Report: Metalcamp 2008 – Tolmino (Slo) 05/07/08

Di Nicola Furlan - 29 Luglio 2008 - 12:30
Report: Metalcamp 2008 – Tolmino (Slo) 05/07/08

Introduzione
(A cura di Pier Tomasinsig)

La giornata di sabato è stata gratificata da un clima a dir poco perfetto. Dopo la fastidiosa pioggia del giorno precedente, continuata per buona parte della notte, usciamo dalla tenda con un bel sole splendente, temperato da un’ arietta fresca e frizzante che ritempra dalla stanchezza ben più che le poche ore di sonno godute.

Fortunatamente gli organizzatori del Metalcamp hanno pensato bene di far iniziare i concerti non prima delle 14.30, perciò c’è tutto il tempo per i campeggiatori, provati da un’altra notte di baldoria e umidità, di prendersela comoda, lavarsi e andare in città a rifornirsi di generi alimentari e far colazione in bar (e approfittare indiscriminatamente dei bagni dei locali pubblici). L’orario di inizio del concerto è invero provvidenziale, anche perchè consente di evitare di stare sotto al palco nelle ore più calde a prendersi un’insolazione, nonchè di godersi i gruppi di punta col favore delle tenebre, che certamente alla resa live di questo genere musicale giovano, e non poco.

Il bill di oggi, tra il primo e il secondo palco, è veramente ghiotto: tanto per rendere l’idea ci aspettano, tra gli altri, Mercenary, Finntroll, Meshuggah, Iced Earth, Amon Amarth, Tankard e Dark Fortress. Giornata ricca, dunque, che nel complesso si dimostrerà più che all’altezza delle aspettative.

Sabato 5 luglio 2008

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MAINSTAGE
Perishing Mankind 14.30 – 15.00 
The Sorrow 15.15 – 15.45 
Mercenary 16.00 – 16.45 
Legion of the Damned 17.00 – 17.45 
Finntroll 18.15 – 19.15 
Meshuggah 19.45 – 20.45 
Apocalyptica 21.15 – 22.30 (non visti) 
Iced Earth 23.00 – 00.30 
Amon Amarth 01.00 – 02.00 

2nd STAGE
Tankard 01.55 – 02.55 
Dark Fortress 03.15 – 04.00

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[Foto a cura di Nicola Furlan]

Perishing Mankind
(A cura di Nicola Furlan)

Il sabato vede un po’ più di gente calcare il pit del main stage. Non fanno eccezione i primi di giornata, ovvero gli austriaci Perishing Mankind. La loro proposta musicale è quanto di più adatto ad accogliere i superstiti della prima serata. Il mix di death e thrash metal che il quintetto propone ha qualità e ben si integra nella prima parte della giornata, che vedrà susseguirsi on-stage realtà affini come The Sorrow, Mercenary e i Legion of the Damned. Hanno ben impressionato le ritmiche dei due chitarristi Gernot Oreski e Georg Engel. Quest’ultimo merita una lode particolare per quanto riguarda l’esecuzione dei soli: di grande gusto e tecnicamente ricercati.

Sono i brani tratti da “Wonderland”, ultimo disco uscito lo scorso anno, a convincere di più, segno della progressiva maturazione artistica del combo austriaco. Lascia un po’ d’amaro in bocca la prestazione al microfono di Holger, che non riesce riprorre il growl tagliente sfoggiato su disco. Nel complesso una prestazione discreta.

The Sorrow
(A cura di Nicola Furlan)

È il turno dei The Sorrow, band fresca della valida esibizione al nostrano Gods of Metal. Consolidata l’eccellente posizione dietro al microfono del frontman Andi, c’è da dire che il resto della band non ha convinto come mi aspettavo. Il concerto è stato poco coinvolgente, sopratutto se si considera quanto coinvolgenti siano stati altri illustri colleghi core-oriented.

La proposta in sé lascia poco all’immaginazione per quanto riguarda le idee compositive e quindi sarebbe auspicabile ben altro calibro di coinvolgimento on-stage. Atteggiamento diverso da quello messo in evidenza una settimana prima sul palco bolognese. Lo show dura mezz’ora e per il resto fila liscio senza intoppi o errori, anche se va segnalato un livello dei volumi al limite del sopportabile. Mi aspettavo di più da una giovane band che ben mi aveva impressionato, ma che in quest’occasione non raggiunge la sufficienza.

Mercenary
(A cura di Nicola Furlan)

Ottimo il concerto dei Mercenary, band autrice di un death metal melodico ben strutturato da comparti compositivi di impronta progressive mai eccessivamente ridondanti. La proposta musicale è quindi accessibile anche ai neofiti di una scena che spesso trova sbocchi in brani tecnicamente ricercati. Che la band ci sappia fare è dato di fatto e la qualità dello show è ancor più messa in evidenza da volumi ridimensionati rispetto l’elvato livello di decibel dell’esibizione precedente. Discreta la presenza del pubblico.

Da segnalare l’impatto energico che i pezzi estratti dall’ultimo disco “Architect of Lies” hanno avuto sull’intera esibizione. In particolare Bloodsong, Embrace the Nothing e Public Failure Number One hanno acceso momenti di pogo e coinvolgimento che purtroppo la security non ha apprezzato, giungendo addirittura a minacciare i ragazzi. A parte questi piccoli ma fastidiosi inconvenienti operativi, c’è senz’altro da elogiare il combo danese per capacità tecnica (non a caso sono sotto contratto con il colosso discografico Century Media) e tenuta. Promossi.

Legion of the Damned
(A cura di Nicola Furlan)

Finito lo show dei Mercenary, è il turno del gruppo thrash metal olandese Legion of the Damned. La produttiva band (tre full-length in due anni!) suona bene davanti a non più di 300 persone. Una buona fetta di presenti, per il grande caldo, è infatti intenta a dissetarsi ai chioschi che costeggiano il corso del fiume Isonzo.
Lo stile on stage del frontman Maurice Swinkels è di tutto rispetto. Il cantante sa coinvolgere e, grazie a una stimolante proposta fatta di thrash e death metal, non passa molto tempo affinchè le prime file si scatenino in un pogo incontrollato.

Dal punto di vista musicale nulla di innovativo, canzoni come Sons Of The Jackal, Undead Stillborn, Infernal Wrath, Diabolist, altro non fanno che ricalcare fedelmente l’impronta lasciata nel tempo da band come Kreator e Testament di metà carriera. Il tutto condito da un pizzico di death metal che, date le attuali produzioni, non guasta. Problemi ai suoni non ce ne sono (anche se il livello dei volumi è significativamente alto, a tratti poco sopportabile) e il clima giusto per vivere una band di impatto come questa non viene meno fino alla fine. Ne è risultato quindi un grande show, che i presenti di certo ricorderanno con piacere.

Finntroll
(A cura di Pier Tomasinsig)

Una intro epica ed evocativa annuncia l’inizio del concerto dei Fintroll, che con La loro particolarissima ed inconfondibile miscela di folk, black melodico e elementi “humppa” si sono guadagnati negli anni un discreto numero di proseliti. L’esibizione dei finlandesi è attesa perciò con notevole interesse dal pubblico che inizia ad ammassarsi sotto al palco con un certo entusiasmo.
L’impressione iniziale a dire il vero è tutt’altro che positiva, a causa dei volumi stranamente bassi e di un bilanciamento dei suoni non certo ottimale. La voce è troppo bassa e le chitarre si sentono decentemente solo dal lato sinistro del palco, mentre il tutto risulta un po’ coperto dalle tastiere e dalla batteria. A parte questo l’esibizione dei nostri è vivace e divertente, nel continuo alternarsi tra parti più aggressive e digressioni folk molto coinvolgenti, con le onnipresenti tastiere sempre in primo piano.

Il pubblico, al di la dei problemi di resa sonora, sembra in buona parte apprezzare e, nei passaggi più allegri e dinamici, balla, poga e canta i cori con buona partecipazione. Mathias “Vreth” Lillmåns non smette di fare headbanging per un solo istante, catalizzando la maggior parte dell’attenzione, mentre i suoi compagni risultano un po’ più impostati. La resa live del vocalist per la verità è altalenante e convince solo in parte, non riuscendo del tutto nel compito di far dimenticare ai fan il suo predecessore Tapio Wilska, che aveva prestato la voce nel fortunato “Nattfödd“. Lo show dei finlandesi si chiude in bellezza con il classico Svartberg (Black Mountain), che sugella una prestazione forse non perfetta ma di certo piacevole e divertente.

Meshuggah
(A cura di Pier Tomasinsig)

Devo ammetterlo, i Meshuggah per il sottoscritto sono e restano un mistero. Mi riferisco all’incredibile divario tra la percezione che ho di loro ascoltandone gli album rispetto a quella in sede live. Con questo non intendo che dal vivo i nostri siano meno che impeccabili. Dal punto di vista esecutivo infatti è ovvio che un gruppo con un simile bagaglio tecnico non possa deludere. Tuttavia quei riff stoppati e contorti, quelle atmosfere opprimenti, dissonanti e meccaniche che costituiscono ormai l’inconfondibile marchio di fabbrica degli svedesi li rendono a mio avviso tanto interessanti su disco quanto pesanti e alla lunga noiosi dal vivo.

Il discorso è ovviamente del tutto soggettivo, e non vuole togliere nulla alla bravura dei nostri, anche in considerazione della buona prova fornita oggi al Metalcamp: i Meshuggah salgono sul palco concentrati e determinati, e subito un muro di suono annichilente si riversa sui presenti. Tecnicamente niente da eccepire, e ci mancherebbe: il lavoro di basso di Lövgren è a dir poco mostruoso, mentre le chitarre di Thordendal e Hagström eruttano tonnellate di riff martellanti e claustrofobici. dal canto suo Haake non sbaglia un colpo, anche se c’è da dire che i suoni, seppur potenti, non sono puliti come li vorrei in un concerto dei Meshuggah. La scaletta è prevalentemente incentrata su “Nothing”, con solo qualche fugace concessione a “Destroy Erase Improve”, “Chaosphere” e “Catch 33” (Future Breed Machine, The Mouth Licking What you’ve Bled e Shed) oltre ad alcuni estratti dall’ultimo “Obzen”.

C’è poco da dire: i Meshuggah dal vivo si dimostrano certamente devastanti, precisi come metronomi. Resta qualche dubbio sulla loro reale capacità di coinvolgere, ma anche sulla resa in sede live di pezzi che traggono parte della propria forza in quell’asettica e inumana perfezione che dal vivo, complici suoni per forza di cose non all’altezza del disco, viene in parte perduta in favore di un maggiore impatto.

Iced Earth
(A cura di Pier Tomasinsig)

Dopo l’allucinante post techno/trash dei Meshuggah è tempo di tornare a sonorità più classiche con gli Headliner Iced Heart. Si inizia con il riff roccioso e prorompente di Dark Saga, amatissimo classico della band americana. I suoni sono corposi e discretamente puliti, anche se le chitarre tendono un po’ a coprire il resto. Cionondimeno, Barlow appare sin da subito in ottima forma, e si rende protagonista di una prestazione grintosa e assolutamente convincente. La sezione ritmica è precisa e compatta, granitica sui mid tempo e potente nei passaggi più veloci; gli Iced Earth si confermano ancora una volta dei veri professionisti del palco e sfoderano con classe invidiabile tutto il loro bagaglio di esperienza e padronanza dei rispettivi strumenti. Ottima la presenza scenica del massiccio frontman, perfettamente a suo agio anche sui pezzi di Owens come Declaration Day, dopo la quale si passa senza soluzione di continuità alla durissima Violate, che scatena l’entusiasmo dei numerosi fan di nuova e vecchia data presenti. Una breve pausa, in cui Barlow approfitta per dialogare con il pubblico, ed è il momento di un altro classico, stavolta tratto da “Night Of The Stormrider”, ovvero la poderosa e devastante Pure Evil, che per il sottoscritto ha rappresentato probabilmente il momento migliore del concerto. È tempo di pagare il doveroso tributo all’apprezzatissimo “Something Wicked This Way Comes” e di concedere al pubblico un po’ di pausa con la semi-ballad Watching Over Me, prima di ripartire con Ten Thousand Strong, Dracula e The Coming Curse. Lo show si avvia alla sua conclusione sulle note della sempre emozionante I Died For You e dell’immancabile Iced Earth, e il giudizio finale non può che essere molto buono. Grande intensità, esecuzione di prim’ordine, ottimo coinvolgimento del pubblico; certo, si potrebbe obbiettare che gli Iced Earth hanno scelto di non rischiare più di tanto e andare sul sicuro, proponendo una scaletta incentrata su classici di grande effetto. Del resto, a fronte di un risultato del genere, non sarò certo io a cercare il proverbiale “pelo nell’uovo”. Dopo l’ottima esibizione al Gods of Metal, anche stavolta non hanno deluso. 

 Amon Amarth
(A cura di Pier Tomasinsig)

Sarò di parte, ma come non amarli? Ogni volta i concerti degli Amon Amarth sono a dir poco una garanzia. Sarà la carica incredibile che riescono a infondere a chi ha la fortuna di poterseli godere dal vivo. Sarà il particolare carisma da “vichingo-fino-al-midollo” del corpulento frontman Johan Hegg. Sarà la bravura e la convinzione con cui eseguono le loro performance. Sta di fatto che gli svedesi anche oggi si sono confermati tra i migliori della giornata, e, nonostante l’ora tarda e la stanchezza accumulata, non hanno mancato di infervorare a dovere tutti gli -ancora numerosissimi- presenti.

Si parte subito a tavoletta con Valhalla Awaits Me, involontariamente eseguita in versione esclusivamente strumentale, dato che la voce non si sente nemmeno un po’, con notevole perplessità da parte del pubblico tutto. Fortunatamente il problema viene presto risolto, anche se ormai per la mutilata canzone di apertura non c’è più nulla da fare. Poco male, perchè da qui in poi lo show è praticamente perfetto.
Gli Amon Amarth suonano precisi e compatti, da vera e propria macchina da guerra quale sono. Mikkonen e Söderberg macinano con sicurezza riff epici e potenti a profusione, ben supportati dalla vigorosa e incalzante sezione ritmica, mentre Hegg, enorme e bellicoso, munito dell’immancabile corno di birra, tiene il palco con il solito fiero cipiglio, arringando la folla e roteando incessantemente chioma e barba allo stesso tempo, in una sorta di spettacolare doppio headbanging (o beardbanging?).

C’è poco da dire: gli svedesi come impatto live temono ben pochi confronti. La scaletta è avvincente e ben equilibrata, tra pezzi recenti come The Fate of Norns, Runes To My Memory e With Oden On Our Side e classici come Bleed For Ancient Gods e Death In Fire, con la quale gli Amon Amarth letteralmente infuocano il Metalcamp, e che forse rappresenta il momento migliore del concerto. Tra mid tempo monumentali, accelerazioni forsennate ma sempre melodiche e chorus trascinanti che il pubblico canta a memoria si giunge alla conclusione con Pursuit of Vikings e Victorious March. Che dire, un concerto entusiasmante, che non ha mancato di ricevere il giusto responso dal pubblico. Per conto mio (per chi non l’avesse già capito) quest’oggi sono probabilmente stati i migliori.  

Tankard (2nd STAGE)
(A cura di Nicola Furlan)

Non è certo il momento migliore per assistere all’esibizione di Andreas “Gerre” Geremia e compagni. L’ora tarda e gli effetti della calda e festaiola giornata si fanno sentire, sulle gambe e sulle palpebre. Un tuffo nel pogo, headbanging sfrenato e altra birra non sono di certo gli ingredienti per il sano e rifocillante riposo necessario ad affrontare la prossima giornata di questo grande festival. All’atto pratico però è stato questo lo scenario che ha accompagnato lo show della storica thrash metal band teutonica. Il combo si presenta on-stage in grande forma con l’intento di risvegliare l’attitudine festaiola dei presenti. Nei primi sei brani di setlist vengono proposti niente meno che Need Money For Beer, The Morning After, Another Perfect Day e Sleepin’ From Reality: così, tanto per gradire. Vi lascio immaginare cosa non si è scatenato sotto il palco. Da non dimenticare anche la chicca della cover di Alcohol dei Gang Green.

Attimo di pausa con il solito siparietto che vede la pancia di Gerre a timpano improvvisato e si ricomincia. La seconda e ultima infornata vede la proposizione di altri veri e propri masterpiece della scena germanica anni 80 come: Zombie Attack e Chemichal Invasion, ma anche la recente The Beauty and the Beast o Frankfurt: We Need More Beer. Davvero un grande spettacolo che vede in chiusura l’ormai predestinata (Empty) Tankard, primo e vero marchio di fabbrica dei Tankard tratto dal full-length di debutto del 1986, “Zombie Attack”.

Devo dire che le aspettative per questo concerto sono state ampiamente confermate dallo stato di forma di una band simpaticissima, ma sopratuttto brava ad azzeccare una setlist ricca di capolavori. Ancora una volta ineccepibili rappresentanti di una scena che, grazie a band di questo calibro, può regalare ancora moltissime emozioni.

Dark Fortress (2nd STAGE)
(A cura di Pier Tomasinsig)

Dopo l’ottima prova in studio fornita con l’ultimo album “Eidolon”, ero particolarmente curioso di assistere all’esibizione dei tedeschi Dark Fortress, a costo di rimanere in piedi fino alle quattro del mattino (ora alla quale è in effetti finito il loro concerto). Purtroppo non posso proprio dire che ne sia valsa la pena. I Dark Fortress, che si presentano sul palco con un look black edulcorato tendente al darkettone, aprono le danze con No Longer Human e già mi sorgono le prime perplessità. I suoni sono pessimi, con la batteria che copre tutto, la voce di Morean che si sente poco e male e le tastiere praticamente inudibili. D’altronde il lavoro di Asvargyr e Santura alle chitarre è piuttosto convincente, e almeno dal punto di vista dell’impatto e dell’aggressività i nostri si salvano. Purtroppo, nonostante i Dark Fortress siano buoni musicisti, con suoni del genere è difficile cogliere le sfumature di cui la loro musica è ricca. Si ritorna ai due full-length precedenti (“Stab Wounds” e “Seànce”) rispettivamente con Self Mutilation e Poltergeist. L’impressione non migliora: Morean a volte sembra fare fatica e non conferma l’ottima impressione che mi aveva dato su disco, mentre Paymon passa praticamente tutto il concerto accasciato sulla tastiera. Non so se fosse la stanchezza, l’alcool o la frustrazione derivante dal fatto che il suo strumento risultava come già detto inesistente, ma non sono propriamente belle scene da vedersi, anche considerando che di gente rimasta sveglia per vederli ce n’era parecchia. Stesso discorso per le successive Cohorror e Baphomet, quest’ultima quasi irriconoscibile ma pur sempre devastante. Lo show si conclude senza riuscire a convincere, ma è inutile dare giudizi troppo severi, dato che di certo i tedeschi sono stati fortemente penalizzati dai suoni.

Domani la terza giornata con Helloween, Ministry, Opeth e molti altri…