Report: Metalcamp 2008 – Tolmino (Slo) 04/07/08

Di Nicola Furlan - 28 Luglio 2008 - 14:15
Report: Metalcamp 2008 – Tolmino (Slo) 04/07/08

Presentazione
(A cura di Pier Tomasinsig)

Se non siete mai stati al Metalcamp potreste avere difficoltà a capire perchè in questo festival si respira un’atmosfera così unica e straordinaria. Questo perchè il festivalone estivo di Tolmino (Slovenia) è un vero e proprio “evento metal” a tutto tondo, e come tale andrebbe vissuto. Non a caso basta dare uno sguardo alla vastissima area adibita al campeggio per rendersi conto del numero e della grande varietà di persone che per godersi questa settimana all’insegna della musica, della natura e del divertimento, giungono da ogni dove (Germania, Austria, Francia, Italia e paesi dell’est Europa).

Ciò conferisce al Metalcamp un’internazionalità che nei festival italiani, anche quelli più grandi come il Gods Of Metal, manca completamente.
Che dire poi della bellissima collocazione, in mezzo ad una valle con le montagne che si stagliano sullo sfondo, prati e boschi dappertutto e il fiume Isonzo (o Soca, come dicono gli amici sloveni) che scorre poche centinaia di metri più in basso dell’area concerti. In un simile contesto i modi per passare il tempo non mancano di certo: bastano pochi minuti per raggiungere le rive dell’Isonzo, dove è stato approntato un bel bar con bibite e musica a volontà, per rilassarsi un po’ sulla spiaggia, prendere il sole o, se non temete il freddo, fare il bagno nel fiume.

Così come bastano pochi minuti a piedi per raggiungere il centro e rifornirsi di cibo e bevande, o pranzare in uno dei tanti ristorantini del luogo, senza neppure bisogno di spendere tanto. Non c’è da stupirsi dunque se i metallari accorrono ogni anno sempre più numerosi e organizzati, vere e proprie comitive che piantano tende, gazebo e tendoni di ogni misura: in molti si portano dietro le griglie (alcuni persino i frigoriferi!) per organizzare abbuffate mattutine, pomeridiane, serali e notturne a base di carne, musica e birra a fiumi.

Non finisce qui: prezzi onestissimi (tre Euro per una birra da 0,4), organizzazione precisa ed attenta anche a mantenere un determinato standard di pulizia dei luoghi, grande varietà di stand di dischi e vestiario all’interno dell’area concerto, con buona reperibilità di materiale underground. Unica nota dolente l’atteggiamento del personale della security, soprattutto quello sotto al palco, che spesso si dimostrava intollerante e un tantino arrogante nei confronti dell’utenza.

Venerdì 4 luglio 2008

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MAINSTAGE

Artas 16.00 – 16.30 
Penitenziagite 16.45 – 17.15 
October File 17.30 – 18.15 
Wintersun 18.30 – 19.15 
Six Feet Under 19.45 – 20.45 
Carcass 21.15 – 22.15 
In Flames 22.45 – 00.15 

In Extremo (non visti)

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[Foto a cura di Pier Tomasinsig]

Artas
(A cura di Pier Tomasinsig)

Aprono la giornata gli Austriaci Artas, autori di un metalcore piuttosto classico con marcate componenti hardcore e contaminato da sporadiche influenze riconducibili a certo thrash moderno. I pezzi proposti sono tutti piuttosto diretti e di grande impatto, tra riff stoppati e incalzanti, parti groovy e accelerazioni rabbiose che concedono sempre qualcosina alla melodia.

Le vocals sono ripartite tra cantato in clean e il classico cantato “urlato”, a tratti vicino al growl. Gli Artas, nonostante il pubblico sia ancora scarso, forniscono una prestazione grintosa e dall’attitudine inequivocabilmente “in your face”, valorizzata da suoni abbastanza decorosi, anche se i volumi appaiono sin da subito forse troppo alti. Uno show abbastanza onesto, dunque, che si conclude (dopo un’iniziale falsa partenza) sulle note della feroce e sfacciata ‘Bastardo’.

Penitenziagite
(A cura di Pier Tomasinsig)

È il turno degli sloveni Penitenziagite, per il sottoscritto la prima bella sorpresa della giornata. La giovane band “di casa” ci propone una potente miscela di death e black, che alterna imponenti parti rallentate, dal riffing tecnico e corposo, in cui s’intravedono le inevitabili influenze della vecchia scuola americana (Morbid Angel su tutti) a sfuriate devastanti che riportano alla mente i Behemoth del periodo “Satanica”/”Thelema 6”.

Gli sloveni valorizzano appieno la mezz’ora loro concessa con una performance senza fronzoli, concreta e convincente, nonostante qualche problema alla chitarra. Buona anche la prestazione di Demshy, vocalist dal growling profondo e brutale. Nel complesso i nostri forse risultano un po’ fermi sul palco, ma di certo si dimostrano estremamente compatti e “quadrati”. Una piacevole parentesi nel metal estremo tradizionale prima di tornare a sonorità più moderne con gli October File.

October File
(A cura di Pier Tomasinsig)

Gli Inglesi ci propongono una sorta di post-metalcore martellante e allucinato, con evidenti richiami all’industrial. Riff serrati, ripetitivi e alienanti, a tratti anche molto violenti, si alternano a passaggi più “acidi” e a momenti melodici quasi onirici. Una miscela piuttosto particolare e certamente intrigante, anche se forse non adatta ai cultori del metal più tradizionale e intransigente.

Il pubblico del Metalcamp d’altro canto si conferma di ampie vedute e partecipa con discreto apprezzamento all’esibizione dei nostri. D’altronde lo show offerto è dinamico e coinvolgente: sotto il profilo della tecnica esecutiva gli October File si dimostrano più che all’altezza della situazione, specialmente il bassista Steve Beatty, autore di una prestazione veramente notevole. Su tutto la voce ruvida e rabbiosa di Ben Holliver; il cantante, da subito a suo agio e pienamente padrone della scena, col suo fare sornione aizza la folla che inizia finalmente a radunarsi sotto al palco. C’è ben poco da criticare ai britannici, che ci offrono quarantacinque intensi minuti di musica incalzante, a suo modo anche ipnotica, e, certamente, ben eseguita.

Wintersun
(A cura di Pier Tomasinsig)

Questa edizione del Metalcamp ha visto una discreta presenza di gruppi (rigorosamente scandinavi) che, con gli ovvi distinguo, propongono l’ormai classico connubio tra sonorità folk, atmosfere epicheggianti, passaggi intrisi di metal classico e melodic-death. Oggi tocca ai Wintersun allietare il pubblico, sempre più partecipe e numeroso nonostante la piggerella che inizia a farsi insistente (a riprova dell’alto gradimento di cui oggi gode questo tipo di proposta), con il loro folk/death melodico e piuttosto orecchiabile. L’esibizione dei finlandesi risulta fin da subito piacevole e coinvolgente, grazie anche a suoni sufficientemente puliti e ben bilanciati.

Tastiere maestose e in piena evidenza, melodie catchy, cori epici e guitar working compatto e preciso, anche negli assoli: tecnicamente i nostri sono quasi impeccabili, in particolare il batterista Kai Hahto che fornisce una prova più che degna di lode. Anche Jari Mäenpää, ex frontman degli Ensiferum, si mostra in buono stato di forma sia nello scream che nelle parti in clean e non manca di coinvolgere il pubblico, che risponde piuttosto bene. Sul finale c’è spazio anche per una cover di Painkiller, tutto sommato ben riuscita, che sfocia nella lunga canzone di chiusura tratta dall’ultimo full-length “Time”.
Insomma, i Wintersun hanno dimostrato di essere una macchina ben oliata, eccellente in sede live grazie al riuscito connubio tra un tasso tecnico non indifferente (che li porta a soluzioni piuttosto ricercate, ai limiti del prog metal), un notevole gusto melodico e quel pizzico di aggressività, data dalle residue influenze (melo) death, che -soprattutto dal vivo- non guasta mai. fino a questo momento probabilmente i migliori.

Six Feet Under
(A cura di Pier Tomasinsig)

La pioggia sembra essere per il momento cessata, giusto in tempo per assistere all’esibizione dei Six Feet Under del sempre carismatico Chris Barnes. Personalmente non sono un grande fan della band dell’ex cantante dei Cannibal Corpse, soprattutto non degli ultimi album, ma è pur vero che è sempre interessante avere l’opportunità di vedere dal vivo un veterano con un simile glorioso passato. Se conoscete i Six Feet Under avete certamente idea di cosa aspettarvi da un loro show: death metal lento ed estenuante, basato sulla ripetizione ad oltranza degli stessi riff tendenzialmente piuttosto semplici e intrisi di groove, marciume (ma di tipo “innocuo”) a go go e il vocione cavernoso di Barnes a tener su tutta la baracca. E così è stato anche al Metalcamp, dove i Six Feet Under hanno suonato un’ora di death metal riffoso e potente, ma alla lunga monocorde e piuttosto noioso.

Il pubblico per la verità sembra pensarla diversamente, e restituisce a Barnes e soci un caloroso responso. Il concerto prosegue tra incursioni nei dischi classici della band come “Haunted” e “Maximum Violence” e pezzi tratti dagli album più recenti, dove si palesano consistenti influenze hard rock. Tra un pezzo e l’altro un Barnes tutto sommato divertito e compiaciuto dalla buona risposta dei fan si concede un po’ di dialogo col pubblico, arringandolo con frasi di scuola -ma sempre efficaci- come “scream for me Metalcamp!” (questa l’ho già sentita…) o “scream, motherfxxxers!”. I suoni nel complesso erano discreti, anche se non pulitissimi: La batteria in particolare sembrava un po’ovattata, conferendo al tutto un’atmosfera ancor più “da cripta”. Al di la di tutto la prova complessiva fornita dai Six Feet Under è stata più che onesta, anche se Barnes a mio avviso non sempre è risultato convincente. L’importante ad ogni modo è che i presenti abbiano apprezzato, e molti sembrano averlo fatto.

Carcass
(A cura di Pier Tomasinsig)

Sono le nove e mezza circa, in leggero ritardo sulla tabella di marcia, quando finalmente salgono sul main stage del Metalcamp i Carcass. Che dire di una band che come poche altre ha fatto la storia del metal estremo e che torna finalmente a calcare il palco dei più importanti festival europei dopo oltre dieci anni di latitanza: è ovvio che le aspettative e la smania di goderseli dal vivo siano alle stelle. Forse è per questo che il pubblico si è radunato numerosissimo, ripagando i redivivi Carcass con un’affluenza degna di un headliner. La formazione del resto è quella che ha fatto leggenda, o quasi: Jeff Walker, Bill Steer e Michael Ammot, con Daniel Erlandsson degli Arch Enemy a sostituire lo sfortunato Ken Owen.

Senza fronzoli e senza indugio si parte con Impropagation, opener del capolavoro “Necroticism”, dove i Carcass mettono subito le cose in chiaro: esecuzione perfetta, da brividi, supportata da suoni pieni e potenti. Sono passati neanche cinque minuti dall’inizio del concerto e già la classe, la precisione e la grande esperienza dei nostri hanno fugato ogni possibile dubbio. Lo show prosegue inanellando una sfilza di classici da capogiro: Buried Dreams, Corporal Jigsore Quandary, Carnal Forge, Incarnated Solvent Abuse, No Love Lost e This Mortal Coil. Scaletta prevalentemente incentrata su “Necroticism” e “Heartwork”, com’era prevedibile, anche se non sono mancate le concessioni al passato grind della band con pezzi come Reek of Putrefaction e Rotten To The Gore. Jeff Walker è in gran forma stasera, con il suo screaming inconfondibile al vetriolo, acido e lacerante. Steer, flemmatico ed impeccabile, esegue con scioltezza, quasi con indifferenza, passaggi tecnicissimi. Ottima anche la prova di Amott e di Erlandsson, chiamato al difficile compito di colmare il vuoto lasciato da Owen. I Carcass dal vivo suonano quasi meglio che su disco, chirurgici, asettici, con in più quel maggiore impatto dato dal connubio tra suoni puliti e volumi discretamente alti.

Una veloce capatina sul controverso “Swansong”, dal quale viene proposta la dissacrante Keep On Rotting In The Free World, che dal vivo si rivela una parentesi dinamica e divertente, per poi andare verso il gran finale con l’immancabile Heartwork, degno sugello di un’esibizione praticamente perfetta (anche se come sempre Walker si mangia un po’le parole nel refrain).
Certo i nostri possono risultare freddini e distanti nei confronti del pubblico, dato l’atteggiamento poco espansivo e professionale che li contraddistingue, ma davanti ad una prestazione di tale livello credo che ben pochi potranno essere rimasti delusi o, ancor peggio, indifferenti. Per il sottoscritto i migliori della giornata.

In Flames
(A cura di Pier Tomasinsig)

Una pioggia ormai copiosa ci introduce ai tanto attesi headliner della serata, gli In Flames. Il pubblico resiste stoicamente alle intemperie e all’ormai notevole ritardo rispetto alla tabella di marcia, gratificando gli svedesi con una grande affluenza. Non fingerò, per correttezza, di essere tra quelli che hanno apprezzato la direzione intrapresa dalla band con gli ultimi album; cionondimeno è doveroso riconoscere che gli In Flames sanno veramente come si suona dal vivo. I nostri ci regalano infatti uno show di prim’ordine, dinamico e coinvolgente, suonando con convinzione e grande mestiere. L’esecuzione è pulita e precisa, corroborata da suoni e volumi più che adeguati che conferiscono ai pezzi la dovuta aggressività, anche se in più di una occasione la voce di Friden mi è sembrata tutt’altro che impeccabile. Il pubblico è entusiasta e molto variegato, a conferma del fatto che gli In Flames sono in grado di raccogliere consensi tra fan di tutti i tipi e tutte le età; un bacino di utenza direi quasi “trasversale”.
Si parte sulle note di Cloud Connected e l’impressione è da subito più che buona. Il pubblico risponde benissimo allo show pirotecnico degli svedesi, che non lesinano fuochi artificiali, dentro e fuori dal palco, e fiammate che esplodono in continuazione da ogni dove. Concerto prevalentemente incentrato su pezzi, come The Mirror’s Truth, Clayman, The Quiet Place, Reroute To Remain e Come Clarity, tratti dagli album del “nuovo millennio”, con giusto un contentino ai fan di vecchia data consistito nell’esecuzione di Graveland dal classico “The Jester’s Race”, per la verità cantata in modo quasi irriconoscibile.
A un certo punto il concerto si interrompe bruscamente causa la rottura di un AMP, e Friden quantomeno ha la prontezza di spirito di fare una battuta: “La gente dice che non siamo heavy, ma il nostro foxxxto heavy metal ha fatto esplodere l’impianto!”. Teoria interessante, oltre che spiritosa, anche se più verosimilmente la causa era da attribuirsi alla pioggia o alla continua granugola di fuochi artificiali.
Dopo pochi minuti lo spettacolo ricomincia con Only for The Weak, dove il pubblico, da plausi per la fedeltà dimostrata nonostante pioggia, ritardi e problemi tecnici, letteralmete esplode.
Lo show si avvia alla conclusione con I’m The Highway, contornata dall’ennesima esplosione di effetti pirotecnici, e c’è da dire che gli In Flames si sono veramente meritati il loro posto da Headliner: molto bravi. Del resto il calore e la partecipazione dei presenti sembrano dar ragione al nuovo percorso intrapreso da Anders Friden e soci. [foto non concesse dall’Artista]

Domani la giornata del 5 luglio con Iced Earth, Amon Amarth, Tankard e altri…