Report: Robert Plant, Palermo (24/7/2003)
“CELEBRATION DAY” PER ROBERT PLANT
Serata storica per l’apertura di “Sonica 2003” a PalermoIl treno che porta all’appuntamento con la leggenda passa una volta sola, quindi è naturale che il biglietto abbia un certo costo: se poi la leggenda si chiama Robert Plant e il treno ferma a Palermo, è giusto che il costo aumenti. Non mi riferisco di certo al prezzo del biglietto, incredibilmente esiguo, che sminuisce il valore dell’artista (anche se risparmiare fa sempre piacere), bensì alla difficoltà nel raggiungere l’appuntamento, valido come serata d’apertura del festival Sonica.
“Il treno passa una volta sola” perché un concerto hard rock nel sud Italia è rarissimo: un evento da non perdere per nessun motivo al mondo. E’ anche vero, però, che per andare da Siracusa a Palermo si deve percorrere un’autostrada le cui pessime condizioni sono purtroppo ben note, ma lo spirito del rock vive “on the road”, e a maggior ragione quello dell’hard rock! Si aggiunge il caldo africano che in questi giorni attanaglia la Sicilia ma, essendo lo show il 24 Luglio, l’afa è già in preventivo.
La difficoltà aumenta in modo esponenziale, però, quando sul posto non si trovano manifesti pubblicitari e non si conoscono le prevendite: scopro, solamente grazie a due ragazzi gentilissimi, Luigi e Lavinia, che l’unica prevendita è alla Ricordi. Pazienza per me, che ho 28 anni (in fondo anche la ressa al botteghino avrebbe fatto parte dello spirito battagliero dell’hard rock), ma è normale che un fan cinquantenne debba fare lo stesso per vedere l’eroe della sua gioventù?
Ogni problema, comunque, muore davanti alla consapevolezza di essere finalmente davanti allo splendido scenario di Villa Trabia. L’attesa è spasmodica: l’apertura dei cancelli avviene alle 20 e i ragazzi corrono per accaparrarsi le prime file. Sono presenti varie fasce d’età: dai fedeli degli anni ’70 ai quindicenni, tutti pronti ad accogliere in Sicilia il padre dell’hard rock mondiale.
Una melodia orientale apre il concerto alle 21.30, introducendo Robert Plant, in camicia a maniche lunghe nonostante il caldo; si alza un boato di circa 2500 voci. Plant inizia con un brano tratto dall’ultimo album “Dreamland”, che contiene cover anni ’60 e ’70, rivisitate con la sperimentazione che da tempo lo contraddistingue: “If I Ever Get Lucky”, un lento blues, che cresce nel finale. Segue la zeppeliniana “Four Sticks”: i ragazzi fotografano il loro idolo, e continueranno per tutta la serata. Si passa poi a “Morning Dew”, lungo brano basato su improvvisazioni di chitarra ed hammond. Si continua con l’hard rock prepotente di “7 + 7 Is”, con duelli chitarristici.
Successivamente, il pubblico esplode, riconoscendo le prime note dell’arpeggio di “Going To California” del 1971: seduto su uno sgabello, Robert ci fa vivere una magia acustica. Si prosegue con la cover di Bob Dylan “Girl From The North Country”, canzone folk con contrabbasso e piano, abbastanza coinvolgente, ma all’annuncio di “Gallows Pole” la gente impazzisce, tanto da alzarsi dalle sedie. Plant, giocando con il microfono e posando in modo teatrale, manda in visibilio i fans.
Sulle note di una stravolta “Hey Joe”, molto divergente dall’interpretazione hendrixiana, ma piena di effetti simili a quelli di “Dazed And Confused”, viene presentata la band: Justin Adams (chitarre, mandolino e strumenti egiziani), Porl Thompson (chitarra), John Baggott (hammond, moog e piano), Charlie Jones (basso e contrabbasso), Clive Deamer (batteria). Gli Strange Sensation sono ottimi strumentisti, ma il ricordo di Jimmy Page, John Paul Jones e John Bonham incombe, inesorabilmente pesante.
L’inferno di Villa Trabia spinge Robert Plant ad un fuori programma molto apprezzato, trattandosi di “Ramble On”: il pubblico rimarrà in piedi fino alla fine dello show. Rimane spazio per un hard rock con intermezzo orientaleggiante, “A House Is Not A Motel”, e per il rock’n’roll a tratti psichedelico, altre volte distorto, di “Tall Cool One”, prima di arrivare alla pura poesia: “Baby, I’m Gonna Leave You”, tratta dal primo album dei Led Zeppelin! Il brano ci mostra un Plant commovente e straziante nelle parti acustiche, graffiante ed incisivo in quelle elettriche: un pezzo epico, un picco d’eccellenza, che chiude la prima parte del concerto con un’intensità d’altri tempi.
La band, richiesta a gran voce, torna sul palco per i bis: la scelta della pur magnifica “Darkness Darkness”, ballad d’atmosfera, ci lascia perplessi, poichè mancano ancora tanti storici successi.
Ogni rimpianto svanisce al riff leggendario di “Whole Lotta Love”, rivisitata in chiave blues nell’intro, psichedelica nella parte centrale, dilatata oltre i dieci minuti, per il delirio dei fans, che saltano in piedi sulle sedie, con tanto entusiasmo, nonostante il caldo. Questa potenza è nulla in confronto a quella sprigionata da Robert Plant, che sopporta un caldo ben maggiore, per via dei riflettori: testimonianza è la sua camicia ormai fradicia di sudore. In realtà non è semplice sudore: è pura gloria! Alle 23.15 si termina, con l’assedio dei cacciatori d’autografi.
Si scatena in me un piccolo conflitto interiore: il mio lato di hard rocker rimpiange la violenza sonora di “Communication Breakdown”, “Heartbreaker”, “Immigrant Song”; il mio lato meno estremo, che apprezza la buona musica (senza offesa, penso di capirne qualcosa di più rispetto a chi sente “Chihuahua”), accetta la svolta stilistica intrapresa da Plant già da molti anni. Questa svolta si estrinseca in un allontanamento dalla seminale via da lui stesso tracciata insieme ai Led Zeppelin più di trenta anni fa, per inseguire ispirazioni folk e blues, nonché suggestioni orientali.
Plant urla meno ed usa di più il diaframma, modulando la voce, senza dubbio più duttile che in passato, anche se non raggiunge le tonalità acute di un tempo. In fondo è normale: i 55 anni sono vicini, ma Robert li porta egregiamente, con buona presenza scenica ed energia da vendere anche ad “artisti” che chiedono un cachet ben più alto, pur avendo uno spessore musicale molto inferiore.
Dal mio punto di vista, Sonica finisce qui, con i più fervidi complimenti agli organizzatori locali e nazionali, prevendite a parte: con tutto il rispetto, le esibizioni passate di Skunk Anansie o Coldplay non reggono il confronto con questa. Plant è come l’Everest, e dietro di lui, purtroppo per il rock, ci sono solo collinette! Robert Plant dimostra con i fatti, e non con chiacchiere promozionali, la sua netta superiorità tecnica e carismatica: un uomo che con coraggio si è rimesso in discussione, senza vivere dei fasti ottenuti con le indelebili composizioni degli anni ’70, magica età dell’oro per l’hard rock, che purtroppo è passata, ma i cui insegnamenti musicali rimarranno immortali.
Giuliano Latina