantante Chance Garnett che scola a metà una lattina di
birra
locale per poi gettare il resto sul pubblico comunque in movimento, ma
l’impressione è che sia semplicemente il suono “metal” a
rendere
calda l’atmosfera, non la qualità dei pezzi proposti;
qualità che, a dire il vero, scarseggia per la maggior parte
dei
brani. Riff scontati, un tributo agli Obituary (che hanno suonato la
sera precedente al Button Factory, 100 metri di distanza) con un pezzo
tratto dal primo album, Vengence Will Be Mine,
e tracce black metal tout court, come Baptised In
Flames, che però non convincono e portano molti
dei presenti ad affollare l’immancabile bancone da pub per una Guinness.
Arriviamo
quindi al nucleo della serata con i Cephalic Carnage,
che già mentre montano gli strumenti riscuotono boati e
richiami
dal pubblico, che ormai ha riempito ogni angolo della (non enorme,
anzi) sala: ed è il delirio, letteralmente. Gente che salta dietro
al bancone a “ballare” con le cameriere, mentre il gruppo del Colorado,
guidato da un Lenzig Leal in camicia hawaiana e che sembra appena
uscito da una puntata di Miami Vice (dove
intepretava un
narcotrafficante, ovviamente), sconvolge i presenti con pezzi
schizzati, serratissimi e salti sul palco in pieno stile The Dillinger
Escape Plan (ma forse è il contrario…). Si parte
con Endless Cycle of Violence e si continua
saccheggiando gli ultimi due (capo)lavori del gruppo, Anomalies
e Xenosapien;
i suoni sono buoni, gli strumenti tutti ben distinguibili, per la
fortuna del grandissimo lavoro di basso di Nick Schendzielos
(anche backing vocals e intrattenimento), e il concerto non ha il
minimo calo di tensione, divertendo il pubblico e appagandone la voglia
di brutalità allo stesso tempo. Divertente anche il fuori
programma con una ragazza al limite del coma etilico che salta sul
palco e si mette a ballare su uno dei pezzi più intricati
dell’ultimo disco, Megacosm of the Aquaphobics, con
i continui
inviti di Lenzig a spogliarsi; senza contare gli innumerevoli richiami
del gruppo americano a sostanze non troppo lecite, a cui del resto
hanno dedicato gran parte della propria discografiia. Al di
là
di tutto, e in poche parole, un successone, e un concerto memorabile.
Peccato
che, arrivati a questo punto, accada l’imprevedebile: la sala,
svuotatasi come alla fine dell’esibizione di ciascuna band per
consentire la sigaretta obbligatoria agli astanti (sì,
l’Irlanda
è stata la prima in Europa a vietare il fumo nei locali
pubblici, per la “gioia” degli indigeni), non torna a riempirsi. Quando
salgono sul palco gli Hate
Eternal, per sistemare le pedaliere e gli strumenti, la scena
è
quasi imbarazzante: due file di persone e una sala quasi vuota, e a
parte qualche ragazzo che sceglie il momento sbagliato per chiedere
autografi (il palco arriva al ginocchio, non esistono transenne
né security e Rutan è praticamente in mezzo alla
gente)
non si nota nessun segno di entusiasmo per la band floridiana. Brutto
inizio.
La
cosa prosegue, com’è naturale attendersi, con
l’inizio del concerto: i suoni tra l’altro sono sul pessimo andante,
probabilmente per il vuoto creatosi e con visibile fastidio del
cantante/chitarrista e dei suoi soci (eccetto Jade Simonetto, che
macina blast beat dietro le pelli con una naturalezza disarmante), ma
quello che lascia basiti è la freddezza del gruppo: la
formula
del concerto, per quasi tutta la sua durata, è canzone/pausa
con
campionamenti noise (del tipo presente su I,
Monarch)/canzone, e
così via per un’ora buona. Per carità, loro sono
tecnicamente impeccabili nonostante la resa sonora, e i pezzi sono
quelli che sono (quando riconoscibili nel marasma), ma per le persone
che hanno deciso di restare e supportare il gruppo, dopo aver pagato
qualcosa come 25 euro di biglietto, questo potrebbe non bastare, specie
se si possiede già la discografia degli Hate Eternal, e non
c’è bisogno di vederla riprodotta pedissequamente sul palco.
Insomma, tra pezzi indubbiamente coinvolgenti (o almeno, avrebbero
dovuto esserlo) come Behold Judas o Bringer
of Storms, e una
serie di brani di cui si capta a fatica solo qualche riff, la
sensazione generale è che non si tratti della serata
migliore
possibile per la band di Tampa: ottima la performance tecnica, ma i tre
(escludo il già citato Simonetto, impressionante) sono
troppo
concentrati sul manico del proprio strumento per dare vita a un vero e
proprio show;
si tratta, più che altro, di una buona ma mera esibizione.
Brutto che l’epilogo di una serata così promettente e, nei
fatti, spesso molto coinvolgente sia questo.
Stento
tuttora a definire in poche parole l’attitudine Death Metal:
dopo una serata underground simile, in ogni caso, posso dire con
sicurezza di esserne stato spettatore in tutte le sue sfaccettature,
nel bene e nel male.
Alberto ‘Hellbound’
Fittarelli