Heavy

Report: Play It Loud III (Argelato – BO, 28-02-09)

Di Angelo D'Acunto - 10 Marzo 2009 - 1:20
Report: Play It Loud III (Argelato – BO, 28-02-09)

Parole di Angelo D’Acunto, Federico Mahmoud e Stefano Ricetti
Foto di Angelo D’Acunto

 

 

Si dice Play it Loud, si legge Heavy Metal. Giunto alla terza puntata, il festival patrocinato da My Graveyard (nella persona di Giuliano Mazzardi, inguaribile defender) trasloca da Orzinuovi alle campagne bolognesi, in quel di Argelato. Un tour de force di oltre dodici ore che ha spalancato i battenti del Ke Me Meo a un’orda chiassosa e variopinta, con rappresentanze tedesche, francesi e spagnole. Tanta (troppa?) carne al fuoco in un’edizione che ha bissato i livelli degli anni precedenti, ponendosi come risposta italiana ai vari Keep it True, Headbangers Open Air et similia. Attenzione, il Play it Loud raddoppia: appuntamento a settembre con Angelwitch, Steve Grimmett’s Grim Reaper, Ruthless, Sacred Steel, Tysondog, Seventh Seal, Renegade e altri. Con un ringraziamento particolare agli organizzatori, segue il resoconto della giornata. Buona lettura.

Federico Mahmoud

Ore 14:00 in punto: ad aprire le danze di questa terza edizione del PIL Festival ci pensano i toscani Fallen Fucking Angels. I suoni non sono ai massimi livelli (solita croce da portare in spalla per le band in apertura) e l’esecuzione non si può definire impeccabile. Ma nonostante tutto, il combo di Viareggio mette in atto uno show ugualmente coinvolgente e convincente che riesce a raccogliere i consensi da parte della stragrande maggioranza dei pochi presenti. A guidare la band c’è il carismatico Filippo “The Butcher”, Belli ottimamente a proprio agio sia in veste di singer, sia in quella di drummer, il quale concede ai presenti una buona dose di battute spiritose fra un brano è l’altro (“e adesso suoniamo un pezzo che, stranamente, non parla di porchetta”) che fanno guadagnare al combo il trofeo come gruppo più divertente dell’intero festival.

Angelo D’Acunto

 

 

 

 

 

Trentini, un full-length all’attivo, i National Suicide rientrano a pieno titolo tra le formazioni più promettenti dello Stivale. The Old Family Is Still Alive è un invito a nozze per chi vive di pane e Bay Area: la concorrenza è avvertita. Il gruppo onora la chiamata con una prestazione degna della propria fama, riscuotendo ampio consenso tra sostenitori (un manipolo chiassoso) e novizi. La scaletta pesca a piene mani dal debutto (appena pubblicato da My Graveyard) ma rompe il ghiaccio con A Lesson In Violence, caotico tributo ai “padrini” Exodus. Incurante di suoni pessimi, la band confeziona uno show letteralmente incendiario: Nu Posers Don’t Scare Anyone (!), The Old Family Is Still Alive (un outtake di Fabulous Disaster), Let Me See Your Pogo massacrano il pubblico a colpi di speed / thrash, tra Exodus, Overkill, Nuclear Assault e compagnia urlante; il colpo di grazia è This Is A Raid, uptempo imperniato sulle rasoiate chitarristiche di Bob e Tiz. Stefano “Mini”, degno epigono dei vari Bobby “Blitz” Ellsworth e Steve “Zetro” Souza, arringa la folla da frontman scafato, rivendicando con orgoglio l’integrità “morale” del proprio lavoro. Ai posteri il primo comandamento del Play it Loud: la coerenza paga. Defend the Line.

 

Federico Mahmoud
 

 

La terza posizione del cartellone è occupata dai Wotan, sicuramente una delle band più attese dell’intero festival. I nostri si presentano sul palco, come da consuetudine, vestiti da antichi guerrieri: abbigliamento in puro epic-style che ben si adatta con la musica e le tematiche trattate nei testi. Nonostante i suoni, rispetto ai primi due gruppi, siano decisamente più equilibrati, la band guidata dal singer Vanni non appare in grandissima forma, il che è andato a rendere l’esibizione un po’ troppo fredda e distaccata dal pubblico del Ke Me Meo. Ma nonostante ciò, i presenti sono apparsi decisamente coinvolti e soddisfatti dalla prestazione del combo lombardo. Fra i momenti più significativi dello show ci sono stati sicuramente l’esecuzione di Drink In The Skull Of Your Father, durante la quale Vanni innalza al cielo un calice a forma di teschio, e la presenza dell’immancabile Lord Of The Wind, quest’ultima cantata a squarciagola da tutti i presenti. Alla fine dei conti, una esibizione abbastanza sottotono quella dei Wotan, ma che comunque è riuscita a soddisfare ugualmente le orecchie dei presenti.

Angelo D’Acunto

 

 

 

 

 

 

Esordio assoluto in Italia per i cugini d’oltralpe Lonewolf, dai più additati come successori dei padri Running Wild. Se la ciurma di Rock ‘N’ Rolf ha i cannoni inceppati, il quartetto di Claix vede salire le proprie quotazioni: merito soprattutto dell’ultimo LP, Made in Hell, un’orgia speed metal dal forte retrogusto piratesco. La combriccola di Jens Börner risponde all’appello senza timori reverenziali, sfoderando una prestazione coriacea e di grande quantità. Il repertorio dei francesi non eccelle per fantasia e tecnica, ma può contare su una manciata di brani avvincenti: Shadowland, opener del giorno, è una cavalcata dal piglio barbarico, forgiata secondo la ricetta Kasparek; l’anthemica S.P.Q.R. (da Unholy Paradise) chiama a raccolta i legionari per un refrain corale; Made in Hell impatta con la finezza di un mid-tempo schiacciasassi, tanto lineare quanto coinvolgente. Al di là delle evidenti “affinità” con i corsari di Amburgo, Lonewolf è una band che si regge sulle proprie gambe: divertono e si divertono, un particolare che sfugge a numerosi colleghi più titolati. Onesti e fedeli alla linea, proprio come il Play it Loud.

Federico Mahmoud

 

 

 

 

 

 

Superato brillantemente l’empasse provocato da problemi tecnici durante l’esecuzione del primo pezzo in scaletta – non sentiva assolutamente la propria voce -, il singer degli Holy Martyr Alessandro Mereu ha preso in mano le redini della situazione traghettando il gruppo di origine sarda lungo un cammino costellato di heavy metal dai tratti epici fumigante ma soprattutto scoppiettante, fierissimo ma altrettanto adatto per le esibizioni dal vivo. Dalla granitica Spartan Phalanx ad Ave Atque Vale posta in chiusura passando attraverso Hellenic Valor, The Call To Arms
e Vis Et Honor un’esibizione senza un millisecondo di calo a testimonianza della forza intrinseca della maggior parte dei brani contenuti negli album Still At War ed Hellenic Warrior Spirit. Pezzi che sanno colpire al cuore, esattamente come una daga romana brandita da un forte braccio italico ai tempi dell’Impero. Tornando al Play It Loud, la band di Ivano Spiga ha confermato ulteriormente le proprie assolute doti on stage, se mai ce ne fosse stato bisogno.

Stefano Ricetti

 

 

 

 

 

 

Graditissimo ritorno quello di Fulberto Serena (ovviamente a parere di chi scrive), per chi non lo conoscesse: storico chitarrista dei Dark Quarterer negli 80’s, sparito dalle scene per quasi un decennio prima di ritornare a suonare con gli Etrusgrave, nuovo progetto musicale già enormemente gradito su disco. Per quanto riguarda il fronte live, tanta, tantissima era la curiosità del sottoscritto di vedere all’opera il combo toscano, e questa del Play It Loud III è stata sicuramente fra le occasioni più ghiotte. Ottima la prestazione della sezione ritmica, con la batteria del giovane Taddei in perfetta intesa con il basso di Luigi Paoletti, mentre le incursioni chitarristiche del veterano Serena assumono il vero e proprio ruolo di protagonista. Stessa cosa non si può dire, purtroppo, per quello che è l’operato del singer Tiziano “Hammerhead” Sbaragli, sul quale già si nutriva qualche dubbio per quella che era la sua prestazione su disco: poca, pochissima presenza scenica (si limita semplicemente a passeggiare qua e là in varie zone del palco) e ancora meno efficace a livello vocale, se non con alcuni acuti più clamorosi. In ogni caso, non sono di certo mancati gli episodi da ricordare: prima su tutti l’esecuzione della splendida Lady Scolopendra (già presente in War Tears dei Dark Quarterer) cantata a squarciagola da tutti i presenti e il finale con Angel Of Darkness (dal demo Behind The Door degli Etrusgrave) che mette la parola fine ad una esibizione un po’ deludente ma comunque di buon livello.

Angelo D’Acunto

 

 

 

 

 

 

Il terzo Play it Loud è uno spot per l’heavy metal italiano che vale più di mille parole. Dopo le grandi esibizioni di Wotan, Holy Martyr ed Etrusgrave, spetta ai laziali Martiria tenere alto il vessillo tricolore. La presenza di Rick Anderson (già Damien King III alla corte dei Warlord) vale il prezzo del biglietto. La formazione romana è protagonista di uno show toccante, giocato su toni melodrammatici e atmosfere soffuse. Andy “Menario” e soci non incarnano lo stereotipo della band borchiata, in uniforme denim & leather, ma le canzoni parlano per loro: The Cross, in apertura, mescola riff pachidermici alla teatralità di Anderson; Misunderstandings fa leva su melodie lussureggianti ed evocative; Celtic Lands è un tripudio epic metal marziale nell’incedere. Suoni cristallini fanno da cornice a una prestazione brillante, cui va appuntato soltanto un difetto di presenza scenica. Unico neo di un concerto che, nonostante una proposta tutt’altro che accessibile se rapportata alla media, riscuote applausi meritati e sinceri.

Federico Mahmoud

 

 

 

 

 

 

A dream become reality, questo è il titolo più adeguato per descrivere l’esibizione degli storici Vanexa, attesissima da tutti gli amanti della NWOIHM. Il mondo dell’heavy metal è magico e talvolta foriero di miracoli. Vedere Syl Bottari troneggiare dietro la batteria di fronte a una folla urlante riporta al leggendario Festival di Certaldo, quando i savonesi condivisero l’headlining con i Death SS, anno domini 1983. I Vanexa 2009, oltre al drummer, schierano l’altro pilastro Sergio Pagnacco al basso, il fenomeno che non ha bisogno di presentazioni Rob Tyrant dietro al microfono – proprio con Loro mosse i primi passi, ai tempi di Against The Sun nel 1994 – e la possente, inedita, coppia d’asce Artan “Tani” Selishta/Alex Graziano. Le milestone si susseguono, sul palco di Argelato: I Wanna See Fires, A Night On The Ruins, One Thousand Nights sono mazzate figlie di un HM antico ma ancora tremendamente attuale che urlava vendetta da troppi anni. Per molti sembrerà incredibile, data la prestazione e la potenza di fuoco profusa, ma il batterista ha per tutto il concerto utilizzato la vecchia tecnica di suonare con una cassa sola, adoperandola come “doppia”, rifacendosi cioè alla tradizione dell’esordio “Vanexa”, quando per motivi economici la seconda costituiva una chimera. L’audience risponde alla grande e la prova dei Nostri è da incorniciare: gli straclassici Metal City Rockers e Rainbow In The Night chiudono un concerto surreale, imperdibile ed intensissimo che resterà per sempre nella storia. Vanexa is back!

Stefano Ricetti

 

 

 

 

 

 

Tralasciando i nomi altisonanti, il vero “colpo” di Giuliano Mazzardi si chiama Jaguar. Il quartetto di Bristol, alla prima assoluta nel nostro Paese, rinnova la tradizione NWOBHM del Play it Loud: dopo Blitzkrieg, Raven, Elixir e Cloven Hoof, la Union Jack sventola anche nel bolognese. Il successo di Power Games (1983), un classico della Neat Records, ha fruttato alla band un alone di culto che il lungo silenzio (rotto sul finire degli anni Novanta) non ha intaccato. Capeggiati dal chitarrista Garry Pepperd, unico superstite della formazione originale, i giaguari prendono in contropiede anche i più scettici: merito di un repertorio competitivo e della buona vena di Jamie Manton, titolare del microfono dal 1998. Il concerto è una manna per i seguaci dell’acciaio britannico. Tra gli highlight spiccano Dutch Connection (proto-speed condito dalle rullate di un tellurico Nathan Cox), il riffing dinamitardo di The Fox, Master Game; da brividi Axe Crazy (archetipo NWOBHM tra melodia e irruenza) e War Machine, un’altalena emozionale che mescola passaggi introspettivi a roboanti deflagrazioni elettriche. Le armi del gruppo sono una discreta presenza scenica e un gioco di squadra fluente, cementato da anni di esperienza comune. A detta di molti i vincitori del festival.

Federico Mahmoud

 

 

 

 

 

 

 

Giganteggianti, come al solito, e potrei chiudere qui. Il quartetto capitanato da Daniele Ancillotti detto Bud ha spaccato di brutto ancora una volta, riuscendo a stupire, per qualità e potenza, anche i fedelissimi, oltre ai quattro componenti degli Exciter dietro le quinte. Proprio questi ultimi si sono complimentati a lungo con il combo fiorentino, esigendo delle foto insieme a Loro. La scaletta, rispetto al consueto, ha alternato alcuni brani nuovi tratti dal recentissimo ultimo album Roll The Bone, che ben si amalgamano con la tradizione Bud Tribe. Delirio incontenibile durante Rock‘N’Roll Tribe, Non Sei Normale e la conclusiva Metal Brigade, probabilmente il manifesto del Metallo italiano degli anni Ottanta. Sugli scudi la prova del batterista Dario Caroli, stantuffo inesauribile e potentissimo, accompagnato dagli altrettanto chirurgici Leo Milani e Bid Ancillotti. La voce blueseggiante di Bud ha completato il quadro, per uno show prevalentemente improntato all’attacco frontale, a partire da Face The Devil, come è d’uopo in un contesto come il Pil. Certezze!

Stefano Ricetti
 

 

 

Il massimo comune denominatore del Play It Loud, da sempre, è l’interazione continua fra le band e i metalhead convenuti. In questo immancabile e doveroso esercizio, oltre alle disponibilissime band italiane, si sono distinti i guerrieri canadesi Exciter, da Ottawa. Molta era la curiosità che aleggiava intorno al combo del leggendario John Ricci in virtù del recente, delicatissimo, cambio di cantante: fuori il peraltro sempre convincente Jaques Belanger e dentro un piccoletto tozzo e tarchiato, rispondente al nome di Kenny “Metal Mouth” Winter. Ebbene, quest’uomo, peraltro umilissimo e molto molto simpatico, ha annichilito l’audience scafatissima di Argelato grazie a una prestazione immensa, per certi versi inaspettata. I Nostri fanno tremendamente sul serio: Rik Charron pesta come un fabbro bypassando i problemi tecnici sulle prime canzoni con la classe dei grandi; Clammy è il solito, ingombrante e preciso guascone dal gigantesco basso nero mentre Mr. Exciter John Ricci costituisce una fabbrica inesauribile di riff conditi da una gragnola di inediti spike sugli avambracci. Accanto alle recenti Thrash Speed Burn, In Mortal Fear, Evil Omen e Betrayal i crazy canucks radono al suolo il palco bolognese con attacchi mortali come Metal Crusaders, Rule With An Iron Fist, Aggressor, The Dark Command, Rain Of Terror, Pouding Metal e l’inno Heavy Metal Maniac. Chiusura da codice penale in virtù di due bordate del livello di Long Live The Loud e Violence&Force. Per chi avesse dubbi sul significato vero di pogo, body surfing e stage diving si faccia raccontare i particolari da chi c’era durante il concerto dei canadesi oppure dallo stesso – sorpreso e a tratti preoccupato per tanta foga ed entusiasmo -, Kenny Winter. Devastanti, unici e incontenibili, questi sono gli Exciter, una macchina da guerra senza eguali al mondo, in grado di massacrare il pubblico con pezzi dalla violenza inenarrabile mai fine a se stessi, allo stesso tempo coinvolgenti e su misura per un concerto. Per chi scrive, ma non solo, gli eroi dell’intero Festival in quel del Ke Me Meo, i veri ed incontrastati “Gods Of Loud”.

Stefano Ricetti

 

 

 

 

 

A terminare questa lunghissima giornata all’insegna dell’heavy metal ci sono i Jag Panzer, vero e proprio fiore all’occhiello del cartello di questo Play It Loud III insieme ai canadesi Exciter. Se lo show di quest’ultimi è stato fra i più perfetti, coinvolgenti e, sopratutto, devastanti, purtroppo l’esibizione della band americana è apparsa un po’ sottotono e deludente sotto molteplici punti di vista. Ma andiamo per ordine: lo show dei Jag Panzer, iniziato con un notevole ritardo rispetto agli orari prestabiliti, si svolge di fronte ad un pubblico meno numeroso rispetto a quello presente durante l’esibizione dei co-headliner. L’inizio è affidato al poker d’assi Tyranny/Lustful And Free/Future Shock/Moors e sin da subito si nota quello che è l’ottimo stato di forma del singer Harry Conklin sia a livello di presenza scenica, sia per quanto riguarda la prestazione vocale. Ma i veri scricchiolii arrivano da una sezione ritmica piuttosto anonima, con in primo piano le nette imprecisioni del drummer Rikard Stjernquist che penalizzano non di poco lo svolgimento dell’esibizione. Se poi aggiungiamo anche i vari errori della chitarra solista di Christian Lasegue, il quale tenta in tutte le maniere di emulare il suo predecessore Chris Broderick toppando clamorosamente la stragrande maggioranza della parti di propria competenza, la frittata può considerarsi come fatta a tutti gli effetti. La band si sforza comunque di soddisfare i presenti continuando imperterrita sulla propria strada, proponendo una setlist che ricopre tutta la discografia a disposizione, eccezion fatta per la conclusiva Warfare: purtroppo l’unico pezzo estratto dal primo Ample Destruction. Per il resto, rimangono da segnalare gli ottimi innesti di The Mission (dall’ultimo Casting The Stone), King At A Price (da Thane To The Throne) e l’accoppiata da Chain Of Command composta dalla stessa title-track e dalla successiva Shadow Thief. Davvero un peccato, perché vedere una band di questo calibro, autrice di una prestazione così sottotono, ha sicuramente deluso le aspettative di chi, come il sottoscritto, da questa esibizione si aspettava uno spettacolo indimenticabile. Sarà per la prossima occasione.

 

Angelo D’Acunto

* per uno spiacevole disguido occorso sul luogo dell’evento, non sono disponibili fotografie dello show dei Jag Panzer
 

LE CONCLUSIONI, DI STEVEN RICH

Anche la terza edizione del Play It Loud se ne è andata e chi più chi meno riporterà a vita le stigmate rimediate in un concerto memorabile e unico nel suo genere, così come le occhiaie guadagnate dagli infiniti chilometri nella lunga notte lungo la via di casa. Nonostante il cambio di location l’Italia Defender ha dimostrato che i numeri per certe kermesse sono quelli e non si scappa. Puntualissime sono arrivate le mini delegazioni dalla Germania e dalla Spagna ma le facce incontrate alla resa dei conti non si discostano più di tanto dalle due edizioni precedenti a palesare che davvero poco conta il luogo dove si svolge la manifestazione, in questi casi. La Germania e il suo pubblico sono lontani anni luce, in termini di presenze e ormai questo è un dato di fatto. Giuliano Mazzardi, il vulcanico e indomito organizzatore, in barba alle statistiche e ai freddi conteggi non molla di un millimetro e si merita la stima e il tifo incontrastato di tutti quanti, proprio perché alla fine insegue un sogno, che finora è riuscito a realizzare per ben tre volte e in cantiere ha già la quarta edizione del Festival. La “grande famiglia” dell’HM convenuta ha proposto il generale “scazzo alla tedesca”, tanto fondamentale in questi casi quanto salutare a ogni cambio band per l’avvicendamento degli ultras di turno alla prima fila, i soliti ubriaconi semi-inoffensivi che lasciano imperterriti qualche “ricordino” qua e là e dulcis in fundo, a livello generale, una Babilonia nei servizi igienici, che neanche in Trainspotting… una roba davvero allucinante! Sorvolo, per decenza, su colori e particolari. Da questo punto di vista, innegabilmente, si paga davvero dazio. Se suddette considerazioni, purtroppo, sono ormai fisiologiche e totalmente indipendenti dall’organizzazione, va rimarcata la grande partecipazione in termini di calore espresso a tutte le band esibitesi e la riuscita globale dell’evento, come testimoniato dall’eccitazione post concerto palesata dai gruppi stranieri. In realtà, come accaduto in occasione del gig degli Exciter, uno dei presenti, durante l’atterraggio successivo all’ennesimo body surfing generale, è andato oltre la regolare ammaccatura, mettendo non poco a disagio il singer dei canadesi. Parlare si sicurezza in tali circostanze fa sorridere, d’altronde fino a quel momento le varie esibizioni acrobatiche da concerto si erano svolte al meglio, nonostante la disposizione delle transenne e delle casse del Ke Me Meo sia quanto di peggio si possa aspettare il tipico surfista a 360°. Poco male, ad un concerto in teoria si dovrebbe assistere e partecipare attivamente, questo si, ma non rischiare l’osso del collo con improbabili tuffi nel vuoto. A corollario della kermesse, degli interessanti stand di vendita dischi e il merchandising ufficiale delle band coinvolte, oltre all’obbligatorio acquisto della rivista ufficiale Play It Loud, ricca sia di pagine che di contenuti, curata interamente dal redattore e amico Sandro Buti. Thumbs up, quindi, e alla prossima. Long Live The Loud!

 

Stefano Ricetti