Report: Megadeth + Diamond Head – 21 febbraio 2005, Milano
Per ragioni di praticità, in questo report, con la parola “Megadeth”, ci riferiremo a Dave Mustaine e i musicisti che si sono esibiti la sera del 21 febbraio 2005 all’Alcatraz di Milano…
La calata in terra italica del buon vecchio Dave richiama in via Valtellina circa 2000 persone, alcune delle quali costrette persino a restare fuori dal locale. Un sold out che, se da un lato può fare piacere, dall’altro lascia un po’ di perplessità per la presenza delle solite (ahimè numerose) facce che poco e nulla hanno a che vedere con la serata. Immancabili gli abituali personaggi pronti a lasciare andare qualche scazzottata gratuita nella mischia (magari a tradimento) piuttosto che gioire per il riff improvviso di Hangar18… ma questo purtroppo è il prezzo da pagare quando ci sono in ballo i grossi nomi del mainstream.
Rimandando ogni possibile considerazione di carattere ‘logistico’, c’è da dire che la serata parte bene con una calda esibizione dei Diamond Head, prevedibilmente incentrata sulle vecchie glorie che portarono in alto il nome della band inglese nei primi anni Ottanta. Brillano, tra gli altri, i vari estratti dal mitico Lightning To The Nations, un album che non ha perso un briciolo di fascino: come testimonia la buona risposta del pubblico sempre più gremito. È così che le varie It’s Electric, The Prince, Sucking My Love, Helpless e la conclusiva, anthemica Am I Evil? – da sempre croce e delizia del combo capitanato da Brian Tatler – rimbombano in sequenza tra le mura del locale, regalando uno show energico e coinvolgente, l’ideale antipasto in attesa dell’headliner.
Buona la prova di tutti i componenti del gruppo (complice un assortimento di suoni squisitamente retrò), con una menzione speciale per Nick Tart , fresco sostituto dello storico vocalist Sean Harris, che, nonostante un look poco azzeccato, ha retto con bravura le assi del palcoscenico, dimostrandosi bravo frontman. Prossimi a celebrare tra alti e bassi trent’anni di attività, gli alfieri della N.W.O.B.H.M. non hanno dimenticato i segreti del buon vecchio heavy metal. Complimenti ai Diamond Head!
Setlist: Intro, Evil Edit, It’s Electric, Give It To Me, The Prince, Mine All Mine, Heat Of The Night, Sucking My Love, Helpless, Am I Evil
Venti minuti scarsi di attesa, durante il quale – è bene ammetterlo – lo staff ha rapidamente risistemato lo stage-set e un Alcatraz sempre più affollato che saluta con una roboante ovazione mr. Dave Mustaine, assente da quattro anni sul suolo italiano (l’ultima esibizione tricolore risale al Gods Of Metal 2001) e tornato alla ribalta dopo l’infortunio che l’aveva costretto a una pausa di quasi due anni. Con un nuovo album che ha diviso pubblico e critica e una formazione completamente rimaneggiata, comprendente per metà membri dei canadesi Eidolon, il biondocrinito axeman rispolvera il monicker Megadeth e sfodera una set-list saggiamente bilanciata tra nuovi brani e super-classici, senza dimenticare qualche sorpresa che ha parzialmente risollevato le sorti di un concerto buono ma non spettacolare.
Procediamo con ordine. Lo show parte in quarta con un’intensa esecuzione di Blackmail The Universe, opener dall’ultimo The System Has Failed, ma si ha subito l’impressione che, a livello di qualità sonora, qualcosa non quadri: inevitabile una bella tirata d’orecchie per i tecnici del suono, rei di aver spinto troppo in alto il volume delle chitarre, impastando il sound di parecchi pezzi e penalizzando non poco la resa di molti brani. A ogni modo il pubblico sembra gradire la carica della band, e tributa i giusti onori alla successiva Set The World Afire, prima chicca della serata: un MegaDave esplosivo macina un riff dietro l’altro con ghigno compiaciuto e si lascia andare ad un headbangin’ continuo, mandando in delirio le prime file. Decisamente uno degli episodi più riusciti della serata. Skin O’ My Teeth è un mezzo passo falso. Il brano ha per primo il merito di coinvolgere tutto il locale con il suo andamento smaliziato e l’accompagnamento della voce isterica di Mustaine, ma soffre per via di una pessima esecuzione in sede solista di Glen Drover, in grande difficoltà per tutta la serata sulle parti di Marty Friedman. Discreto intrattenitore – sicuramente più vivace sul palco rispetto ai suoi illustri predecessori, senza sconti per il già citato Friedman, fenomenale con la sei-corde quanto immobile come un pezzo di ghiaccio – l’axeman degli Eidolon pecca in termini di precisione esecutiva, rivelandosi una scelta poco azzeccata per un gruppo che colleziona sold-out ogni sera. La tensione non sale nemmeno con la successiva The Scorpion, che dal vivo conferma i propri limiti, specie se accostata a hit immortali come la spettacolare Wake Up Dead (dall’ormai ventennale Peace Sells…But Who’s Buying?), a cui bastano pochi secondi per destare gli animi dei molti nostalgici sparsi per il locale. Fila tutto liscio anche con l’onnipresente In My Darkest Hour, secondo e ultimo estratto da So Far, So Good…So What! e vero cavallo di battaglia dei Megadeth: ottima la prova del frontman dietro al microfono e buona – per una volta – l’esecuzione di tutta la band, intelligente nel non voler strafare nelle parti più speed-oriented. Si ritorna alla produzione più recente della band con la ruffiana Something That I’m Not, terzo inedito dal vivo, che esibisce un Mustaine davvero in gran condizione, e She-Wolf, che arriva a sorpresa – e c’è chi già critica la presunta omissione di Tornado Of Souls, prontamente smentito – scaricando una bella dose di elettricità sui presenti. Su Á Tout Le Monde, unica testimonianza dal bistrattato Youthanasia, è il pubblico il vero protagonista, che canta a squarciagola l’ormai celebre refrain in francese, anche se il risultato globale non è il massimo; ma il peggio deve ancora arrivare e si chiama Die Dead Enough, singolo apripista per The System Has Failed: complici dei suoni osceni e un cantato così così il pezzo viene fuori un mezzo pasticcio, specie nella parte finale, dove si distingue poco o niente. Bocciato. Decisamente meglio la solida Angry Again (dalla colonna sonora di Last Action Hero), altro highlight assoluto del concerto, cui spetta l’ingrato compito di scacciare i primi sbadigli. Da Cryptic Writings è ripescata anche l’opener Trust, riproposta abbastanza fedelmente, poco prima che una sentita dedica all’amico Dimebag Darrell, axeman dei Pantera assassinato di recente, introduca Of Mice And Men, che dal vivo guadagna parecchi punti rispetto alla versione da studio. |
Un boato accoglie il riff di Hangar 18, prevedibilmente (e giustamente) uno dei brani più attesi, e, altrettanto prevedibilmente, una delle più grosse delusioni della serata, courtesy of Drover brothers: legnoso e insipido Shawn, completamente imbambolato Glen, i due fratelli degli Eidolon hanno letteralmente demolito un capolavoro, raggiungendo livelli infimi nelle parti più techno-oriented; paradossalmente, in parecchi hanno accolto con sollievo l’attacco a tradimento di Return To Hangar (da The World Needs A Hero), dove tutti se la sono cavata decisamente meglio. Fortunatamente, l’ultima parte del set ha riservato solo buone cose ai fan accorsi a Milano, allontanando un giudizio parzialmente negativo per via di alcuni pesanti passaggi a vuoto. Si riparte con una riuscitissima versione di Back In The Day – a giudizio di chi scrive tra gli apici qualitativi di The System Has Failed – che coinvolge anche i “ragazzi” dei Diamond Head ai cori, seguita a ruota da una stralunata Sweating Bullets, al solito interpretata da MegaDave con un mood schizofrenico inconfondibile. Chiusura illustre affidata ad un poker di canzoni mitiche, vale a dire la celebrata Symphony Of Destruction, Peace Sells, un’improvvisa Tornado Of Souls (per cui c’è chi teme il peggio, memore della fresca tortura comminata ad Hangar 18) e la maestosa Holy Wars..The Punishment Due (inserita in un medley con Kick The Chair) al solito involgarita dalla 6-corde di Drover e letteralmente salvata da un Dave Mustaine in gran spolvero nella sezione conclusiva. Quando le luci si riaccendono la parola Fine sembra scontata, ma l’ex-Metallica non è dello stesso avviso: c’è ancora spazio per un paio di ancore. Così, dopo un attesissimo riferimento a James Hetfield, tocca a Mechanix far tremare per l’ultima volta le assi del palcoscenico, affiancata da un’altrettanto divertente cover di Paranoid (reduce dalla vittoria al ballottaggio con Anarchy In The U.K.). Dopo 24 (!) brani e due ore piene di musica suonata, le luci si riaccendono per la seconda e ultima volta, seguite da un lungo, meritato applauso all’assoluto protagonista della serata: simpatico con il pubblico, bravissimo (ma non è una novità) con il proprio strumento, l’incontrastato leader dei Megadeth, Dave Mustaine è stato il vero spettacolo da premiare. |
Setlist: Blackmail The Universe, Set The World Afire, Skin O’ My Teeth, The Scorpion, Wake Up Dead, In My Darkest Hour, Something I’m Not, She-Wolf, A Tout Le Monde, Angry Again, Die Dead Enough, Trust, Of Mice And Men, Hangar 18, Return To Hangar, Back In The Day, Sweating Bullets, Symphony Of Destruction, Peace Sells / Tornado Of Souls / Peace Sells (reprise), Holy Wars / Kick The Chair / The Punishment Due – Encore: Mechanix / Paranoid
Nel complesso un concerto piacevole, che ha messo in mostra un Mustaine in ottima forma – per la verità palesemente immerso in piena operazione “bravo ragazzo e recupero immagine”, ma va bene così – e che di contro ha esibito anche una band davvero al limite della decenza. Se James MacDonough se l’è cavata sufficientemente (gradevole anche il solo prima di Peace Sells, sebbene lontanissimo dal thrash) i fratelli Drover hanno toccato il fondo del barile. Rigido e in difficoltà Shawn, che ha semplificato diverse linee delle versioni da studio sprecando un suono di batteria che sembrava poter dare ottimi frutti. Inascoltabile Glen, che ha rovinato i pezzi migliori del repertorio Megadeth, stuprando letteralmente tutti gli assoli dei cavalli di battaglia che la band aveva riservato per il finale (ovvero i classiconi di Peace Sells e Rust In Peace). Velo di pietoso silenzio sul non commentabile aborto uscito dalle sue sei corde a metà concerto…
Per ultima cosa, come siamo sempre pronti a puntare il dito verso gli errori dell’organizzazione, questa volta siamo felici di dire che quasi tutto è filato liscio (a parte, ovviamente, l’inevitabile bolgia finale al guardaroba, dove la condizione di essere pensante viene meno a favore dell’animalità e della maleducazione più sfrenata).
Alessandro ‘Zac’ Zaccarini
Federico ‘Immanitas’ Mahmoud