Report: Opeth, Amplifier -15/12/06 Trezzo-18/12/06 Roncade
Venerdì 15 dicembre 2006 – Live Club – Trezzo (Mi)
Parafrasando un simpatico spot televisivo possiamo affermare con certezza che
gli Opeth (at)tirano. Nonostante l’alta frequenza della band a calcare il bel paese
negli ultimi dodici mesi (o addirittura anni), anche in questa data di Trezzo,
Åkerfeldt e compagni
riescono a riempire praticamente tutto il locale di sostenitori che sembrano
ormai far parte di una grande famiglia, in perfetta sintonia con i tempi
“scenici” compassati degli svedesi, in trepidazione non solo per la grande
prestazione che gli Opeth offrono in ogni occasione, ma anche per rinverdire e
rafforzare il rapporto quasi confidenziale che il frontman stringe con la platea
ogni qual volta che cessa la musica. Uno humour sottile quello di Åkerfeldt, che
nonostante tutto, riesce a conquistare tutti (o quasi), trasformando quelle
pause a volte sin troppo prolungate in siparietti piacevoli che donano un
pizzico di folklore a un concerto che dal punto di vista prettamente dello
spettacolo, avrebbe qualche piccola carenza. Buona lettura.
Clicca sulle foto per ingrandirle.
AMPLIFIER
In perfetto orario sul tabellino di marcia si presentano gli inglesi
Amplifier. Una fitta coltre di fumo anticipa l’entrata sullo stage del terzetto
che comincia subito senza indugi a scaldare il pubblico con il proprio “space
rock” psichedelico. Gli Amplifier entrano bene nella parte, mostrando una buona
presenza scenica grazie a movenze che ben si addicono alle atmosfere della
propria musica. Il cantante/chitarrista Sel Balamir si dimostra abile nello
svolgere egregiamente il proprio dovere, lasciando che siano le orecchie della
platea, piuttosto che gli occhi, a godere della sua performance,
controbilanciata invece dal ben più coinvolgente bassista alla sua sinistra Neil Mahony.
A mio avviso
un’apertura insolita per un concerto che dovrebbe essere “metal”, ma che ben si
inquadra nell’ottica sempre meno estrema che pervade gli headliner della serata.
Il pubblico gradisce e la band prende vigore man mano, proponendo principalmente
brani del recente Insider, rielaborando in maniera psichedelica il classico rock
britannico, con qualche brevissima divagazione dal flavour punkeggiante
(sottolineate anche dalle movenze di Mahony), citazioni pinkfloydiane, e
richiami stoner. Poco più di mezz’ora per gli
Amplifier, che salutano gli accorsi, gia intenti ad accaparrarsi la posizione
migliore per l’esibizione successiva.
OPETH
Dopo un lungo cambio di set e un minuzioso sound check, si abbassano le luci
e lentamente i nostri prendono posizione sul palco, accolti da un sonoro boato
che esplode definitivamente quando Åkerfeldt, intento a sistemare pedali e
strumentazione, ricambia il saluto. Un approccio un po’ freddino se devo
essere sincero, che viene rotto dalle note dell’opener dell’ultima fatica in
studio degli Opeth,
Ghost Reveries. La splendida
Ghost of Perdition viene
penalizzata purtroppo da una resa sonora a mio avviso non all’altezza (che si
protrarrà per tutta la durata del concerto), che nel
caso specifico arreca un danno ancora più grave a una prestazione maggiormente
votata all’esecuzione minuziosa del brano, piuttosto che all’energia fisica
sprigionata. Per i primi minuti del pezzo i nostri sembrano ancora in
fase di riscaldamento, con Lindgren e Mendez intenti a far svolazzare i lunghi
capelli senza neanche troppa convinzione, con un Mikael praticamente immobile
dietro al microfono. Un’inezia comunque per il pubblico che
reagisce nel migliore dei modi a tutte le variazioni del brano, scatenandosi
(verbalmente) nei frangenti più ruvidi e accompagnando con discrezione i
fraseggi atmosferici.
Lentamente si arriva al secondo brano della serata, When,
tratto dal terzo
My Arms, Your Hearse, con un crescendo di emozioni che sfociano
nell’acclamata Bleak (da
Blackwater Park) ; brano che impegna seriamente
Mikael
al microfono nelle due parti in clean vocals, in cui il cantante è apparso
(prima e non unica volta) in leggera difficoltà, andando vicino alla “stecca” in un
paio di occasioni. Primo campanello di allarme che verrà poi confermato nel
prosieguo del concerto. Nonostante una prova maiuscola, minata però da piccole
(e perdonabilissime) sbavature, la band è apparsa leggermente stanca, senza
quella compattezza e quel trasporto che avevano mostrato in estate al Gods of
Metal ad esempio. Difatti è lo stesso Åkerfeldt a sottolineare che queste date italiane
sono le ultime esibizioni di un lunghissimo tour de force che li vede in viaggio da
molti
mesi, esternando la necessità di fermarsi per ricaricare le batterie. Poco male
perchè gli Opeth propongono un’ampia scaletta che abbraccia tutta la corposa
discografia (ad eccezione del debutto
Orchid) come a voler lasciare il miglior
ricordo possibile in vista della pausa futura. E così viene annunciata The Night
and the Silent Water, accolta in modo incredibile dai fans. I toni acustici e “doomish”
(parole di
Mikael)
del capolavoro
Morningrise riecheggiano in tutta la loro struggente delicatezza,
con Åkerfeldt ancora non perfetto nelle parti in “clean”, ma ugualmente
emozionante.
Nonostante la considerevole durata dei brani proposti, non si
avverte minimamente lo scorrere del tempo, con la platea che ben si presta ai
siparietti di Mikael, estremamente propenso a scherzare con il pubblico, che
dapprima intimava la band a denudarsi (con breve accenno del frontman e
inevitabili battute sulle dimensioni… si insomma avete capito) oppure ad
eseguire il celeberrimo riff di Smoke on The Water… Ma sarebbe inutile
dilungarsi in questo senso, perchè la spontaneità e la comicità di queste pause
andrebbero necessariamente vissute per poterci ridere sopra. Non solo
chiacchiere ma anche e soprattutto grande musica, con la delicatissima Face of
Melinda (tratta dall’altrettanto capolavoro
Still Life), da brividi lungo la
schiena, a cui segue l’energica The Grand Conjuration. Dopo un brano bello
carico è arrivato il momento di rilassarsi e giunge quindi il turno di Windowpane. Quello che è sicuramente uno dei brani migliori di
Damnation viene
rovinato non poco, a mio avviso, dal batterista Martin Axenrot, sin qui degno
sostituto (senza però strabiliare) di Martin Lopez. Per chi avesse bene in
mente i ricami di quest’ultimo eseguiti nel
dvd pubblicato ormai tre anni fa, non può che
dispiacersi della differenza tra i due drummer… Quello che una volta era il
tocco sublime di Lopez, oggi si è trasformato in sonore mazzate sul rullante,
decisamente fuori luogo in un brano così elegante, privo anche di buona parte del lavoro
che veniva svolto sui piatti per giunta. Un peccato perchè il resto della formazione
svedese è da applausi, con Åkerfeldt -finalmente- convincente nel pulito per
tutta la durata del pezzo.
Altra pausa e altra “scenetta” del frontman, che
obbliga il pubblico a fare headbanging senza musica, sottolineando come il gesto
sia ridicolo quando fatto nel silenzio, ma quanto assuma significato durante una
canzone come Blackwater Park, pesantissima, eseguita nel migliore dei modi,
senza risparmiarsi neanche nella lunga parte arpeggiata. E saremmo quindi
arrivati all’ultimo brano, se non fosse per la classica abitudine di ritirarsi
qualche minuto per proporre l’ultima parte del set. Infatti la platea non smette
un secondo di scandire il nome dei propri beniamini, che dopo diversi minuti si
ripresentano con l’ennesima trovata comica, coinvolgendo il roadie
che si occupa durante i live dei frequenti cambi di chitarra di Åkerfeldt,
augurandogli buon compleanno
accennando un breve passaggio punk, descritto ironicamente come prossima
evoluzione di sound e di look, con una minuziosa descrizione di Mikael della
futura “mise punk” della band. Pochi secondi di concentrazione e si conclude con
la mastodontica Deliverance (estratta dall’album omonimo), manco a dirlo
proposta in modo fedele al disco con l’unico neo sul finale, durante l’ipnotica
parte conclusiva, dove Axenrot sente il peso della fatica nei passaggi in doppia
cassa. A questo punto è giunta la fine, con un lungo arrivederci della band, che
ritornerà con un nuovo tour in supporto al prossimo album.
Che dire ancora… Un concerto ricco di fascino, che ha messo in luce una band
arrivata al limite delle forze, bisognosa di riconcentrarsi per un nuovo
capitolo. A voler cercare il pelo nell’uovo le sbavature non sono mancate (più
che altro per una ricerca di perfezione del sottoscritto, piuttosto che da reali
demeriti della band), del
resto le esibizioni degli Opeth devono essere necessariamente il più precise e
pulite possibili, avendo un approccio di certo non visivamente accattivante. Ma anche quando in una serata non al massimo della forma, si
regala ai propri sostenitori una prova del genere, allora vuol dire che ci
troviamo di fronte a un gruppo che merita assolutamente tutto il successo che da
qualche anno a questa parte continua a sorridere sempre più. Personalmente
rimangono dei dubbi sulle reali potenzialità del nuovo innesto dietro le pelli,
troppo lontano dallo stile di Lopez (una delle migliori qualità della musica
degli svedesi) o meglio della sua capacità di saper adattarsi alla direzione sempre più
progressive che gli Opeth stanno intraprendendo. Non ci resta che attendere il
prossimo album a questo punto.
Stefano Risso
Report a cura di Nicola “Nik76” Furlan
18 dicembre 2006, New Age (Roncade – Treviso): Opeth –
Amplifier
Locale pieno, ma senza particolari pressioni spalla a spalla, giusto
equilibrio di luci e birra di godibilissimo gusto rappresentano l’apertitivo
ad una serata carica di palpitanti aspettative. Amplifier ed Opeth
impersonano curiosità e conferma di originali realtà artistiche che per un
motivo o un altro risultano a tutti gli effetti distinguibili in rapporto a
grand parte del panorama musicale europeo attuale.
AMPLIFIER
Ricordo ora con grande sfida quanto rimasi male qualche mese fa quando
proprio al New Age andai a sentirli. Forse col senno di poi capisco che non
era un problema loro l’aver espresso una prestazione a prim’impatto
mediocre, ma di un sound check alquanto approssimativo. Questa volta invce i
ragazzi di Manchester hanno davvero spaccato sotto tutti i punti di vista.
Attitudine rock nell’attegiamento, nel saper tenere un palco non a loro
misura per la potenzialità dinamica percepita ed ahimè contenuta per
oggettivi limiti di spazio. Una band dall’elasticità compositivo/espressiva
davvero ricercata che in sede live come mai amplifica questo famigerato mix
di hard rock/stoner e che non disdegna anche qualche venatura più
romanticamente melodica. Un’interpretazione sincera, spontanea e di grande
presa.
Promossi.
OPETH
Le luci scendono e la deflagrazione spacca il silenzio. Sono le prime oscure
note di “Ghost of Perdition” a temperare lo show appena iniziato. Akerfeldt
e soci invadono alla stregua d’un vento gelido ed ombrato gli ascoltatori.
L’opener è di quelle che non avrebbero potuto aprire meglio. Prestazione
esecutiva a livelli chirurgici che trasuda palpabile terrore avvolgente.
Subito dopo il delicato arpeggio di “When” il combo esplode nuovamente tutta
la violenza che la stessa di My Arms Your Hearse riesce a trasmettere
alternando che è un piacere e con maestria il clean al growl. Un Akerfeldt,
degno del miglior cabarettista inglese, flemmatico e di classe posturale
intrattiene il pubblico con un colpetto di genio dopo la devastante ed
ipnotica “Bleak” perchè a suo dir non si vedono capelli al vento. Soluzione?
Dato che il personaggio ritiene inconcepibile il non fare headbanging sui
riffing fin’ora proposti, si agitino le teste senza musica per arrivare
successivamente a chiedere se il pubblico volesse una cover di Ramazzotti.
Risate a parte il tutto scivola nell’ipnosi magica di “Face of Melinda”
carica, oltre che di un pathos mozzafiato, di sinergie esecutive da brividi
da parte del combo svedese. Non manca di goder dei soffusi richiami
primitivi folk oriented di “The Night and the silent Water”, da cui emerge
anche tutta l’espressività di Akerfeldt e la sublime prestazione di Martin
Mendez al basso. I tratti acustici e le dilatate atmosfere creano dei
momenti di intensa fredda magia che, mescolata alle componenti acustiche più
vive e malinconicamente calde riempono perfettamente il già prezioso clima
creatosi. Ricordando nuovamente i 19 mesi di tour ininterrotto sugli sbuffi
di qualcuno dei presenti che ironicamente il singer amplifica ripetendo la
stessa affermazione per almeno 5 volte si riesplode con l’accoppiata “The
Grand Conjuration”/”windowpane” per un’acquisizione emotiva del potente gelo
sonico della prima e delle tiepide, dense e passionali ritmiche della opener
di Damnation in cui viene ampiamente confermato il valore del nuovo
batterista Martin Axenrot. Indescrivibile nuovamente la prestazione di
“Blackwater Park” per poi chiudere acclamati nuovamente sul palco con
“Deliverance”.
Il tempo è volato purtroppo. Non cadete nel tranello di giudicarli ai
festival come spesso si sente dire. Sono una proposta di nicchia, vanno
presi nel loro habitat, tra quattro mura, in atmosfere soffusamente intime è
una band che non ha pari al momento. Vi faranno vivere il caldo, il freddo e
vi ipnotizzeranno. Immensi.
Promossi con lode
Setlist:
Ghost of Perdition
When
Bleak
Face of Melinda
The Night and the silent Water
The Grand Conjuration
Windowpane
Blackwater Park
Deliverance
Nicola “nik76” Furlan