Report: Queensrÿche – 7 giugno, Milano

Di Riccardo Angelini - 23 Giugno 2008 - 10:03
Report: Queensrÿche – 7 giugno, Milano

E infine l’evento giunse anche in Italia. “Operation: Mindcrime” il concept par excellance del metal classico eseguito per intero, tutto d’un fiato sul palco dell’Alcatraz di Milano: un sogno che si avvera per vecchi e nuovi fan, un’opportunità imperdibile per chiunque abbia nel cuore la storia di Nikki e Mary. Nonostante l’assembramento di popolani dirottati in zona San Siro da note più confacenti il gusto dell’italiano medio (leggasi: concerto di Rossi Vasco presso lo stadio), la partecipazione del pubblico è forte, il locale stipato, l’atmosfera elettrica, a testimonianza della grande stima di cui ancora oggi Tate e soci godono presso gli appassionati dello Stivale.

Parole di Riccardo Angelini, immagini di Andrea “Ryche74” Loi.

 

   

La calata italica dei ‘Ryche, lo si è detto, non prelude a un show come gli altri: l’unicità dell’esibizione è testimoniata non soltanto dall’eccezionale programma della serata, ma anche dalla cornice scenografica, totalmente immersa nella dimensione del concept, e dall’interpretazione dello stesso Tate, cantante e attore in un magniloquente spettacolo a metà fra concerto rock e musical. La prima metà della scaletta è indubbiamente quella più attesa, e di certo sarebbe bastata da sola a riempire il locale. C’è da credere che nell’istante in cui le note del primo, unico, inimitabile ‘Mindcrime’ hanno riempito l’aria, un brivido silente sia sceso lungo la schiena dei numerosi presenti. Esserci è già un evento.
Eccettuata una breve sosta subito prima di “Speak”, durante la quale Tate si concede lo spazio per salutare il pubblico e (in guisa un poco meno ortodossa) il presidente George W., la rappresentazione procede senza pause dal primo all’ultimo pezzo. L’emozione è tanta, ed è dura per un fan mantenersi distaccato mentre nelle sue orecchie scivolano le note di classici come “Revolution Calling”, “The Needle Lies”, “Breaking The Silence” o “I Don’t Believe In Love”. Tate, appesantito dall’età e dagli stravizi, è ancora un leone – la sua prestazione nella prima metà del concerto non è certo impeccabile, segno che gli anni passano anche per lui; ma considerato lo sforzo imposto da brani tutt’oggi proibitivi per molte ugole, l’ulteriore impegno imposto dalla necessità di cantare in posizioni non proprio comode, accompagnando l’emissione di voce con la recitazione, e naturalmente l’età non più verde delle corde vocali, si può tranquillamente chiudere un occhio se la voce tradisce qualche affanno nei passaggi più impegnativi. A favore di Geoff pende peraltro l’intensità dell’interpretazione: la sua ugola il sangue fuori da ogni singolo pezzo, come testimonia il travolgente duetto con Pamela Moore in “Suite Sister Mary”: dieci straordinari minuti che i presenti faticheranno non poco a dimenticare. Qualche nota stonata – letteralmente – giunge un po’ a sorpresa dal resto della band: Wilton in particolare non sembra dapprincipio granché in palla, e in un paio di occasioni cicca clamorosamente note che dovrebbe conoscere a menadito. Nulla da recriminare invece sulla prestazione della sezione ritmica e in particolare del solito metronomo Rockenfield, pur visivamente sacrificato in favore dell’ingombrante scenografia. Il pubblico dal canto suo manifesta il proprio entusiasmo accompagnando attivamente ogni brano: l’impressione è che proprio sullo straordinario carisma delle singole canzoni, più che sull’esecuzione in sé, sia fondato il successo della prima parte del concerto. Così, quando la melodia di “Eyes Of A Strangers” sfuma poco a poco nel silenzio, è difficile trovare qualche traccia di insoddisfazione negli sguardi dei presenti.

Dopo una pausa utile a un parziale cambio di scenografia, la band di Seattle torna sul palco per mettere in scena il controverso seguito del Mindcrime originale. Per qualcuno il concerto può considerarsi già finito, ma per tutti resta la curiosità di scoprire se almeno dal vivo i pezzi del secondo capitolo riescano a reggere il confronto con i predecessori. E in questo senso il discorso fatto per la prima frazione dello show si può tranquillamente rovesciare: a livello di contenuti porre qualsiasi paragone fra brani vecchi e nuovi pare quasi oltraggioso – il tempo è trascorso e la vena compositiva non è e non poteva essere più la stessa. Ciò che il nuovo Mindcrime perde a livello di pura qualità musicale, è tuttavia colmato, almeno in parte, proprio a livello formale. È infatti la teatralità della rappresentazione a mantenere vivo l’interesse, grazie alla ricchezza della scenografia, alla continua interazione fra l’istrione Tate e le comparse, al valore aggiunto rappresentato dai video proiettati sul maxischermo alle spalle del palco. C’è poi da dire che la band appare affatto a proprio agio sui nuovi pezzi, a partire dallo stesso Geoff che finalmente può prendere un poco di fiato su linee vocali ragionevolmente meno stressanti per la sua ugola. Il duetto con Ronnie James Dio su “The Chase” può così diventare uno dei momenti più entusiasmanti della serata, mentre il finale offre un crescendo di drammaticità che culmina nel conclusivo ritorno in scena di Pamela Moore, fino all’abbraccio fra che pone il sigillo su una storia ventennale. Di nuovo il pubblico saluta con calore la prova dei nostri: sebbene la partecipazione sui brani del secondo Mindcrime sia apparsa decisamente ridimensionata rispetto a quella, davvero totale, riservata al primo, lo spettacolo è stato del tutto all’altezza.

La rapidità dei saluti e la frettolosa uscita di scena della band lascia tuttavia pensare che i ragazzi di Seattle abbiano ancora qualche sorpresa in serbo per i fan. E infatti ecco che dopo qualche momento di oscurità e silenzio un boato accoglie il loro ritorno sul palco, per un triplice, inatteso encore da “Empire” che non sarebbe esagerato dire valga da solo il prezzo del biglietto. I classici “Jet City Woman”, “Empire” e “Silent Lucidity” infiammano letteralmente il pubblico dell’Alcatraz, il quale certo non si aspettava tanto ben di dio proprio alla fine, e offrono un Tate a dir poco sorprendente, capace di tirar fuori all’ultimo una voce che nessuno gli avrebbe sospettato dopo quasi tre ore di concerto. E quando lo spettacolo finisce, stavolta sul serio, gli applausi sono più che meritati.

Riccardo Angelini