Report: Machine Head, Trivium, Dragonforce, Arch Enemy, Shadows Fall 6/12/07 Mi
Il Black Crusade Tour sbarca a Milano promettendo sulla carta un grande
spettacolo. Ce n’è un po’ per tutti i gusti, anche se le attese maggiori sono
per gli headliner della serata, gli sfortunati Machine Head, costretti a
troncare improvvisamente la propria esibizione. Ma andiamo per gradi e
ripercorriamo il concerto dall’inizio. Buona lettura.
Cliccate sulle foto per ingrandirle.
SHADOWS FALL
L’apertura della serata è affidata agli americani Shadows Fall, forti
dell’ultimo disco Threads of Life. Mentre gran parte del pubblico deve ancora
entrare nel locale, i nostri fanno di tutto per accendere gli animi dei
presenti, e a giudicare dalla buona risposta delle prime file, possiamo dire che
ci sono riusciti. Su tutti spicca il dinamismo del frontman Matthew Bachand,
abile nel concentrare l’attenzione su di sé e autore di una buona prova.
Seppur musicalmente non eccelsi (a mio avviso) i nostri si sono dimostrati comunque
sufficientemente abili e compatti, presentando prevalentemente il materiale più
recente, un misto tra thrash/metalcore tipicamente americano, con Forevermore in
apertura e successivamente con Failure of the Devout e Redemption, completando
la breve setlist con The Light That Blinds (da The War Within) e
Thoughts
Without Words, estratto da The Art of Balance. Una prova dignitosa.
ARCH ENEMY
Dopo un breve allestimento di palco e soundcheck si presentano gli Arch
Enemy, e iniziano subito con Blood on Your Hands, opener del recente
Rise of the Tyrant. Nonostante tutta la band si sia dimostrata ben rodata, la scena è tutta
per Michael Amott e Angela Gossow, indubbiamente i due membri più carismatici,
capaci di catalizzare la maggior parte degli incitamenti. Seguono veloci Enemy Within da
Wages of Sin, My Apocalypse (da Doomsday Machine), senza però lasciare il
segno, senza graffiare, come se stessimo vedendo buoni/ottimi musicisti in grado
di non infondere il necessario trasporto. Vedere Amott durante i suoi assoli è
sicuramente uno spettacolo nello spettacolo, ma dall’esibizione degli Arch Enemy
ricordo questo e poco altro a dire il vero, come se fosse scivolato via tutto
troppo liscio.
Merita poi un discorso a parte la performance della Gossow: il
vocione super effettato che si può ascoltare su disco è rimasto in studio di
registrazione, lasciando nelle corde vocali della cantante una via di mezzo tra
growl e scream alquanto anonimo, a volte sovrastato dagli strumenti. Non sarà
una grande cantante ma sarà bella… Sì, in confronto ai “brutti ceffi” a cui
siamo abituati è sicuramente un passo avanti, ma da qui a sottoscrivere i
prevedibili cori rivolti alle grazie di Angela ce ne vuole… Gusti personali
ovviamente. A completare lo show arrivano Nemesis, e We Will Rise, per
un’esibizione che avrà fatto piacere ai fan, e a pochi altri.
DRAGONFORCE
Essendo i Dragonforce agli antipodi dei miei ascolti abituali, ho cercato di
essere musicalmente il più aperto possibile, con l’intento di carpire le migliori
qualità della band. Beh, non mi avranno fatto cambiare parere, ma almeno sono
stati divertenti. Sì perchè quello che maggiormente mi ha colpito della prova
dei Dragonforce è stata la voglia di divertirsi tra di loro (prima di tutto) e
implicitamente di allietare il pubblico, con movenze, brevi siparietti, ampi
sorrisi ecc… Assoli, assoli e ancora assoli, lunghissimi, reiterati, un po’
tutti uguali, velocità sostenutissima, doppia cassa quasi perenne, ma da quel
poco che conosco della band, questo è il sound dei Dragonforce, prendere o
lasciare. Grande prova delle due asce Herman Li (il più posato, ma con una
faccia che sprizza simpatia) e Sam Totman (insieme al tastierista Vadim
Pruzhanov, il più scatenato) spesso accoppiati sulla pedana al centro del palco
durante gli interminabili assoli.
L’inizio è affidato a Fury of the Storm, a cui
seguono Operation Ground and Pound, Revolution Deathsquad, e Starfire. Buoni
anche i vocalizzi di ZP Theart, impegnato verso la fine del concerto in una
battaglia a colpi di rotoli di carta igienica con le prime file, e la prova
degli altri membri, con il bassista Frédéric Leclercq che a un certo punto
imbraccia la chitarra di Totman, e comincia anch’esso con assoli a profusione.
Through the Fire and Flames e Valley of the Damned sono poste in conclusione,
saluti di rito ed è ora di ritirarsi dietro le quinte. Intanto il coro
inneggiante agli headliner della serata cominciava a farsi più vigoroso…
TRIVIUM
Tocca ora alla formazione più amata/odiata dell’intera serata,
inneggiata/sbeffeggiata a suon di cori sin dalla coda fuori dal locale. Dal mio
punto di vista, il giudizio sulla prova dei Trivium sta nel mezzo a queste due
correnti di “pensiero contrapposte”. I ragazzi sono validi tecnicamente, tengono
bene il palco, riescono a donare il giusto tiro alle canzoni proposte, eppure
non riescono a stupire, vuoi per una presenza scenica non ancora di primissimo
livello (e la differenza con i Machine Head è stata impietosa, da questo punto
di vista), vuoi per una proposta che non ha nulla di così stupefacente, come
l’aurea mediata attorno alla band vuole farci credere. I Trivium stanno
portandosi sempre più su coordinate thrash metal, come testimoniato dall’ultimo
The Crusade, tanto da presentarsi con una mise che ricorda chiaramente la divisa
tipica del “thrasher” e da rifarsi abbastanza palesemente ai maestri del genere
(Metallica su tutti). Credo di non essere il solo ad aver notato una certa
somiglianza del timbro vocale di Matt Heafy con quello immortale di James
Hatfield dei tempi d’oro, così vicino da risultare praticamente uguale in alcuni
frangenti, come ad esempio i celeberrimi “yeah” di James, riportati fedelmente
da Heafy.
Comunque, i nostri si sono giocati le proprie carte come meglio
potevano, pescando brani da tutti e tre i brani all’attivo, sfruttando bene la
coreografia messa a disposizione, con due impalcature a lato della batteria, su
cui Heafy e Beaulieu sono saliti scambiandosi parti vocali e assoli. Tutto bene,
ma nulla da giustificare il clamore, specialmente da parte degli ascoltatori più
giovani (comparsi come funghi a ridosso delle transenne), attorno a questi
musicisti, ancora in debito sia sotto il profilo musicale che della personalità,
anche se Heafy è riuscito a trasformare a proprio favore un piccolo problema
tecnico alla batteria nelle battute iniziali, improvvisando subito per colmare
il vuoto Symphony of Destruction dei Megadeth. Un gruppo onesto che sa il fatto
suo, come tanti altri del resto.
MACHINE HEAD
Finalmente! Dopo quattro ore circa dall’inizio dell’evento è arrivato il
momento per cui l’Alcatraz è andato riempiendosi nel corso della serata. Si
spengono le luci e comincia a echeggiare l’intro di Clenching the Fists of
Dissent, il primo a comparire è Robb Flynn, lo seguiranno presto tutti gli
altri, per esplodere all’unisono in una delle canzoni che hanno reso The Blackening uno dei dischi migliori degli ultimi anni. Potenza assoluta, carisma,
capacità di riempire la scena uguale da parte di tutti i componenti, compreso
Dave McClain, incredibilmente visibile e coinvolgente dietro il drumkit
allestito appositamente per godere delle sue movenze spettacolari e precise.
Pochi minuti e il pubblico pende dalle labbra di Robb, quasi inutili i suoi
incitamenti rivolti al pit, in uno scambio di energia che sembra galvanizzare
ancor di più la band, che rincara la dose con Imperium, estratto da Through the Ashes of Empires.
Da antologia poi Aesthetics of Hate, prima della quale viene
commemorato Dimebag Darrell con uno striscione passato dal pubblico e mostrato
da Demmel e Flynn, con le emozioni che raggiungono l’apice durante la splendida
parte solistica, con i due uno di fronte all’altro. Un tuffo nel passato con
Old, capace di scatenare anche gli spettatori più serafici, per tornare al
presente con Halo, con Flynn e Duce non precisissimi nelle parti pulite, ma
credo che nessuno si possa lamentare della resa finale del brano, in grado di
catapultare i presenti dall’headbanging selvaggio alla commozione con una
facilità disarmante. Take My Scars non fa prigionieri, acclamata sin dalle prime
pennate di Demmel, con la comparsa del “pogo circolare” in mezzo alla platea.
Fin qui un concerto spettacolare, che ha letteralmente demolito tutti gli act
precedenti sotto tutti gli aspetti, specialmente per quanto riguarda
l’interazione con i presenti, con ripetuti apprezzamenti da parte di Flynn,
descrivendo il pubblico milanese come “the loudest crowd” incontrata dall’inizio
del tour, fin quando arriva il momento di Descend the Shades of Night e
si
consuma l’episodio “tragico” della serata (video). Appena conclusa la parte acustica, si
sente uno strano rumore di chitarra… Non si trattava di un attacco sbagliato,
in quanto a seguito di un altro strano rumore, si assiste a Duce che si
precipita verso il lato del palco occupato da Demmel. L’oscurità dello stage non ha
permesso una visuale chiara dell’accaduto, ma si è capito immediatamente che
Phil era stato vittima di un malore improvviso, causando l’immediata
interruzione del brano. Comprensibili attimi concitati sul palco, con un
frenetico via vai di roadie, fin quando qualche minuto dopo, Robb si presenta
dicendo di non sapere cosa fosse accaduto a Phil, e di attendere, non sapendo se
il concerto fosse proseguito o no.
Pochi minuti ancora, e Flynn, Duce e McClain,
annunciano la fine dell’esibizione. Sono bastate poche parole per Robb, solo un
accenno alla decisione presa, che subito il pubblico lo ha interrotto con
calorisu applausi
e cori, con i tre commossi in volto. A questo punto Flynn non ha potuto fare altro che
ringraziare per la comprensione e dare l’appuntamento al prossimo concerto. Un
peccato, perchè al di là della preoccupazione per Demmel (è giunta voce che sia
fuori pericolo, aveva l’influenza), la performance preventivata contava solo otto pezzi, con il
risultato di solo i primi sei eseguiti, mancando all’appello solo la conclusiva
Davidian. Nonostante l’accaduto, una prova comunque da ricordare,
eccezionale in ogni aspetto (forse i suoni potevano essere migliori), per una band
protagonista di questo 2007. Non ci rimane che attenderli nuovamente in Italia.
Stefano Risso