Report: Never Say Die Tour – Cesena, Vidia Club (21/11/2008)
[Report a cura di Davide Iori tranne per le recensioni di Architects, Despised Icon e Unearth, a cura di Mattia Gatti]
Il Vidia di Cesena è un locale di tutto rispetto, soprattutto in quanto ha un’architettura perfetta per i concerti:
davanti al palco si trova una pista di dimensioni ragguardevoli, anche se non immensa, che accoglie coloro che vogliono
scatenarsi nel pit o comunque stare più vicino ai propri idoli, un passaggio sopraelevato subito dietro al mixer invece sembra
fatto apposta per coloro che vogliono godersi i suoni e stare più attenti alla musica nel suo insieme; una balconata infine
cinge tutta l’arena, in modo che coloro che desiderano ascoltare in maniera saltuaria, allontanadosi magari quando suonano
gruppi meno interessanti, possano farlo senza il rischio di ritrovarsi poi in una posizione svantaggiosa che non permetta loro
di vedere nulla. Il soffitto a volume doppio, alto almeno una decina di metri, permette una perfetta propagazione del suono
senza che coloro che si trovano un po’ più indietro siano svantaggiati dal punto di vista dell’ascolto e un impianto audio di
tutto rispetto fa il resto: non so se il mixer Midas sia di proprietà fissa del locale (probabilmente no), fatto sta che
durante la serata l’aspetto acustico non è stato per nulla un problema, anzi, si può dire che sia stato uno dei principali
pregi.
Prendiamo posto giovandoci del vantaggio che, essndo sedicenti giornalisti, ci è stato permesso di entrare in anticipo e
la cosa si rivela una manna dal cielo: già alle cinque del pomeriggio infatti c’era gente in attesa fuori dai cancelli e, solo
pochi minuti dopo l’apertura, il posto è già quasi tutto occupato da un pubblico numerosissimo che non finirà di arrivare fino
all’inizio del concerto dei Despised Icon. Alla fine di tutto il locale sarà stracolmo di gente e, se la dicitura “tutto
esaurito” è praticamente estranea agli eventi metal del bel paese, questa volta quantomeno ci si arriverà parecchio
vicino.
Sono circa le otto di sera quando viene dato il via alle danze, e la serata sarà quantomai piacevole.
CARNIFEX:
Gruppo di apertura della serata ed unico assieme ai Whitechapel a non avere un proprio tecnico del suono e ad avvalersi di
quello del locale, i Carnifex giungono sul palco e a dispetto di una proposta musicale ridondante ed abbastanza scarsa a
livello di idee imbroccano un buonissima prestazione, che coinvolge immediatamente il pubblico e fa iniziare la serata come
meglio non si potrebbe. I nostri si caratterizzano per una compattezza allucinante che prende le debolezze delle canzoni e le
trasforma nel punto di forza dell’esibizione: se dunque in ogni pezzo si assiste alla sequenza inizio fuorioso/strofa in cassa
-rullante/risoluzione su breakdown, i cinque statunitensi utilizzano questa loro monotonia come metodo per chiamare la folla al
pogo ed allo stagediving in momenti ben prefissati e dunque riuscendo ad ottenere un buon risultato a livello di
intrattenimento, scaldando le folle in vista degli acts successivi.
Bravi showmen dunque i Carnifex, anche se dal punto di vista artistico le cose da migliorare ci sono e non sono poche.
WHITECHAPEL:
Attesi dal sottoscritto e da molti altri come una delle band più interessanti della serata i Whitechapel giungono sul palco
portandosi dietro numerose dicerie, tra le quali quella che la loro scaletta, oltre ad essere cortissima, sia privata di pezzi
culto come Father of Lies, Exalt e Divirgination Studies. Duole dover constatare che tutte le voci si trasformano in realtà ed
i nostri mettono in campo una scelta di brani sinceramente discutibile, proponendo al posto dei loro inni canzoni
evitabilissime come Possessions ed altre comunque non di punta come To All Are Dead e Somatically Incorrect. Nonostante il loro
chitarrista Alex Wade in sede di intervista si sia rifiutato di considerare The Somatic Defilement come un album della band i
sei musicisti del Tenessee ci propongono (o propinano, dipende dai punti di vista) anche tracce da quel platter, e nemmeno
delle più belle.
Oltre a deludere i fan con le loro scelte di scaletta i Whitechapel non si dimostrano del tutto all’altezza nemmeno per quanto
riguarda l’esecuzione: oltre ai suoni obbrobriosi che il pubblico è costretto a subire per i primi cinque o sei minuti, con
cassa inesistente e frequenze basse tagliate talmente tanto da togliere ogni botta ai breakdown ed a tutto il resto, il
cantante Phil Bozeman non è di sicuro nella sua miglior giornata e più di una volta evita di cantare parti, arrivando in un
caso (che per fortuna rimane unico) a sforzare talmente tanto la gola da trasformare il suo growl in un rantolo simile a quello
di un prigioniero torturato in un film horror.
Il concerto finisce con This is Exile e almeno i nostri ci lasciano con una delle loro migliori canzoni, anche se ciò è ben
lontano da risollevare le sorti della loro prestazione.
PROTEST THE HERO:
Canadesi, privi di breakdowns e fautori di un progressive metal che ha poco a che vedere con le proposte degli altri gruppi
presenti nel festival (a parte forse gli Unearth, ma comunque si sta parlando di influenze completamente diverse) i Protest the
Hero si impongono come uno dei migliori gruppi della serata sbattendo in faccia a tutti la loro padronanza degli strumenti
superiore ed un atteggiamento incurante, quasi stessero suonando alla festa di compleanno di un loro amico. Il cantante Rody
Walker arriva dunque sul palco con una bottiglia di birra in mano ed il cappuccio ben calato in testa che fa sembrare che
qualche roadie lo abbia appena buttato giù dal divano per costringerlo ad esibirsi, ma la cosa deve essere interpretata come
una posa ben calcolata ed atta a fare spettacolo, in quanto i nostri sono delle macchine da guerra e Rody in particolare si
giostra tra innumerevoli registri con un’abilità assolutamente disarmante… in altri gruppi ci vogliono due o addirittura tre
cantanti per fare le stesse cose che fa lui. Da sottolineare anche la prestazione del bassista Arif Mirabdolbaghi, il quale si
impone come miglior musicista della serata per quanto riguarda il suo strumento grazie a tapping polifonici di indubbio gusto
ed un suono stupendo che fa dimenticare i suoi atteggiamenti da tipico sfigato del liceo che crede invece di essere molto figo,
come ad esempio togliersi la polvere dalle spalle dopo aver compiuto un assolo o assumere posizioni da persona annoiata di star
suonando una parte troppo facile quando invece accompagna.
Dal punto di vista della scaletta i cinque canadesi si concentrano su brani tratti dal loro ultimo album Fortress, esordendo
con Bloodmeat, The Dissentience e The Sequoia Throne, mentre il pubblico che canta tutti i ritornelli e si scatena incurante
del fatto che siamo di fronte ad un gruppo forse più accostabile ai Dream Theatero agli Evergrey piuttosto che agli acts
brutalcore che lo hanno preceduto. Suoni praticamente perfetti dovuti anche ad un fonico sempre presente e che addirittura
“aiuta” il cantante, aggiustandogli il volume ogniqualvolta cambia stile vocale, in modo da fargli mantenere lo stesso impatto
in ogni momento, completano il tutto… e non si potrebbe essere più soddisfatti, nonostante i soli 25 minuti di show.
ARCHITECTS:
Dopo un rapido cambio palco e un soundcheck altrettanto veloce il gruppo del modaiolo Sam Carter irrompe on stage violentando
le nostre povere orecchie non ancora del tutto sanguinanti, e offrendo una prestazione più che dignitosa, rafforzata da suoni
sempre all’altezza e da un’ottima tenuta del palco. Se già su disco i nostri avevano impressionato positivamente grazie alle
buone idee proposte (non innovative, ma sicuramente azzeccate) in sede live non tradiscono le aspettative mostrando di non
essere solo un fenomeno di costume, si veda il cantante con maglia viola di tendenza e cappellino con visiera rigorosamente
dritta, ma anche una band valida e competente nel panorama metalcore, pur mostrando ancora ampi margini di miglioramento
soprattutto per quanto riguarda il discorso “varietà compositiva”, cosa che alla lunga viene un pò a mancare e che in sede di
concerto non ha gravato troppo sui nostri più che altro a causa di un set davvero corto.
Aspettiamo di vederli nuovamente in Italia, magari con un pò più tempo a disposizione, per poterli giudicare con più
accuratezza. Intanto un bel 7+ se lo portano a casa…
DESPISED ICON:
Tamarri. Tamarrissimi. I Despised Icon invadono il Vidia con la loro carica quasi rap-core, per il ciclo “yo-yo man, we’ll kick
your ass”. Poi cominciano a suonare e tutto cambia. I nostri sanno pestare davvero duro, e ce lo dimostrano stasera con la
forza di un bisonte. Sentire pezzi come “A Fractured Hand” in sede live, con i suoi breakdown a dir poco pachidermici e le sue
accellerazioni, fa venire i brividi, su questo non ci piove. Resta poi da vedere quanto alla lunga possa interessarci la
proposta di questi sei ragazzotti che il death-core hanno contribuito ad inventarlo. Sì perché dopo qualche canzone é
inevitabile notare i limiti più grossi del gruppo, in primis proprio la cosatante ricerca della pesantezza, che forse alla
lunga diventa un pò stancante. Ciò non toglie che i nostri nell’elaborare questa materia sappiano il fatto loro, mettendo anima
e corpo per una prestazione altamente compatta e “solida”. Non c’è un tassello nella proposta dei Despised Icon che non sia
proposto in modo perfetto, con un batterista che picchia come un martello pneumatico (davvero stupefacente la sua potenza, un
impatto quasi paragonabile a quello del gigante Mike Smith dei Suffocation) e una sezione chitarristica sempre molto competente
e precisa. Forse l’ unico neo nella perfetta impalcatura sonora dei nostri può essere individuato nelle voci dei due cantanti,
con un Alexandre Erian comunque ben presente con il suo screaming-growl un pò alla Evan Seinfeld più cattivo, ed uno Steve
Marois invece sotto tono rispetto al solito, convincente a livello di screaming ma assai deludente nelle parti in growl
gutturale (incomprensibili, praticamente non si sentiva quasi nulla) e le parti in squealing, anch’esse assolutamente mal
riprodotte.
Ciò non toglie che la carica del gruppo canadese, nella mezz’oretta concessagli, abbia travolto tutti i presenti, compresi quei
metallari magari non troppo avezzi alle emergenti sonorità -core (dico solo che ad un certo punto la gente ondeggiava a tempo
come solo il miglior rapper di periferia sa fare!). Concerto divertente dunque, speriamo di rivederli presto dalle nostre
parti.
UNEARTH:
Eccoci arrivati alla prova del nove. Dopo l’uscita del discreto ma non del tutto convincente “The March” gli Unearth provano a
inculcarci il verbo del metalcore passando per l’infuocato palco del Vidia. Va detto subito che la missione dei cinque di
Boston non solo é stata portata a termine brillantemente, ma si è anche imposta come uno dei momenti più adrenalinici e
violenti dell’intera serata, dimostrando ancora una volta che l’esperienza data da anni di tour conta parecchio e in queste
occasioni si sente prepotentemente. Dopo un breve check ecco allora partire “Hail The Shrine”, song che sulle assi di un palco
acquisisce una fisicità non indifferente, poi via con “Giles”, “Grave of Opportunity”, “Crowkiller”( devastante, tutto il pit
scapocciava in modo forsennato). fino ad arrivare al singolone “My Will Be Done”. Ovviamente la band sa che anche i classici
non vanno trascurati e che, anzi, possono essere proprio questi ultimi i cardini di una prestazione incendiaria, così ecco
arrivare come una sassata in pieno volto la bellissima “The Great Dividers” (dal bellissimo e mai più eguagliato “The Oncoming
Storm”), autentica bomba in sede live come su disco, e forse miglior song della serata. Inutile poi sottolineare la prova di
tutti e cinque i ragazzi di Boston, con un Phipps sugli scudi che sbraita, coinvolge e travolge, sembrando un’altra persona
rispetto alla prova in studio, più incisivo e soprattutto molto più cattivo nel cantato in screaming che lo contraddistingue,
il tutto accompagnato da una prestazione sopra le righe delle due asce Buz McGrath e Ken Susi, autentiche macchine da guerra in
continuo headbanging. Il concerto scorre dunque piacevolmente per tutti i suoi 45 minuti di durata, tra un wall of death
chiamato, udite udite, dal pubblico(!!) e folate di pogo selvaggio (quello vero, per fortuna almeno con gli Unearth il mosh
fatto di wind mill e amenità varie é stato messo un pò da parte…).
Insomma i nostri ci sanno ancora fare, almeno per quanto riguarda la sede live, e per questo meritano massimo rispetto.
Difficile chiedere di più di fronte ad’una simile prestazione, difficile metterne in discussione il ruolo di rilievo (insieme a
pochi altri gruppi) nella scena metal-core dopo uno show di tal caratura e intensità. Tra i migliori della serata insieme ai
Protest The Hero, se non i migliori in assoluto. Aspettando un nuovo tour in Italia…
PARKWAY DRIVE:
Headliner alla pari di questo Never Say Die Tour con 45 minuti di show a disposizione e stessa backline degli altri gruppi i
Parkway Drive ci tengono immediatamente a sottolineare che è la sesta volta che vengono in Italia, ma in effetti la cosa non
sembra essere necessaria: la folla del Vidia Club li accoglie con ovazioni degne di un gruppo di fama mondiale e la pista, dopo
un momento in cui era sembrato che dovesse svuotarsi inesorabilmente, torna a riempirsi fino all’orlo. I nostri si mostrano
grati alla loro audience, che in effetti è calorosissima con loro esattamente come lo è stata per tutti gli altri gruppi, ed
esordiscono in maniera pesantissima sfoderando il loro lato più metal, forse anche in virtù del fatto che usano gli stessi
amplificatori di tutti gli altri e dunque hanno a disposizione le medesime distorsioni. Se però gli Unearth, oltre a mostrare i
muscoli, si erano concentrati anche sui loro pezzi più melodici, senza aver paura di proporli ad un pubblico che, almeno ad una
prima apparenza superficiale, era più ricettivo alle canzoni da mosh, i nostri non si prendono il rischio e puntano tutto su
uno show aggressivo e senza fronzoli che va dritto al sodo: scream arrabbiatissimo, brekdown degni di tutti coloro che li
avevano preceduti sul palco e soliti inviti allo stagediving, al pogo ed all’headbang.
Si continua su standard molto alti per tutto il tempo dello spettacolo, con una band che tuttavia, pur dimostrando un grande
affiatamento dal punto di vista esecutivo, scade un tantino nell’anonimato da quello artistico, non riuscendo ad inporre le
proprie caratteristiche di melodicità ed appiattendosi verso il basso con una proposta sicuramente meno tecnica rispetto ai già
citati Unearth ed anche ai Protest The Hero, band che costituivano la diretta “concorrenza” ai nostri per questa serata. Un
vero peccato dunque, anche se comunque a livello di puro intrattenimento essi non hanno niente da invidiare ai loro colleghi,
riuscendo a divertire tutti e, soprattutto, a guadagnarsi la pagnotta dimostrando di avere un sacco di gavetta alle spalle e di
essere un gruppo degno di calcare i palchi di tutto il mondo.
Alla prossima, magari con suoni più congeniali.
CONCLUDENDO…
Finiti i concerti si può davvero dire che la serata sia stata un successo, con un pubblico numerosissimo che è stato attento
e partecipe nei confronti di ogni singolo gruppo, anche di quelli che hanno avuto prestazioni altalenanti. Come già detto i
suoni sono stati ottimi per praticamente tutto il tempo, cosa francamente sorprendente dati i numerosissimi cambi palco
effettuati, ed il fatto che tutte le band si siano dovute adattare ad un timbro abbastanza standardizzato in virtù della
backline comune non ha inciso sulla qualità intesa in senso assoluto.
Diverso è invece il discorso per quanto riguarda la formula adottata: che gli americani siano dei maestri di marketing è
assodato e che il never Say Die tour sia innanzi tutto una grandissima trovata promozionale è indubbio: set da 20 minuti per i
due gruppi iniziali e da 45 per i due conclusivi non sono spiegabili in altro modo se non dicendo che lo scopo dei promoters
era quello di fare il maggior numero possibile di showcase in una singola serata, in modo da far conoscere in Italia (ed in
Europa, visto che di tour europeo si tratta) band che nonostante tutto hanno una visibilità limitata; il lancio di portabadge
griffati Never Say Die effettuato a circa metà serata è un’altra dimostrazione in tal senso. Naturalmente questo tipo di
mentalità va ad assoluto discapito della parte artistica della faccenda, con gruppi costretti a ridurre le scalette, saltare
pezzi anche importanti ed utilizzare suoni come detto molto standardizzati che hanno teso un po’ ad appiattire tutto, pur nella
loro bellezza.
Se dunque alle volte organizzare baracconi di dimensioni enormi strizzandoli in locali ed eventi di dimensioni fisiche e
temporali ridotte è l’unico modo per portare oltreoceano gruppi che altrimenti non vedremmo mai, bisogna comunque sempre
mantenere un’onestà intellettuale e capire che la musca per essere apprezzata richiede gli spazi ed i ritmi tipici dell’arte,
non quelli dell’industria, anche se alla fine spesso è di industria dell’intrattenimento che si tratta.